Una conversazione con Mario Barenghi / Otto domande sui nostri Poetici primati

15 Settembre 2020

Il tuo libro ha come sottotitolo Letteratura e evoluzione, ma l’impressione è che parli molto più di evoluzione che non di letteratura, anzi qualcuno ti obiettato questo, che tu, nonostante sia un eccellente critico letterario, ti sia soffermato su un campo non tuo.

Vero. Le ragioni sono diverse. In primo luogo, sentivo la necessità di mettere in chiaro alcuni problemi fondamentali riguardo a un terreno di studi, l’evoluzione appunto, che non rientra nelle mie competenze. Ci sono alcuni punti fermi raggiunti dalla paleontologia che mi pare abbiano un grande rilievo culturale, cioè che possano incidere sulla nostra visione del mondo, come il fatto che svariate specie ominidi siano coesistite fino a un passato relativamente recente. In particolare, poi, mi sembrava indispensabile mettere un po’ d’ordine – nella mia testa, intendo – nel dibattito sulle origini del linguaggio, che mi pare di estremo interesse. Quando, per quali motivi, attraverso quali momenti e passaggi, gli umani abbiano sviluppato una forma articolata di comunicazione verbale: ecco un complesso di questioni che interessano tutte le scienze umane e sociali, e hanno importanti ripercussioni in ciascuna. Si parte dalla biologia e dall’anatomia, ma si arriva rapidamente all’etologia, all’antropologia, alla sociologia, alla psicologia. In secondo luogo, ho presunto che i destinatari di questo libro fossero gli studiosi di letteratura o i lettori colti, molto più che non gli specialisti di teoria dell’evoluzione: e che quindi condividessero le mie esigenze. Anche per loro, quindi, certe informazioni potevano essere necessarie. 

 

Una curiosità: quando e come è nato questo interesse per le teorie evolutive? A volte leggendoti si ha la sensazione che quella dello scienziato poteva essere una tua vocazione segreta, non seguita fino in fondo? Oppure è un interesse nato da poco?

Credo che ad affascinarmi sia in primo luogo il passato profondo. Ero bambino all’epoca della prima visita ai Balzi Rossi, il sito presso Ventimiglia dove sono stati trovati resti preistorici: ricordo che nei fui molto colpito. Quando andavo al ginnasio ero appassionato di archeologia, e in particolare di egittologia, per alcuni anni studiai la scrittura geroglifica. L’interesse per l’evoluzione, invece, è maturato gradualmente nel corso di questo secolo, quindi, grosso modo, durante gli ultimi vent’anni. Ma non credo di avere una vocazione particolare per la scienza. 

 

Resta il fatto che lo spazio riservato ai testi letterari nel tuo libro è più esiguo di quanto sarebbe lecito aspettarsi, considerando che tu ti occupi di letteratura, da Manzoni a Italo Calvino e Primo Levi. Non sarebbe stato opportuno aggiungere qualche paragrafo esemplificativo, magari dedicato a grandi autori o grandi opere?

Onestamente, credo di no. Il punto è che la teoria dell’evoluzione, a mio avviso, non ha nulla da insegnarci in fatto di analisi dei testi. Dalle dinamiche evolutive delle specie viventi alla configurazione di quei particolari artefatti culturali che noi oggi comprendiamo sotto il termine «letteratura» le mediazioni sono troppe e troppo complesse. Inventarsi scorciatoie non porta da nessuna parte. Per fare un paragone con la psicologia, sarebbe come percorrere la tradizione letteraria con il lanternino, cercando di cogliere ogni sintomo del complesso di Edipo: mentre la cosa più interessante, dal mio punto di vista, è che Freud aveva avuto bisogno di un testo poetico per definire un meccanismo psichico. Per quanto concerne l’evoluzionismo, Michele Cometa ha avuto buon gioco a mettere alla berlina un libro di David e Nanelle Barash, che propone «uno sguardo darwiniano sulla letteratura», intitolato Le ovaie di Madame Bovary

Nel mio saggio io cito un numero – che a me non pare non piccolissimo – di brani letterari, tratti da narrazioni, drammi, poesie, anche testi saggistici, essenzialmente per due motivi. Il primo è mostrare come, a certe ipotesi o conclusioni, gli scrittori – ma qui vorrei dire: i poeti – sono arrivati prima degli studiosi. Certo, l’accostamento può avere (non sempre!) qualcosa di ingeneroso: chi si muove sul piano teoretico è tenuto a costruire un’interpretazione articolata, a illustrare premesse, connessioni, implicazioni, mentre uno scrittore può limitarsi a un’intuizione, a un lampo. Secondariamente, la formulazione che i grandi scrittori dànno di certe idee – che so, il prologo dell’Enrico V per la teoria della finzione, l’apologo dei porcospini di Schopenhauer per il carattere convenzionale e transattivo degli istituti culturali – ha spesso un’efficacia incomparabile.

 

Quale contributo può venire alla letteratura dalla teoria dell’evoluzione? Che cosa possono imparare gli studiosi di letteratura dal darwinismo? Proprio necessario saperne di evoluzionismo e paleontologia?

La cosa principale che si può imparare è un elemento di ordine teorico, cioè la ragion d’essere della letteratura, la sua posizione tra gli altri aspetti dell’attività umana. La letteratura – e con questo termine intendo, in generale, gli usi creativi, «poetici» del linguaggio – serve, un po’ come tutto quello facciamo, a sopravvivere, o a vivere meglio, il che significa (visto che quella umana è una specie sociale, anzi, come è stato detto, «ultra-sociale») a convivere meglio, a vivere meglio con i nostri simili. In che modo lo fa? Teniamo conto che, da un certo punto in poi, la dinamica dell’adattamento ha riguardato per i nostri progenitori l’ambiente sociale, non meno che quello naturale: e poi, man mano che il tempo passava, sempre di più. Ora, a letteratura ci offre essenzialmente la possibilità di allargare i confini della nostra esperienza, e, in questo modo, di arricchire il nostro patrimonio di cognizioni riguardo alla realtà che ci circonda, al comportamento degli altri, all’interazione con loro, al nostro medesimo sentire. In una parola – come ho cercato di spiegare – la letteratura incrementa le nostre competenze sociali.   

A me è molto cara una metafora che qualcuno giudica un po’ logora, quella della cassetta di attrezzi. La letteratura, intesa nel senso largo che sopra si diceva (le narrazioni, i canti, le fiabe, le leggende, le massime, i proverbi, gli spettacoli teatrali, le storie sacre, le preghiere), ci mette a disposizione una serie di attrezzi, dei quali noi possiamo poi in vario modo servirci. Da questo punto di vista, c’è un’evidente corrispondenza con il linguaggio. Alcuni studiosi di linguistica, che io stimo molto, parlano del linguaggio come di un utensile o, come Daniel Dor, di una tecnologia, che è la stessa cosa. E, bada bene, è quanto mai verosimile che esista una precisa continuità fra la costruzione materiale di strumenti e lo sviluppo del linguaggio articolato. Prima di inventare la sintassi, gli umani hanno imparato a mettere in sequenza le operazioni necessarie per costruire gli arnesi che gli servivano. La mano arriva prima della parola… A quanto pare, quella di ridimensionare le pretese spirituali e sovrannaturali dell’umanità è un’impresa che non è ancora finita. Per quanto mi riguarda, mi piace immaginare che una congiunzione subordinativa sia un po’ come un bullone o un ingranaggio – allo stesso modo in cui una trama romanzesca assomiglia a una tessitura, o un’autobiografia a un cammino. 

Da questo punto di vista si potrebbe richiamare anche il brano della Chiave a stella in cui Primo Levi spiega al montatore Faussone in che cosa consista il suo lavoro. Se Faussone monta gru e tralicci, Levi, quando fa il chimico, monta degli oggetti microscopici, cioè costruisce molecole; quando fa lo scrittore, monta parole, costruisce frasi. La letteratura è, per dir così, una tecnologia di secondo grado. Usa il linguaggio, che è un attrezzo culturale (a cultural tool, dice Daniel Everett), per costruire un attrezzo culturale più complesso. 

  

A un certo punto del tuo libro sostieni che la letteratura «dovrebbe accrescere la nostra saggezza pratica». Non credi che questa formulazione possa suscitare malintesi? Cosa intendi con “saggezza pratica”?   

Sì, in effetti qui sarebbe stato utile dilungarsi un po’ di più. Il termine «saggezza» è normalmente correlato a idee di equilibrato raziocinio, di moderazione e autocontrollo; abbinato all’aggettivo «pratica» finisce per suggerire un’immagine non solo di pacatezza riflessiva, ma di prudenza vagamente opportunistica. Non era questa la mia intenzione. Quello che volevo dire è che la letteratura convoglia un sapere concreto, incarnato in situazioni particolari e in personaggi ben riconoscibili. Un repertorio, come sopra si diceva, di congiunture esistenziali e relazionali, associato a una serie di possibili risposte e di effetti conseguenti. La saggezza che un’opera può far germinare nella coscienza di un lettore può benissimo riguardare la necessità – se questo è il caso – di affidarsi ai propri impulsi, di ribellarsi, di mettere a repentaglio i beni (non solo materiali) di cui si è in possesso, per acquisirne di più grandi, solidi e duraturi. O anche di rompere tutto e fare un salto nel buio, perché comunque così non si può andare avanti. Del resto, di norma le finzioni letterarie non chiedono di essere prese alle lettera. Come ha spiegato molto bene Brian Boyd, la letteratura è una forma di gioco cognitivo: o, come ha scritto Keith Oatley, è come un simulatore di volo. Si sperimentano in forma virtuale anche azioni, scelte, circostanze da cui nella vita empirica ci si tiene accuratamente alla larga.

 

 

Un aspetto a cui tengo molto è l’idea che dalle opere letterarie si possa imparare tutto e il contrario di tutto. Data la complessità della vita di relazione, non c’è una strategia unica per sfuggire ai pericoli o per vedere realizzati i propri desideri. Del resto, la peculiarità della letteratura non consiste affatto nell’intento di insegnare qualcosa a qualcuno. La letteratura rappresenta, imita, evoca; siamo poi noi lettori a cercare di fare un uso vantaggioso dell’esperienza che abbiamo fatto leggendo un libro o assistendo a uno spettacolo. Allo stesso modo, quello che ci accade, accade e basta: non è che il destino ci voglia mandare segnali (almeno in una visione laica della vita): sta a noi trarne, se lo riteniamo opportuno, un qualche ammaestramento. Ma sia chiaro: un «uso vantaggioso» di un testo letterario può anche consistere semplicemente nell’assaporare il piacere dell’evasione, del distacco dalla vita quotidiana.    

 

Un aspetto su cui insisti è che l’evoluzione non è un cammino verso il progresso: ogni innovazione comporta insieme vantaggi e svantaggi. Questo vale anche per l’evoluzione culturale? E per la letteratura in generale, come tu la intendi?

Certamente. E teniamo presente che da un certo punto in poi evoluzione biologica e evoluzione culturale si intrecciano. In primo luogo, il motore dell’evoluzione è l’adattamento: adattarsi a un ambiente significa specializzarsi, e una specializzazione vantaggiosa all’interno di determinate condizioni può risultare dannosa quando le condizioni cambiano. In secondo luogo, l’evoluzione lavora con le risorse disponibili, e in molti casi la coperta risulta corta: quello che si guadagna da una parte si perde da un’altra. Il nostro olfatto è più debole rispetto a quasi tutti i mammiferi; gli scimpanzé hanno facoltà cognitive inferiori alle nostre, ma una memoria a breve termine incredibilmente più potente. E poi ci sono gli effetti collaterali. Il caso del linguaggio è clamoroso. Grazie al linguaggio la nostra specie ha compiuto un salto evolutivo formidabile, ma essere in grado di parlare non significa solo poter trasmettere informazioni, accumulare esperienze, accordarsi, fare progetti: significa anche accrescere le possibilità di sbagliarsi, di fraintendersi, di litigare, di ingannare, di mentire. Da questo punto di vista, il Vonnegut di Galapagos aveva capito tutto. La civiltà della scrittura ha provocato un indebolimento delle nostre capacità mnemoniche; il progresso tecnologico causa una perdita di manualità, e così via. L’antropologo Francesco Remotti, che da tempo ha messo al centro della sua attenzione il problema di come le culture cambiano nel tempo, ha molto insistito su questo punto: la cultura non colma i vuoti, bensì li produce. 

 

E la letteratura? Anche le opere letterarie possono fare danni?

Be’, tutto dipende dall’uso che ne fanno i lettori. I lettori possono fare anche buon uso di opere modeste, o non eccelse, così come possono trarre da capolavori un incentivo a confermare le proprie inclinazioni più riprovevoli. Su questo tema ci si potrebbe soffermare a lungo, ma nessun ragionamento vale la battuta di Woody Allen (cito a memoria): «Quando ascolto la Cavalcata delle Valchirie mi viene voglia di invadere la Polonia». Varrebbe invece la pena di dedicare una riflessione non frettolosa ai libri che, pur non essendo capolavori, hanno avuto un grande impatto storico, come La capanna dello zio Tom o Gomorra. Non dico che senza La capanna dello zio Tom la Guerra di Secessione sarebbe potuta andare diversamente, questa sarebbe una sciocchezza; ma l’immagine dello schiavismo ha risentito molto del successo del libro, e non in America solo. Senza trascurare tutte le considerazioni economiche, militari, politiche (anzi: geopolitiche), se la Gran Bretagna non è intervenuta a sostegno dei Confederati, come in fondo le sarebbe convenuto, è stato anche perché doveva fare i conti con la propria opinione pubblica. Così si è limitata a presidiare il Canada.

Ma a scanso di equivoci, gli effetti principali che la letteratura può produrre non riguardano singoli eventi storici, quanto l’evolversi della mentalità, gli equilibri – o gli squilibri – complessivi di una formazione culturale. Prima ho detto che la letteratura incrementa le nostre competenze poetiche. Altrove ho usato l’aggettivo «sociopoietico»: la letteratura è un’attività simbolica che promuove e modella le forme della convivenza. Ma mi pare utile anche un altro aggettivo (e cito di nuovo Remotti), cioè «antropopoietico». Non voglio entrare nella rivalità tra due discipline, sociologia e antropologia, fra le quali, mi dicono, non sempre è corso buon sangue: il punto è che non si possono plasmare le modalità di socializzazione senza contemporaneamente proporre modelli di umanità. E del resto, come i poeti da sempre ci insegnano, nessuno «è umano» da solo. Vorrei citare di nuovo un brano di Primo Levi, il finale di Procacciatori d’affari (da Vizio di forma), un racconto fantastico dove un personaggio che può scegliere in quale forma vivente incarnarsi accetta di diventare un uomo, ma rifiuta i privilegi che gli vengono offerti: «Non vorrei partire con vantaggio. Temo che mi sentirei un profittatore, e dovrei chinare la fronte per tutta la vita davanti a ciascuno dei miei compagni non privilegiati. Accetto, ma vorrei nascere a caso, come ognuno […] Il cammino dell’umanità inerme e cieca sarà il mio cammino».

Quello di letteratura come antropopoiesi mi pare un concetto su cui si può lavorare. Dicendo questo, avverto tuttavia un sottile disagio, perché mi rendo conto che in qualche modo rinverdisco un’idea di humanae litterae che sa di tradizione umanistica e classicistica. E tuttavia qualcosa da salvare, o da recuperare, in quella visione pur c’era. Se la letteratura continua oggi a essere importante è per ragioni diverse da quelle per cui sono importanti la scienza o l’economia. La letteratura, che è parte integrante e irrinunciabile della cultura, serve a fondare, a coltivare, a preservare l’umano. Ma vorrei tenermi alla larga da espressioni solenni, come «nuovo umanesimo» o simili. Mi accontenterei di parlare di bipedismo responsabile.  

 

Per concludere, quali ambiti di tipo scientifico, in senso lato, vedi proficui nel prossimo futuro per lo studio letterario? E se ti va, potresti indicarmi degli autori da frequentare maggiormente in questa direzione?

Domanda impegnativa… Di sicuro, il campo delle cosiddette «scienze della vita» è molto importante. La teoria di Darwin dell’evoluzione delle specie attraverso la selezione naturale mi sembra formidabile perché con un paio di principî abbastanza semplici – casualità delle mutazioni, trasmissione ai discendenti dei tratti immediatamente vantaggiosi – riesce a spiegare una enorme quantità di fenomeni. 

Dagli studi sull’evoluzione a me pare di aver acquisito soprattutto due concetti. Il primo può essere sintetizzato nell’aggettivo «sub-ottimale». All’interno di un sistema complesso, quando si verifica una difficoltà (tecnicamente: un problema di adattamento), esistono bensì reazioni più convenienti di altre, ma non si dà mai una soluzione perfetta: ogni risposta è un compromesso che include controindicazioni, a loro volta destinate a emergere in tempi più o meno lunghi a seconda dei casi. Del resto, la strepitosa varietà degli organismi viventi è la più chiara dimostrazione che ogni adattamento è sub-ottimale: le strategie per sopravvivere sono, se non infinite, estremamente numerose. Potremmo ripensare in questa chiave l’intera categoria di tradizione letteraria: ma senza commettere l’errore di equiparare i generi letterari alle specie viventi, l’unica specie implicata siamo noi. Ma nota che potremmo applicare questo principio anche alla politica sanitaria (penso all’antinomia fra centri di eccellenza e presidî territoriali).

Il secondo consiste nell’idea di bricolage evolutivo, di cui avevo parlato in un precedente libro (Che cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti, Quodlibet 2013). Dal momento che non si parte mai da zero, le condizioni date condizionano – e forse potremmo dire addirittura: modellano – le possibilità di trasformazione. Ci pensavo di recente, a proposito di una questione storico-politica, la battaglia contro le statue che s’è accesa nell’Anglosfera.

 

L’esigenza di principio è più che legittima, ma gli effetti che si rischiano di produrre sono rovinosi, mettono a repentaglio la categoria stessa di memoria storica. Su Jefferson Davies si può essere d’accordo, ma prendersela con Cristoforo Colombo è un’idiozia. La storia offre infiniti esempi di campioni nella battaglia per certi diritti che erano ancora del tutto sordi a diritti diversi. I Founding Fathers non erano antischiavisti. E vogliamo provare a immaginare quali posizioni potesse avere Amerigo Vespucci riguardo alla parità di genere o alla sovranità popolare? Cosa facciamo, cambiamo nome all’America? Del resto, tutti ci ricordiamo bene che il vecchio PCI difendeva i lavoratori, ma quanto a diritti civili era poco meno che un disastro.

Ma sto divagando. Oltre agli schemi di pensiero, la scienza offre altre risorse alla letteratura: ad esempio, la ricerca scientifica funziona come moltiplicatore della fantasia. Non solo la biologia, la zoologia, ma anche la fisica, l’astronomia, perfino la matematica ci costringono a immaginare aspetti della realtà molto lontani dalla nostra esperienza empirica. E tutto questo ha evidentemente a che vedere con l’invenzione letteraria. 

Mi rendo conto di non avere risposto alla tua domanda... Posso solo formulare un auspicio: che la letteratura e la scienza si frequentino quanto più possibile. I vantaggi non possono che essere reciproci. 

 

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