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Candellieri e Favero: un mondo sacro e profano ci salverà

6 Luglio 2025

Per l’ottavo appuntamento della nostra rubrica bimestrale di conversazioni psicosociali, facciamo tappa a Torino, dove abbiamo incontrato quelli che potremmo definire i Fruttero & Lucentini della psicologia junghiana italiana: Stefano Candellieri e Davide Favero. Il primo, milanese di origine ma torinese d’adozione; il secondo, torinese doc e torinista.

Insieme, sono i fondatori del Centro Medico Psicologico Torinese, oggi un grande studio psicologico che fa dell’interdisciplinarietà il suo fiore all’occhiello, oltre a essere un punto di riferimento clinico e formativo per l’intera area piemontese.

Stefano Candellieri è medico chirurgo, specialista in psichiatria e psicoterapeuta ad orientamento adleriano e junghiano, ex alpino. Nato a Milano, ha scelto Torino come città d’adozione, dove oggi vive e lavora. Dopo la laurea in Medicina e la specializzazione in Psicologia Clinica, ha avviato un’intensa attività clinica e formativa, integrando pratica terapeutica, supervisione e divulgazione culturale. I suoi ambiti di interesse includono la riflessione sull’immaginario contemporaneo, con uno sguardo critico e creativo sul ruolo dello psicoanalista nella società di oggi. Davide Favero, psicologo clinico e psicoterapeuta, è nato e cresciuto a Torino. Specializzatosi in psicodramma, in seguito è diventato analista junghiano; direttore della rivista di psicologia analitica Enkelados, supervisore, unisce alla pratica clinica un costante impegno teorico e formativo. È noto per il suo lavoro sul simbolismo archetipico e semiotico. Insieme, Candellieri e Favero incarnano una nuova generazione di analisti junghiani italiani, capaci di coniugare profondità teorica, sensibilità clinica e un originale spirito di collaborazione. Per Moretti & Vitali hanno pubblicato Hyde Park. Officina di psicoanalisi potenziale (2019), e come curatori Riconoscere l'Altro. Teorie e clinica (2021), e Sensi migranti. Le identità del contemporaneo (2023). Da qualche settimana è in libreria Le lingue che curano (2025).

Nel saggio La Crise de l’esprit (La crisi della mente, 1919), il poeta Paul Valéry esprime una profonda disillusione nei confronti della Prima Guerra Mondiale, riconoscendo la fragilità — e dunque la mortalità — delle civiltà moderne. Scrive: "Noi, civiltà moderne, abbiamo imparato a riconoscere di essere mortali come le altre. [...] Sentiamo che una civiltà è fragile come una vita." Nello stesso anno, William Butler Yeats compone The Second Coming, un poema emblematico che riflette il senso di disordine e trasformazione dell’epoca post-bellica. In esso, Yeats esplora — come Valéry — il tema della crisi spirituale e culturale, evocando l’immagine di un mondo in frantumi in cui “il centro non può reggere”. A più di un secolo di distanza, ci ritroviamo ancora una volta in un’epoca segnata dal tumulto e dall’incertezza…

Tu citi due grandi poeti, Paul Valéry e William Butler Yeats, che rifletterono in modo acuto sulla catastrofe della Prima Guerra Mondiale e sul mondo che ne usciva, e lo fai giustamente, perché i poeti e gli artisti in generale sono gli intellettuali che hanno lo sguardo più penetrante nel comprendere la società, spesso intuendone e anticipandone gli sviluppi. Già Aristotele nella sua Poetica sosteneva che i poeti sono superiori agli storici, perché non si fermano ai fatti particolari, ma hanno uno sguardo più profondo e universale, più psicologico potremmo dire oggi. Per inciso, ai poeti che tu citi ne dobbiamo aggiungere almeno un terzo coevo, perché anche La terra desolata di T.S. Eliot, lo straordinario poemetto pubblicato nel 1922 e che ha contribuito in modo determinante al conferimento del Nobel al poeta nel 1948, è una riflessione amara sul mondo che usciva dalla Prima Guerra Mondiale e dalla pandemia di influenza Spagnola. Per Eliot un elemento centrale della profonda crisi di questo mondo “desolato” era la moderna rottura dell’universo mitico tradizionale su cui la società europea aveva per secoli poggiato le proprie fondamenta, una rottura da cui non poteva non originare un profondo disorientamento psicologico e sociale.

Negli stessi anni, Jung, nel saggio “Wotan”, affermava che la perdita di spiritualità (e quindi del mito) è stata una delle cause profonde dei conflitti mondiali.

Esatto. Rimanendo su Eliot, in particolare, nel terzo segmento del poemetto, “Il sermone del fuoco”, troviamo un moderno Re Pescatore, immagine mitica della storia del Graal ma collegata ai riti di vegetazione precristiani, pescare tra i topi in uno squallido canale suburbano all’ombra di un gasometro, straniante allegoria della Cappella del Graal: il tessuto mitico è interrotto e la “pesca” del Re Pescatore, equivalente narrativo dell’atto cristiano della salvazione, non salva più nessuno, nessuna rinascita è possibile, la terra è divenuta sterile prima ancora che desolata.

E oggi, in che epoca stiamo vivendo?

Oggi, a distanza di un secolo siamo di nuovo, come tu dicevi, in un’epoca tumultuosa e in un mondo nuovamente arido e desolato, ma con un problema in più rispetto al passato: mancano poeti che non solo siano in grado di raccontarci quanto stiamo vivendo, ma che, stimolando la nostra immaginazione, ci forniscano anche uno strumento di cura per i mali che ci affliggono. Nella conversazione che abbiamo avuto con te online all’inizio della pandemia ("C.G. Jung, Covid-19 & il tempo sospeso", 2020), evocavamo già la necessità – a fianco della rianimazione ospedaliera che in quel periodo era la trincea della lotta al Covid-19 – di una “rianimazione sociale” che avesse nell’arte il proprio cuore pulsante.

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Nel mio libro Lockdown Therapy: Jungian Perspectives on How the Pandemic Changed Psychoanalysis (Routledge, 2022), al quale avete contribuito, affrontavo in profondità le trasformazioni psicologiche e culturali indotte dalla pandemia di COVID-19, esplorando come il lockdown abbia radicalmente modificato il modo di intendere la psiche, la relazione terapeutica e il senso di comunità. Eppure, è forse Michel Houellebecq ad aver colto con maggiore lucidità le dinamiche di fondo: il declino spirituale e culturale dell’Occidente, le derive di una società individualista e disincantata — tematiche che la pandemia non ha fatto altro che esacerbare. Quella crisi profonda della modernità occidentale, su cui Houellebecq ha spesso scritto con anticipo profetico, è proprio ciò che Lockdown Therapy ha tentato di sondare da una prospettiva junghiana.

Nella psicologia degli individui sappiamo bene quanto l’assenza di capacità onirica e immaginativa sia dannosa per la mente, lo stesso vale per la società. Per questo i poeti e gli artisti sono fondamentali, perché sono una sorta di generatore collettivo di immaginazione, unico vero antidoto al concretismo e al letteralismo di ogni potere, politico e/o economico che sia. Pare che uno dei motti del ’68 francese, con un capovolgimento straordinario del conformistico senso comune, fosse “noi non vogliamo fatti, ma parole”. È proprio così, abbiamo bisogno di immagini e di parole, e un elemento di allarme nel mondo a noi contemporaneo è che tutto questo è piuttosto carente, il mondo sta diventando emozionalmente afasico. 

La psicoanalisi si occupa dellanima, sottolineando che non basta possederla, ma è necessario coltivarla. Secondo la sociologia contemporanea, siamo passati dalla società del rischio” (Ulrich Beck) all’“era degli shock” (Chiara Giaccardi e Mauro Magatti), unepoca segnata da unabbondanza tecnologica ma da una crescente mancanza di anima. Cosa significa per voi anima”? 

È vero, siamo una società degli shock, o forse preferiremmo dire che siamo una società delle emergenze. Durante la pandemia, anzi durante “l’emergenza pandemica”, riflettevamo (gli intervistati tra di loro, ndr) sul fatto che fino agli anni ’70 non si parlava tanto di emergenze, quanto di crisi: dalla crisi dei missili di Cuba alla crisi petrolifera, giusto per citarne due che si impressero particolarmente nell’immaginario collettivo.

Come vi spiegate questo cambiamento linguistico?

È possibile che la spiegazione risieda in una involuzione dell’atteggiamento psicologico profondo avvenuta nell’ultimo mezzo secolo.

In che senso?

“Crisi” ha un etimo greco, ‘krino’, che rimanda a una separazione attenta e migliorativa di oggetti come avviene nella trebbiatura del grano, ed estende il suo alone di significato al pensiero che può essere critico ma originariamente in senso positivo, nel senso cioè di un pensiero analitico, che separi bene le idee per meglio comprenderle, basti pensare alla filosofia critica da Kant in avanti. “Emergenza” invece deriva dal latino ‘mergere’, che significa “tuffare” ed è il contrario di “immergere” e “sommergere”: solo una cosa sommersa può emergere, e così ogni emergenza deriva quindi da una precedente sommersione, da una profonda rimozione potremmo dire in linguaggio psicoanalitico. Il passaggio da una società delle “crisi” a una società delle “emergenze” ci sembra quindi che rappresenti il passaggio da un’umanità che di fronte ai fenomeni si poneva, o almeno tentava di farlo, in modo “critico”, analitico, riflessivo, cercando in altre parole di capire (quante assemblee e collettivi spontanei in quegli anni nelle scuole…), a una società che rimuove i fenomeni in modo sistematico salvo poi esserne travolta; da una società in cui la crisi poteva pure essere evolutiva e trasformativa, a una società che aspetta semplicemente che l’emergenza passi, cercando nel frattempo di gestirla alla bell’e meglio. Forse anche questo cambio di paradigma psichico è una delle conseguenze della rottura dell’universo mitico del passato cui non abbiamo ancora saputo porre rimedio, con l’oblio di capacità un tempo coltivate e ritenute fondanti, quale ad esempio la “prudenza”, una delle virtù cardinali tradizionali. Prudenza deriva da “provvedere”, letteralmente "guardare avanti”. Noi siamo incapaci di guardare avanti, di essere “prudenti” in questo senso. 

Che fare, dunque? Anche solo per tentare di andare oltre il dato — difficile da ignorare — che la psicoanalisi delle origini, così come quella tradizionale, non sia riuscita a incidere né a trasformare la società. O quanto meno, non quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Al contrario, è stata forse la sociologia — con tutti i suoi limiti — a offrire strumenti più efficaci per leggere, decifrare e in parte persino accompagnare le trasformazioni sociali.

Leggere la società. Abbiamo a che fare, di nuovo, con la capacità di vedere e di immaginare, cioè in definitiva con quella dimensione onirica di cui parla molto non soltanto la psicologia analitica junghiana, ma anche la psicoanalisi post-bioniana che ha con Antonino Ferro in Italia un autore di prima grandezza. Per noi “anima” è proprio questo: una funzione di comunicazione tra conscio e inconscio e una fonte di immagini che danno un volto a quest’ultimo, individuale o collettivo che sia. Potremmo allora dire che la mancanza di poesia nella nostra società corrisponde a quella mancanza d’anima nel corpo sociale lamentata da molti, e più precisamente è causa ed effetto, circolarmente, di questa mancanza d’anima, mancanza che non può che ostacolare il progresso sociale. A rischio di essere noiosi lo ribadiamo nuovamente: più ancora che di psicoanalisi e/o di sociologia avremmo bisogno per trasformare la società di artisti e poeti.

I sociologi Magatti e Giaccardi sostengono che viviamo in una supersocietà” cioè una società post-liquida dove aumentano i disturbi dellumore, che si caratterizza per la sua interdipendenza tecno-economica su scala globale, per il nesso inestricabile tra azione umana e biosfera e per lassorbimento sempre più spinto della soggettività nel processo di autoproduzione sociale. È possibile coltivare l'anima, oggi?

Siamo indubbiamente una società diversa da quella o quelle del passato, perlomeno del passato che abbiamo conosciuto, è difficile parlare di società più antiche su cui è più facile il rischio di proiettare i nostri problemi di oggi. Quello che colpisce noi, da un punto di vista psico-sociale, è la sempre maggiore congiunzione ossimorica di due dimensioni a prima vista antitetiche: l’individualismo da un lato e il gregarismo dall’altro. In termini pasoliniani potremmo dire che siamo sempre di più una società di individui omologati, benché appunto sia Pasolini sia altri intellettuali avessero notato questo fenomeno già in pieno ventesimo secolo; Pasolini fin dai primi anni ’60, altri intellettuali ancor prima, basti pensare a Ortega y Gasset e al suo concetto di “uomo-massa” esposto già nel 1930 nel suo celebre La ribellione delle masse. Si potrebbe peraltro sostenere, in parte a ragione, che il fenomeno di individui massificati non sia cosa nuova, e le masse acclamanti di fronte a Hitler o a Mussolini ne sono un esempio eclatante quanto drammatico. Anche la Scuola di Francoforte se ne occupò estesamente e un libro importante ma purtroppo dimenticato su questo tema rimane Fuga dalla libertà di Erich Fromm.

Qual è, dunque, la novità o la differenza rispetto al passato?

Oggi le masse non sembrano più aver bisogno di un leader – tecnicamente un leader psicopatico – per coagularsi. Certamente c’è Trump, ad esempio, che rappresenta ancora questo fenomeno, ma Trump è una sorta di relitto del vecchio mondo e la nostra impressione – o speranza almeno – è che la sua parabola sarà piuttosto breve. Il vero problema è semmai la coagulazione del tutto spontanea e virale di masse enormi di persone lungo percorsi di pensiero impersonale, sterile e fondamentalmente binario, cioè procedente per antitesi nette, basti pensare alla contrapposizione no-vax e pro-vax della pandemia, tertium non datur. In un libro da te curato (Individuation and Liberty in a Globalized World: Psychosocial Perspectives on Freedom after Freedom (Routledge, 2021,), abbiamo evidenziato un fattore a nostro avviso moltiplicatore di quella che è una tendenza umana elementare studiata per primo in campo analitico da Alfred Adler, il ricorso appunto al pensiero binario come difesa dalla complessità dell’esistenza. In quello scritto, cui abbiamo dato il titolo di “The paradox of the metaphor”, abbiamo riflettuto sul fatto che la natura del web è com’è noto estremamente caotica, ma soprattutto nel senso che una delle due dimensioni linguistiche fondamentali, quella cosiddetta metonimica e che corrisponde all’asse logico-lineare del discorso, è nel web fortemente contratta a favore della dimensione metaforica, che corrisponde all’asse linguistico cosiddetto associativo, quello dei link ipertestuali per intenderci, con cui si può saltare, oltreché da un post a un altro, anche da una piattaforma social a un’altra e di conseguenza da un linguaggio a un altro (video, musica, testo scritto, ecc.). Un punto interessante deriva da quanto avevano già osservato Freud e Jung ed è che l’asse logico/metonimico è quello su cui è imperniato il pensiero cosciente, mentre quello metaforico/associativo è quello che si trova al centro del pensiero inconscio.

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Che cosa volete dire?

Semplificando al massimo, che un mondo che passa sempre più tempo sul web, è un mondo sempre più inconscio ed emotivo, e di conseguenza sempre più instabile e caotico.

In che senso? Cosa c’entra l´inconscio?

Ricordiamoci che l’inconscio è una dimensione per definizione vitale, ma può diventare instabile e molto pericolosa se prende il sopravvento. Una conseguenza di tutto questo è che il pensiero binario che ragiona per semplici opposti antitetici diventa una difesa estrema da questa caotica complessità: il processo logico/metonimico uscito dalla porta del web, rientra così dalla finestra in modo sovra-compensatorio in veste di pensiero binario, generando i conflitti bidimensionali che sempre più spesso affliggono la nostra società, e che sono sempre sterilmente pro o contro qualcosa.

E questo a cosa porta?

Porta alla fine ad avere in campo un eccesso di inconscio da un lato e un eccesso di conscio dall’altro. Tutto ciò richiama molto l’idiota tecnologico che tutti stiamo diventando e di cui parlava già Marshall McLuhan, un idiota all’insegna di una duplice stupidità: una stupidità iper-emotiva da un lato e una stupidità iper-razionale dall’altro, ospitate nella stessa mente individuale e collettiva. Se l’anima, come detto, è una funzione di collegamento tra inconscio e conscio, è un momento in cui più che mai ne avremmo bisogno ma in cui più che mai, per tornare alla tua domanda di prima, è difficile coltivarla, almeno per quanto ci è dato vedere, sapendo e sperando però che attraverso qualche percorso carsico che oggi come oggi non riusciamo a scorgere l’anima si stia preparando a ri-diffondersi nel corpo sociale. 

Gli ultimi 25 anni potrebbero essere definiti come l’“epoca degli shock”—dall11 settembre al crollo di Lehman Brothers e la crisi globale, dalla pandemia alle guerre attuali. Tuttavia, io credo che stiamo vivendo soprattutto lera dellipocrisia”, in cui libertà e democrazia ne pagano il prezzo. Dobbiamo preoccuparci? 

Dalle ultime considerazioni fatte, sì. La situazione è preoccupante socialmente, per fortuna invece più positiva nei percorsi individuali – individuali nel senso reale del termine e non della omologazione stereotipata. Pensiamo al nostro campo, quello della psicoterapia, in cui moltissime persone sono positivamente e creativamente impegnate nel migliorare la condizione propria e, indirettamente, di coloro con cui sono in rapporto (perché un genitore, ad esempio, che sta meglio, non può che far bene non solo a sé ma anche ai propri figli). Da questo punto di vista non siamo d’accordo con la celebre provocazione di Hillman col suo “Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”. Anzi, è proprio l’esistenza della sfida psicoterapeutica a dare speranza e a farci credere che in qualche modo, prima o poi, anche la mente sociale possa riprendere a sognare, immaginare e in definitiva a pensare, smettendo di agire “ad arco riflesso”, come un apparato nervoso decorticato. 

Essendo innamorato di libertà e democrazia, mi sono messo ad organizzare un convegno dal titolo Democrazia sul lettino dellanalista”. Ma aiuterà davvero il lettino? Meglio rassegnarsi alla provvidenza come Amleto? Semplicemente rassegnarsi? Seguire lesempio di chi, in Portogallo, si oppose alla dittatura sostenendo la necessità della rivoluzione contro la realtà della dittatura? O ancora, provare a cambiare le cose in un altro modo? 

Sì, il lettino ci aiuterà, in attesa, come dicevamo all’inizio, di quel “lettino sociale”, di quella “rianimazione collettiva” che dovrebbe essere una rinnovata produzione poetica e artistica. Per ora – vogliamo essere un po’ provocatori – un elemento di vitalità in questa direzione è rappresentato, in fondo come in tanti momenti di crisi e cambiamento sociale profondo, dalla comicità che circola sul web.

Cioè?

È singolare che, ad esempio, una pagina come “Le più belle frasi di Osho” abbia su Facebook più di un milione di follower. Nessuno sembra interessarsi a questo fenomeno che suona più rivoluzionario di tanti discorsi seri e che richiama un altro degli slogan del ’68: “una risata vi seppellirà”. Durante la pandemia pagine come questa erano tra i pochi spazi di comunicazione che riuscivano a smarcarsi dal pensiero binario aspramente imperante un po’ ovunque in quel periodo. E vorremmo essere altrettanto provocatori affiancando a questo fenomeno quello del bisogno di valori psicologici più profondi, forse anche di spiritualità. In fondo stiamo parlando di sacro e profano, e forse una via per migliorare il mondo che stiamo vivendo sarebbe proprio quella di affiancare a tutte le opposizioni binarie che continuamente si autoproducono dentro di noi, questa antica coppia di dimensioni psichiche, vivificante in quanto non antitetica e binaria, ma junghianamente polare e attivatrice, pertanto, di movimento psichico e trasformazione. Dovremmo insomma cercare di diventare capaci di discorsi sacri e profani a un tempo. Un detto attribuito a San Bonaventura e citato da Maurice Blanchot ci è sempre sembrato in questo senso illuminante: “Mi hanno ripetutamente espulso dalle chiese perché ridevo, e dai lupanari perché pregavo”. L’universo psicoanalitico è precisamente questo, un mondo sacro e profano, senza censure o pregiudizi ideologici che non cedano prima o poi all’evoluzione del pensiero, e questo, almeno nella nostra concezione, ne costituisce la forza inesauribile, quanto mai importante in questo periodo storico. Speriamo che questa incredibile forza possa prima o poi ritornare trascinante culturalmente come è accaduto più volte, in modo straordinario, in passato, e di poter di nuovo assistere ad esempio a scene come quella celebre di “Comizi d’amore” in cui nel 1964 tre giganti come Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Cesare Musatti (quest’ultimo il padre per antonomasia della psicoanalisi italiana) ragionavano insieme, o meglio, per tornare alla riflessione di prima, riflettevano insieme in modo “critico” sullo stato delle cose.

Grazie! Speriamo allora nella venuta di un mondo sacro e profano, senza censure o pregiudizi ideologici.

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