Ricordi di un grande collezionista / Morandi. Vasi greci e capponi

10 Agosto 2020

Scavalcare il soggetto

 

La pittura di Giorgio Morandi? Inattuale, decisamente inattuale, quindi contemporanea. Chi è veramente contemporaneo aderisce al proprio tempo attraverso una sfasatura, sostiene Giorgio Agamben rielaborando il concetto di “unzeitgemäß” utilizzato da Friedrich Nietzsche nella sua critica allo storicismo (Sull'utilità e il danno della storia per la nostra vita, 1874).

 

Giorgio Morandi e Luigi Magnani nella casa-studio dell’artista a Bologna, 1964. Fotografia di Ugo Mulas.


Dell’inattualità nietzschiana di Morandi scrive il suo amico musicologo, compositore, scrittore e collezionista Luigi Magnani a pagina 35 del libro Il mio Morandi, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1982. Il volume è stato ristampato nel mese di marzo da Johan & Levi, in concomitanza con la mostra dedicata a Magnani, L’ultimo romantico, allestita presso la Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, Parma. Le visite alla mostra sono state interrotte a causa dell’emergenza sanitaria, ma la Fondazione, che riaprirà al pubblico dal 12 settembre al 13 dicembre 2020, ospita una collezione permanente con opere di Dürer, Tiziano, Rubens, Goya, Monet, Renoir, Canova, oltre che di Morandi e di Cézanne, i due artisti moderni più amati dal collezionista. 

 

Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, Parma. Veduta di una sala.


“Ciò che mi affascina è la forma, tanto è vero che tra i moderni ho scelto Cézanne e Morandi, che non hanno alcun contenuto” dichiara Magnani in un’intervista rilasciata a Carlo Bertelli (Il Giornale dell’Arte, n°18, dicembre 1984). Dell’opera di Cézanne lo affascina la sintesi geometrica dello spazio e dei volumi, che il Cubismo riprende e sviluppa, secondo Giulio Carlo Argan, in rapporto al razionalismo di fondo della tradizione culturale francese. Da qui l’aspetto cartesiano della proiezione sul piano, contrapposta alla costruzione prospettica che, a parere di Cesare Brandi, ritroviamo anche nell’opera grafica e pittorica di Morandi. In Morandi. Lungo il cammino, pubblicato nella rivista Le Arti (marzo 1939), ampliato in monografia nel 1942 e ristampato nel 2014 da Castelvecchi, Brandi nota che nell’opera di Morandi “v’è un gusto della proiezione piana, che è certamente antitetica allo scortare dei primi quattrocentisti”. L’opposizione tra i due codici visivi ha delle implicazioni filosofiche.

 

Giorgio Morandi, Natura morta, 1953. Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, Parma.


In Disegnare e conoscere (Einaudi, Torino 2004, pp. 452-453) Giuseppe di Napoli analizza alcuni aspetti del disegno geometrico, rilevando che la prospettiva lineare privilegia l’osservatore, rispetto al quale la forma dell’oggetto appare diversa man mano che il suo occhio si sposta, mentre le proiezioni ortografiche mostrano l’oggetto da un punto di vista all’infinito nel quale nessun osservatore potrà mai collocarsi. Di conseguenza la prospettiva lineare salva il soggetto perdendo l’oggetto e, viceversa, la proiezione ortografica salva l’oggetto perdendo il soggetto. 

 

Giorgio Morandi, Natura morta, matita su carta, 1961. Centro Studi Giorgio Morandi, Bologna.


Sospesi fra il piano orizzontale e quello verticale, gli oggetti dipinti e disegnati da Morandi restano incerti sul da farsi. Su quale piano ortografico si proietteranno i vasi, le tazze e le bottiglie? Questa domanda si ripete di foglio in foglio e di quadro in quadro, sistematicamente. La sospensione degli oggetti, immersi nella luce cerulea dei dipinti, desta meraviglia. È ancora Brandi a segnalare che nella pittura di Morandi le relazioni spaziali sono assorbite dal colore e dalla luce. Dipingere (o scolpire) la luce è cosa ben difficile, soprattutto se questa è quella che l’occhio non ha ancora visto e che la pittura o la scultura fanno vedere. La Tersicore di Antonio Canova, inclusa nella collezione permanente della Fondazione Magnani Rocca, testimonia la difficile impresa di conciliare la luce naturale che illumina la scultura con quella che l’artista mostra attraverso la sua opera.

 

Antonio Canova, Tersicore, marmo, 1811. Sullo sfondo un dipinto di Julien de Parme e la console con orologio-carillon appartenuta a Napoleone I. Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, Parma.


“Lei non può immaginare, caro Magnani, quanto sia difficile abituarsi a una luce nuova”, commenta Morandi a proposito della nuova illuminazione del suo studio provocata dalla demolizione di due fabbricati prospicienti (p. 49). La costruzione pittorica dello spazio, regolata da una misura classica (l’artista aderisce al movimento Valori plastici, impegnato a promuovere attraverso attività editoriali, espositive e di mercato un “ritorno all’ordine”), viene assorbita dalla luce sprigionata dai colori “rinunziatari”, una luce che esiste solo nei quadri dipinti da Morandi, abitati da oggetti cartesiani.

Questo tentativo di rappresentare attraverso la pittura l’indipendenza dell’oggetto è avvertito da Magnani come un anelito spirituale, tanto che, nel corso della sua prima visita allo studio bolognese dell’artista, rileva l’aspetto monacale del luogo dominato dal cavalletto del pittore, che definisce “un piccolo altare” (p. 23). Su questo cavalletto rimase l’ultima opera dipinta dall’artista il giorno della sua morte. 

 

Casa Morandi, Bologna.


Richiamando l’attenzione su questo quadro, Massimo Recalcati dà l’avvio a una riflessione sull’inattualità dell’opera dell’artista associandola a una “speciale e radicalissima sovratemporalità”. L’inattualità di Morandi non sarebbe per Recalcati quella della critica di Nietzsche allo storicismo, richiamata da Magnani nel suo libro, ma “quel rapporto fondamentale dell’opera d’arte con la Cosa che risulta necessariamente irriducibile al tempo storico” (L’immagine-segno. Giorgio Morandi e la poetica del vuoto, in Psicoart. La psicologia dell’arte a Bologna, 14 settembre 2014). Recalcati adotta il paradigma lacaniano dell'arte come organizzazione del vuoto per un’analisi psicologica dell’opera di Morandi. 

È un’interpretazione interessante, alla quale possiamo affiancarne delle altre. Fra queste quella precedentemente illustrata, fondata sull’analisi dei codici visivi e delle tecniche impiegate dall’artista, che scavalca il soggetto e la sua psicologia. Spiegando a Magnani le ragioni per le quali un’opera a lui destinata si trovava ancora in lavorazione, Morandi indica un piccolo tassello di pittura dicendo: “C’è qualcosa che ancora non va, ma ora credo almeno di saperlo… Vede, credo sia proprio qui, in questo punto” (p. 42). 

 

Il testo di Magnani è corredato dallo scambio epistolare intercorso tra l’artista e il collezionista, scambio dal quale poco o nulla della ricerca artistica trapela. Il cattivo tempo, i reumatismi, gli impegni presi con i collezionisti, l’uva termarina, il burro fresco e i doni natalizi riempiono le brevi lettere che Morandi invia a Magnani. “Carissimo Magnani, non trovo parole adatte per ringraziarla dello stupendo vaso greco che tanto gentilmente mi ha inviato. È stata per me una sorpresa. Non avrei mai sognato di possedere un oggetto di tanto pregio e tanto bello. Le mie sorelle mi dicono di ringraziarLa tanto del cappone”, scrive in una lettera inviata a Magnani il 22 dicembre 1959. 

Capponi e vasi greci: la provincia emiliana e il mondo classico, ricostruito nel laboratorio artistico e culturale di Valori plastici, trovano nell’opera di Morandi un’inedita combinazione.

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