Artpod / Mario Merz, "Mandria", 1978

13 Maggio 2021
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Nella primavera del 2020 e nell’inverno del 2021 alcuni paesi e città d’Italia sono stati attraversati da animali che di solito vivono altrove: cervi con maestosi palchi di corna, lupi in branco che fiutavano l’aria, codazzi di oche che si guardavano intorno come fossero in gita scolastica. L’arresto delle attività umane, dovuto alla pandemia da Covid19, ha invitato la fauna selvatica ad avvicinarsi alle zone urbane e così, con scatti fotografici silenziati per non impaurirli, questo ritorno del grande rimosso della nostra civiltà – la vita animale – è stato spiato e immortalato. 

 

Quando Mario Merz riprese a produrre opere di arte figurativa, verso la fine degli anni ’70, spuntarono animali, più o meno esotici come coccodrilli, bisonti, o i più nostrani cervi. L’artista dichiarò che si trattava per lui di figure mitiche, in grado di regalargli una forma di leggerezza per la loro carica di indisponibilità e ignoto. “Sono esseri assolutamente solitari non partecipano alla vita della strada”. 

Forse è per questo, perché li abbiamo allontanati dai luoghi in cui viviamo, perché sempre più specie sono a rischio di estinzione, perché nelle loro livree ci sono innumerevoli forme di bellezza, che ci fermiamo a guardarli e che Mario Merz li raffigurò su tele di grandi dimensioni, incombenti, quasi sempre in serie, come nella juta di cinque metri per due della collezione Maramotti che porta il titolo di Mandria

 

Chi sono i quadrupedi raffigurati in un leggero tre quarti senza sfondo, senza suolo su cui poggiare, senza ambientazione, come sul muro di una caverna? Hanno le corna arcuate e per questa ragione potrebbero ricordare bufali. Sono solo tre ma, attraverso alcuni efficaci espedienti grafici e compositivi utilizzati da Merz, ricaviamo l’impressione che siano moltissimi, una mandria per l’appunto. Le piccole forme sferiche bianche e nere, con cui l’artista ha dato l’illusione degli occhi, si replicano anche nel resto del corpo di ciascun animale, decine e decine di occhi ci puntano, moltiplicando l’effetto di presenza.

 

A dire il vero ciascuno dei tre quadrupedi si moltiplica: il contorno nero, rafforzato in alcuni punti dal rosso, dal giallo o dal bianco, non è uno solo, ma è formato da diverse linee, come se un animale ne contenesse altri, o racchiudesse l’intera eredità genetica della propria specie, l’ombra di chi lo ha preceduto, la proiezione di chi verrà. Pur essendo raffigurati in una prospettiva quasi frontale, attraverso l’ombreggiatura delle zampe e la leggera scalatura di piani fra di loro, ne percepiamo il movimento: sono animali vivi, che si muovono e ci guardano; come paiono guardarci, o riflettere il nostro stesso sguardo, i numerosi occhi che emergono in quegli stessi anni nelle opere di Carol Rama. 

 

Tuttavia non sapremmo dire da dove venga o dove vada questa mandria, non c’è paesaggio che la racchiuda o le faccia da orizzonte. Questi tre animali hanno l’assolutezza che si produce con le immagini dei sogni, la qualità onirica che definisce i dettagli, li evoca in tutta la loro esattezza percettiva, ma li decontestualizza, elevandoli a simboli o astrazioni. E d’altra parte che cosa c’è di più decontestualizzato, nella nostra società, degli animali? A molti di loro abbiamo sottratto spazi vitali e consegnato inquinamento, habitat inospitali. Con quali animali abbiamo contatto, a parte quelli domestici e quelli morti e confezionati dei supermercati?

 

Eppure da qualche parte nella memoria tramandata dai nostri antenati è ben presente l’ammirazione, la paura e il bisogno che di questi abitanti della Terra abbiamo sempre avuto. Ce lo testimoniano le pitture rupestri e l’incanto che ci prende, quando ci capita di averne davanti uno. 

Mandria di Mario Merz ci riporta alla nostra radice animale, ci ricorda che non siamo solo noi a guardare loro, ma che essi stessi ci guardano, attoniti e stupiti di quanto varia sia la vita organica su questo pianeta e di quanto intrinseco sia il legame che ci unisce.

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