Un’antropologia del conoscere / Michel Serres, Roma. Il libro delle fondazioni

20 Gennaio 2022

“Confesso, come è stato per molti, di aver disprezzato Roma. Popolo ottuso, rude e guerriero”. Così scriveva Michel Serres in Roma. Il libro delle fondazioni (1983) che Mimesis ha da poco ristampato nella traduzione apparsa nel 1991 per Hopefulmonster, dovuta all’architetto fiorentino Roberto Berardi. In Grecia il logos dà origine alle idealità formali della filosofia e della matematica, a Gerusalemme il soffio dello spirito s’incarna nel tempo e nello scritto; Roma invece non dialoga, non decifra il libro, non si preoccupa di accedere alla verità o alla bellezza. Eppure, rileggere Ab urbe condita di Tito Livio consente di trovare delle vene d’oro nella roccia in apparenza sterile. Che la filosofia si trovi in luoghi inattesi è quanto Serres ci ha insegnato, dagli anni Sessanta fino alla morte nel 2019: nei racconti di Balzac o nei romanzi di Zola, sulle tele di La Tour, di Carpaccio o di Turner, se non nei fumetti di Tintin. In modo simile all’Egitto, suggerirà Statues (Grasset, 1987) – il secondo libro delle fondazioni, dopo Roma, il terzo sarà Le origini della geometria (Feltrinelli, 1993) –, Roma risiede dentro i suoi gesti, incarna il materiale, la cosa (res), quel che l’idealismo ci fa odiare. “Roma è tetragona e ottusa come la pietra, nera come le viscere di una pietra, non è mai trasparente come la piramide o il tetraedro dell’epifania greca; e non è mai moltiplicata, come l’interpretazione ebraica, sullo spazio bianco del deserto”.

 

La grecità esce dalla caverna dove stanno l’oscurità (Platone) e i mostri (Ulisse) per muovere verso il sole dell’ideale; Roma ci richiama invece all’interno, cattura la luce e la nasconde nella massa opaca (il termine “latino” non si apparenta forse a “latente”?). Mentre la luce uscente dalla piramide di cui Talete misura l’altezza, fa nascere la geometria, dalla tomba che chiude dentro di sé la luce compare l’oggetto: la fisica è la geometria delle cose. Forse è per questo che Serres ha preferito ritrovare nei versi del latino Lucrezio, piuttosto che nel greco Epicuro, l’annuncio della fisica contemporanea, quella di Ilya Prigogine che rinnova il clinamen, lo scarto infinitesimo e casuale del moto degli atomi (Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, 1977). Roma è di pietra, non inventiva né riflessiva, la sua saggezza sta nel costruire, anche per impedire alle pietre di diventare proiettili: si lapida meglio tra le macerie o nei cantieri abbandonati. 

 

Mentre Atene e Gerusalemme (di)spiegano fino a rendere l’oggetto desertico, Roma chiude la caverna, afferra la comprensione e ve la piega dentro. Roma è la fornace dove il fuoco si concentra, come nel tempio di Vesta, l’Hestia dei greci, dea del focolare, che un famoso saggio di Jean Pierre Vernant ricorda contrapposta ad Ermes (Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, 1970). Serres aveva raccolto i suoi scritti degli anni Sessanta e Settanta nei cinque volumi dedicati a Hermès (Éditions de Minuit); l’ultimo, Il passaggio a Nord-Ovest, apparso nel 1980, è il solo tradotto (Pratiche, 1984). Il messaggero degli dei e custode degli incroci era l’emblema del “nomadismo strutturale”, di una filosofia del trasporto che affidava alle formalità matematiche il compito di percorrere il Paese d’Enciclopedia. Era la lezione di Bourbaki (e di Lévi-Strauss), scorgere le isomorfie al di là delle differenze dei contenuti e delle regioni del sapere, ma era anche la strada indicata da Georges Dumézil, l’autore di La religione romana arcaica (Rizzoli, 1977). 

 

Se Ermes invita al vagabondaggio, ad unire col suo volo leggero “forze della natura e forme della cultura” (sono parole di un lettore di Serres, Italo Calvino, che farà di Mercurio il nume tutelare della sua idea di letteratura nelle Lezioni americane), Hestia disegna una epistemologia opposta e complementare: è il discorso centrato, arcaico, quello della fondazione, del punto fisso che consente la stabilità. Il verbo condere, a cui rimanda la Storia di Roma composta da Tito Livio nei primi anni dell’era cristiana, non significa solo fondare e narrare, indica in primo luogo il custodire chiudendo in un sepolcro. Gaspare Polizzi – lo studioso che più si è speso per far conoscere Serres in Italia – ricorda, nell’introduzione a Roma, che Andrea Carandini indicava all’origine del termine il gesto di nascondere in una fossa prodotti agricoli e armi connessi alla fondazione di un abitato. Il rito della inauguratio, aperto dall’osservazione del volo degli uccelli da parte degli aùguri, prevedeva di definire l’area di un terreno tracciando un solco mediante il vomere di un aratro. Era la ripetizione del gesto di Romolo, prima di uccidere il fratello colpevole di aver varcato il solco; eccoci di fronte a “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”, come recita il titolo del libro di René Girard (1978, Adelphi, 1983), che Serres in Roma ringrazia per averlo accolto all’università di Stanford. La pratica sacrificale è il gesto dell’origine, quello che l’eternità di Roma rinnova con il perenne ritorno del rituale omicida. 

 

Le fondazioni sono immerse nell’ombra, occultate come il fuoco al centro del tempio circolare dell’Aedes Vestae. Prima del fratricidio a cui Tito Livio fa risalire la nascita della Città, Marte ha stuprato la vestale Rea Silvia, rendendola madre dei gemelli. La legge prevedeva, racconta Plutarco, che le vestali colpevoli di non aver rispettato il voto di castità fossero condotte in una cripta sotterranea, il cui ingresso veniva poi sommerso di terra. La madre di Roma è sepolta viva, la sua sorte è una variante del linciaggio rituale, quello che toccherà a Tarpeia, sepolta sotto gli scudi dei Sabini che assediano Roma, lapidata con i loro bracciali. Prima che la terra accolga il cadavere del figlio, vi è l’assassinio di una donna innocente: “fondazione della fondazione, tomba sotto tomba”, scrive Serres. Anche la piramide di Talete era una tomba sotto le cui pietre si celava il cadavere mummificato: episteme, la scienza, si apparenta ad epistema, il cippo funerario, “fondamento, in una tomba, del sapere della fondazione”.

 

Roma delinea un’antropologia del conoscere opposta a quella che la nostra tradizione, platonica (ed ancor prima iranica), ha privilegiato: non vuole dissolvere l’ombra per mezzo di analisi e decifrazione, disfare il nodo complesso in sequenze di fili, nel gesto dello svelamento, dell’aletheia. Roma propone una teoria della conoscenza adèla, riconosce l’importanza del non manifesto, di quel che si nasconde nell’oscurità, evita di strappare alla piega quel che essa custodisce. Siamo “viaggiatori del chiaroscuro”, ricorda Serres: la chiarezza ha sempre un costo di oscurità, l’ombra accompagna sempre anche il sapere luminoso. Roma ci offre una pratica dell’implicazione, non lavora solo nella notte analitica in cui Penelope disfa la sua tela: compie un’opera di tessitura, replica il gesto femminile di annodare, di associare formando complessi. Auspico l’avvento, scrive Serres, di una desmologia (dal greco desmos, legame), di un sapere dei nodi e delle pieghe: è la pratica della massaia e del panettiere, ma anche quella del marinaio e dell’alpinista, in cui Serres vantava una lunga consuetudine.

 

La topologia fine della trasformazione del fornaio, che impasta, stende e ripiega una massa amorfa, produce un insieme complesso, dove ogni piega porta memoria del tempo che penetra dentro le sfoglie. I semplicisti privilegiano “l’immane potenza del negativo”, credono che ogni progresso passi dalla lotta fra i contrari, praticano la logica dell’esclusione: l’analisi squama e distrugge, dispone in lunghe catene di ragioni, prepara la logica marziale di Alessandro che taglia con la spada il nodo di Gordio. La semplificazione apre il cammino alla violenza e alla guerra: simplex sigillum belli, al contrario del motto della scolastica, simplex sigillum veri. Non sapendo pensare l’implicazione e l’inclusione, la ragione analitica ha rimosso la mescolanza, ha ridotto il tempo, anche quello della storia, a successione lineare. “Il tempo è la scrittura della panettiera”, suggerisce Serres: tragitto browniano di circostanze che fluttuano in una pasta piegata molte volte. Se la panettiera sapesse scrivere, lo farebbe seguendo pigramente il volo di una mosca, la pieghettatura capricciosa delle proteine, la costa di Bretagna, il margine turbolento di una massa di nubi. L’andamento della storia è un continuo sbandamento, ricordava Musil: “non è quello di una palla di biliardo […], ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade”.

 

Cinque anni dopo, nel 1988, nelle pagine di La piega. Leibniz e il barocco (Einaudi, 1990), Gilles Deleuze riconoscerà il suo debito verso le suggestioni di Serres, di cui cita più volte Le système de Leibniz et ses modèles mathématiques (Puf, 1968), rilettura strutturale del filosofo delle monadi. “Nessuno meglio di Michel Serres ha saputo sviluppare le conseguenze ma anche i presupposti della nuova teoria delle coniche ...”. Ad accomunarli è l’ammirazione per Leibniz, il filosofo della modernità che riconosce il ruolo primario del molteplice, di quel che, alla lettera, si piega molte volte, come nel cuore delle monadi (anche se nello spinoziano Deleuze il molteplice resta manifestazione dell’Uno-Tutto, della “potente vita non-organica che rinserra il mondo”). In principio è il grande numero, la distribuzione (sottotitolo del quarto volume di Hermès), caos informe e insieme confuso, il rumore di fondo delle cose da cui si compone un sistema ordinato. Il modello era stato rintracciato nel De rerum natura lucreziano: nella turba, moltitudine in tumulto, massa fluttuante e amorfa (il greco turbé è la folle danza in onore di Dioniso), un’inclinazione infinitesima e aleatoria produce il turbo, spirale che gira vorticosamente. Il turbine è una sacca di neghentropia che si conserva per qualche istante, secondi o secoli, prima forma della complessità organizzata che resiste alla deriva verso l’indifferenziato. 

 

In principio è la Noise, suggerirà Genesi (1982, il melangolo, 1988), termine, francese ed inglese, che designa il rumore delle cose ed il furore fra gli uomini, mélange confuso da cui, ricorderà la cibernetica di von Foerster, può costituirsi la forma, order from noise. In un racconto di Balzac, Il capolavoro sconosciuto – Italo Calvino lo ricorderà nelle Lezioni americane (1985) –, La belle noiseuse è il titolo del dipinto dell’immaginario pittore Frenhofer. Sulla tela, dove si ammassa un caos di colori, tonalità e sfumature indecise, ecco apparire la forma perfetta di un piede, bellezza nascente dal molteplice indeterminato. Se Il passaggio a Nord-Ovest poteva affermare “il nostro problema è la complessità”, cioè quel che si intreccia insieme, Genesi elabora “concetti a molteplicità”: cerca di pensare, con il rigore concesso dalle nozioni delle matematiche e delle scienze contemporanee, le dinamiche caotiche che governano l’incerto fluire di insiemi flou, indistinti e dai contorni sfumati. Se la tradizione filosofica (Platone docet) ha imposto al molteplice il destino di venire irretito nell’unità del concetto, i capitoli di Roma si rivolgono tutti, fin dal titolo, al molteplice.

 

 

Ecco mandrie di buoi che pascolano in riva al fiume, folle romane in agitazione, legioni pronte alla battaglia, contadini alla mietitura, cavalleria nemica alla carica, clamori, acclamazioni. La distribuzione caotica, secondo il modello della dispersione degli atomi, viene attratta in senso newtoniano dalla logica marziale, dalla potenza di integrazione con cui la Città eterna sottomette i suoi rivali. A cominciare da Alba, spazio uterino di cui Roma sarà la figlia matricida, “la molteplicità bianca”, governata dalla gens Silvia, germogliata dalle foreste. Prima di venire smembrato tra due quadriglie di cavalli, il dittatore di Alba, Mettio, è circondato da centurioni romani, posto al centro di una circostanza, secondo quello schema a stella – il morituro solo e attorno il multiplo minaccioso – che scandisce la storia di Roma. Anche di Remo si racconta che non fu il gemello ad ucciderlo, ma che fosse caduto sotto i colpi della folla: Ibi in turba ictus Remus cecidit, scrive Tito Livio. Così avviene anche alla morte di Romolo: il re scompare nella turbolenza, nel corso di un uragano o nello smembramento rituale della folla. Il figlio fratricida della lupa è assunto in cielo e acclamato come dio: apoteosi, dalla violenza al sacro, per dirla con Girard. Attorno al trono vuoto si forma una corona densa, un anello compatto dove stanno i Padri, il Senato, mentre ancora più in là aumenta la dispersione e la folla fugge, nuvola caotica di incontri. Si sussurra però che Romolo sia stato ucciso dai Padri e che ognuno si sia portato via un pezzo delle sue carni, nascosto nelle pieghe della veste: dalla partizione del cadavere alla spartizione del potere, origine nascosta dell’imperio.

 

La festa commemorativa dell’episodio venne chiamata Poplifugia, la fuga della popolazione; i Romani escono di casa per celebrare sacrifici e gridano dei nomi propri, mentre le donne si tirano delle pietre. La folla fa rumore, fragor, si disperde in frammenti, i nomi radunano: il collettivo in agitazione, turba circumfusa, si coagula in un vortice in cui si addensa la “molteplicità in frantumi”. Tramite il linciaggio la moltitudine si fa assemblea, l’esposizione alle voci produce l’elezione per acclamazione, l’unanimità del suffragio, ciò che giace sotto lo schianto, rumore dell’uragano e tumulto della folla. I Padri dissimulano le membra del re, le pietre volano fra le donne, i nomi passano in mezzo al popolo: un quasi-oggetto circola nel multiplo, ed è così che il collettivo prende forma, non con l’illusorio contratto del pensiero politico della modernità, neppure mediante un’immaginaria volontà generale. Per costituire il noi, per radunare il molteplice, la condizione primaria è che ci sia un gettone bianco che passa da corpo a corpo, un jolly che corre dentro l’insieme e ne trasforma le relazioni da fluttuanti a stabili. 

 

Forse, suggerisce Serres, ho scritto Roma per mettere in luce questo “nuovo luogo trascendentale”, il miscuglio variegato del paesaggio, dai margini imprecisi, che è lo spazio della storia. Non uno spazio universale e omogeneo, euclideo o cartesiano, ma uno spazio topologico, o meglio un mosaico di spazi commisti dove le cose variano per prossimità e lontananza. Solo raramente questi spazi sono infilati gli uni negli altri come bambole russe: è il caso in cui il vincente sta al livello più alto, è l’illusione del Leviatano, l’organigramma immaginario del potere in forma piramidale. Abbiamo a lungo pensato la società e la storia secondo il modello delle scienze dure, della fisica dell’inerte o del combinarsi delle particelle chimiche, dove i gruppi formano scatole rigide. Le scienze umane e la storia rinviano invece allo spazio tessile dei sacchi di tela, che si piegano e avvolgono. “Ci manca, in filosofia, un buon organon delle stoffe: al quale spesso penso”, scrive Serres. Logiche molli di spazi nebulosi, tessuti deformabili e inclusivi, dove le moltitudini formano insiemi dai margini confusi, che si espandono e contraggono. 

 

Anche Roma è un insieme indistinto, non conosce rigide partizioni d’ordine o lotta fra le classi, la sua plebe è una moltitudine fluttuante. Roma esiste come molteplicità non standard, di qui il bisogno di essere fondata continuamente: nube oscillante in cui non è dominante il criterio del terzo escluso, base della logica, lo stesso che impone di chiudere con le mura il terreno recintato, e a cui corrisponde in antropologia il meccanismo del capro espiatorio. Roma non traccia una linea netta che chiuda le porte della città e fissi l’appartenenza, resta sospesa in una sorta di zona grigia, dove il gesto ospitale convive con la minaccia ostile. Tutta la storia di Tito Livio, da Enea a Coriolano, è una meditazione sul principio d’incertezza che si stende fra hostes e hospites: una zona d’asilo percorsa da sottoinsiemi nebulosi, dove l’esclusione non dimentica il diritto di cittadinanza. Enea e Antenore sono sfuggiti al massacro di Troia, forse perché erano stati consiglieri di pace quando suggerirono che Elena, in quanto ospite, potesse decidere di tornare a casa. L’ospite è il terzo, incluso in nome dell’obbligo, antico e raro, dell’accoglienza che si oppone al male ancestrale dell’esclusione. Prima di trasformarsi in nemici, Albani, Sabini e Volsci sono stati ospiti, invitati alle feste di Roma. Mettio Curzio, all’assalto di un drappello romano in fuga, guidato da Hostius Hostilius, grida: perfidos hospites, imbelles hostes, “ospiti ingannatori e pessimi combattenti”, come se i Romani avessero violato entrambi i diritti. Anche i Tarquini erano stranieri, ospiti giunti dall’Etruria, abili a farsi tutori di principi grazie all’accoglienza della loro tavola; una volta re, si rendono detestabili e sono espulsi: è la logica del parassita, su cui Serres aveva meditato in Le parasite (Grasset, 1980; a quando la traduzione?). 

 

Se la Città eterna ha potuto conservarsi è perché ha conosciuto l’eccezione rispetto alla logica dell’ostilità. Sparta, che ha vissuto del terzo escluso, non è entrata nella storia: ha inseguito la purezza dell’ideale aristocratico, cercando di eternarsi nel rigore delle classificazioni, ma è di quest’eccesso di matematica che è morta, ricorda Serres. L’età classica (da classis, la fila ordinata dei combattenti), quella di Hobbes e di Newton, pensa la società in stato di guerra, il bellum omnium contra omnes, la pensa cioè razionale. Marte acquieta e mette in ordine la violenza: il clamore delirante del molteplice è proiettato sull’eroe, soluzione dei barbari, oppure concentrato nelle schiere, come fanno i Romani. Nel primo caso il molteplice è ordinato dall’uno, nel secondo unificato dall’ordine.

 

La violenza e l’odio producono molteplicità standard, la guerra fa di una collettività disparata un’unità coalizzata contro il nemico, riporta ad uno stato omogeneo. Ma quando giunge la peste, il molteplice rimane variegato, crolla il principio d’individuazione come nell’ebbrezza dionisiaca. In quell’occasione, ricorda Tito Livio, a Roma si tiene una celebrazione, il Lectisternio, istituito come farmaco contro la peste: simulacri di dodici dei (stranieri per antonomasia) vengono fatti sedere a mensa dove viene servita la Satura, un piatto composito di verdure e frutta, da cui poi il miscuglio dei generi in letteratura. In città le porte delle case si spalancano per accogliere sconosciuti, i nemici stessi diventano ospiti. In greco, celebrazione si dice teoxenia, termine per indicare un dio che protegge lo straniero: xenos è l’ospite, il parassita invitato al banchetto e il batterio invasivo. 

 

Quel che Roma ci offre sono modelli per pensare la società e la storia nei quali emerge il lavoro primordiale del multiplo, anteriore a qualsiasi configurazione: folla turbolenta, peste contagiosa, clamor e fragor, tumulto e sommossa, fluttuazioni plurime del molteplice nell’oscillazione continua fra la fluidità dispersa e il coagularsi nell’unità cristallizzata. Quando il molteplice si scaglia sull’uno si ha la pratica sacrificale; quando l’uno sacrifica la molteplicità abbiamo lo stato di guerra, che rende dure e definite le partizioni. “Non è mai il lavoro del negativo a trasformare le cose: è il lavoro delle molteplicità”, scrive Serres. Il racconto storico coglie solo lo spettacolo del duello a morte, la rivalità fra gemelli, perde la nuvola energetica del caos che li contorna. La dialettica non è che messa in scena, rappresentazione teatrale (Corneille e Shakespeare troveranno di che ispirarsi in Tito Livio), il mestiere delle armi è semplice prova di forza sul teatro delle operazioni.

 

È il contrasto fra solido e liquido ad assumere funzione di criterio, per chi come Serres, filosofo del mare, auspicava, nel Lucrezio, l’avvento dell’età delle acque. La fondazione ripetuta di Roma è il gesto che rende solida la fluidità della folla, è una transizione di fase, il passaggio dalle acque alla pietra. “Restano da fondare città, scienza o conoscenza che non siano più fondate, come le nostre, sulla morte e sulla distruzione”. Quando caccia il suo ultimo re, il Superbo, il grano delle terre dei Tarquini, consacrate a Marte, non può essere consumato; la mietitura viene gettata nel Tevere su banchi di sabbia e fango, si forma un’isola su cui edificare templi. Le buone fondazioni si fanno su ciò che è mobile, su quanto cola, sul tempo, il solido viene eroso e scivola via, il liquido è il più solido e permanente degli esseri. Quel giorno di mietitura fu il solo in cui non si uccise, Marte, padre di Roma, per una volta si è assentato. “Lasciate che il molteplice pascoli in pace: svanirà la tragedia”, conclude Serres: che sia un altro modo per dar voce all’utopia pulviscolare cara a Italo Calvino? 

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