Joël Pommerat a Nanterre / “Questo non è un ragazzo”: racconti e leggende

14 Febbraio 2020

Parigi. Una cascata di oscenità, snocciolate a una velocità sorprendente, investe lo spettatore all'inizio di Contes et Légendes di Joël Pommerat, in scena al Théâtre des Amandiers di Nanterre, una delle più celebri sale di cintura parigine, e a spiazzarlo è che siano lanciate da un ragazzino alto poco più di un metro e quaranta all'indirizzo di una ragazza che fisicamente è già una donna e con una serietà quasi liturgica, che non ha nulla di caricaturale: è il calco di un gergo che nelle banlieue è una specie di lingua madre, dove la veemenza del ritmo si accorda perfettamente alla rabbiosa violenza dei contenuti; spalleggiato da un coetaneo di origini africane, nella tipica veste del gregario esitante, il baby teppista assalta la sua preda – che lo fronteggia con inedita fermezza e poche ironiche parole che scatenano il riso nel pubblico – perché vorrebbe toccarle i seni. E già qui, nel crudo realismo di un dialogo che sembra estratto di peso da una scena di strada e affidato a una gesticolazione da rap suburbano, si insinua una parola incongrua che, senza spostarla dal suo territorio linguistico, fa levitare la situazione in quella sospensione fantastica, al limite della stravaganza, per cui le frammentarie pièces del drammaturgo regista francese sono famose: dopo essere stato respinto, il ragazzino ordina al suo timido amico di toccare i seni della ragazza per assicurarsi che siano veri e non quelli di  un “fottutissimo robot”. 

 

 

Joël Pommerat è uno di quegli artisti per cui il metodo è (come voleva Dumezil), la strada dopo che la si è percorsa, e il processo ha sempre la meglio sul progetto: all'inizio Contes et Légendes doveva essere una riflessione sull'infanzia come momento chiave nella costruzione di sé, e alla fine lo è ancora ma, nel frattempo, è stata visitata dalla suggestione di una società futuristica in cui le persone artificiali, i real humans che viaggiano dal romanzo al cinema, e da una serie televisiva all'altra, sono diventati i supplementi d'anima di una catastrofe affettiva che attraversa la vita familiare e le relazioni sentimentali. E così accanto a un mutevole popolo di ragazzini e ragazzine in età puberale, sul palcoscenico degli Amandiers cominciano a comparire, già dal secondo quadro, dei bambini umanoidi con i capelli giallo paglierino, servizievoli e programmati per essere i garanti di un equilibrio domestico che gli adulti non riescono più a governare – figure deboli e sacrificali, dotate di quell'aura distaccata che hanno i cloni nei romanzi di Houellebecq, ma il cui sorriso inespressivo si incrina sempre più spesso in una smorfia di compassato umorismo e, soprattutto, in quella perturbante tenerezza che prima o poi finiscono per l'assumere tutti gli esseri, dalla marionetta al robot, passando per l'automa, prodotti per sostituire o surrogare l'umano sulla base di una sua imitazione tecnologica. Tanto più commoventi, quando si è pienamente consapevoli che, sotto la maschera e la meccanicità del gesto, appreso con una maestria che inquieta per la sua capacità di rimandare a mille film senza citarne veramente nessuno, continua a nascondersi, come nell'automa giocatore di scacchi del racconto di Poe, una persona, cioè un attore. 

 

 

Su una scena che è una cangiante frontiera tra la luce e l'ombra, i robot siedono sul divano di un salotto accanto ai loro protetti, defilati come angeli custodi ma pronti a cingere loro le spalle con un raro, e perciò lancinante, gesto di consolazione, chini su un tavolo li aiutano a riempire di colore gli spazi bianchi di un disegno, incapaci di rifiuto, obbedienti come schiavi – come Aristotele sognava le macchine: schiavi ideali – e benevolenti come lari domestici. 

Pommerat sembra aver sviluppato fino alle estreme conseguenze la convinzione di Marshall McLuhan secondo cui ogni tecnologia comporta un'automutilazione. Ha immerso la sua robotica nell'universo emotivo dei social, i suoi androidi fanno veramente ciò che un'umanità nevrotizzata dalla propria crisi di identità non è più in grado di fare, si sporcano le mani nei servizi di casa rimpiazzando madri morenti, e padri di famiglia il cui principale problema davanti alla scomparsa della moglie è che non sanno – tanto per cambiare – dove mettere le mani; restano accanto a chi soffre fino alla fine o fino a un inaspettato risveglio, come nel caso di un bambino che crede di essere sfuggito al cancro grazie alla costante presenza accanto a lui di una star artificiale della musica pop. 

 

 

E d'altronde è proprio nell'ambivalenza del corpo robotico che si specchia l'altra distopia che attraversa i rapidi quadri di Contes et Légendes, quella di una guerra tra i sessi che si ripercuote più devastante che mai nel teatro miniaturizzato di un'infanzia molto più attuale che virtuale: nel mondo del futuro, un maschio adulto indottrina un gruppo di ragazzini sulle regole di uno sfilacciato dominio maschile che si insegna come un'ideologia, un catechismo o, per altri versi, una disciplina sportiva. Ma anche in questo caso, sulla scena del drammaturgo-regista francese, quel che si mostra della miseria, e della superstiziosa violenza, del naufragio patriarcale è più ampio di ciò che si dimostra; nella parola sospesa di una drammaturgia che ha stretto un patto di inseparabilità con i corpi che la interpretano – e che ha sempre ammesso di cercare il reale e non la verità – anche il giudizio e il discorso finiscono sospesi. 

Come gli spettatori sono destinati a scoprire alla fine dello spettacolo, quando gli attori escono dalla velatura leggendaria che li ha costantemente avvolti per entrare nella piena luce della ribalta, il genere secondo Pommerat è più radicalmente performativo di quanto non sia nei concetti di Judith Butler: non solo i robot sono attori, ma fatta eccezione per Jean-Edouard Bodziak (che ha interpretato tutti i padri), gli altri nove, straordinari attori della compagnia di Contes et Légendes sono tutte attrici e neanche così giovani come le loro maschere adolescenti lasciavano supporre (Priscilla Amany Kouamé, Elena Bauchain, Lena Dia, Angèlique Flaugère, Lucia Grunstein, Lucie Guien, Marion Levesque, Angeline Pelandakis, Mélanie Prezelin, hanno tra i venticinque e i trentacinque anni). 

 

 

Con un applauso scrosciante i quattrocento spettatori riuniti nella sala di Nanterre-Amandiers sembrano ridestarsi da un sogno di cui avevano dimenticato che non era il loro, e uno dopo l'altro si alzano in piedi per salutare il ritorno di uno stato d'animo che a teatro è sempre meno scontato: lo stupore. Stupore per un dispositivo scenico dove niente può essere separato, l'illusione dall'organicità, la parola dal corpo, l'autore dagli interpreti. In un teatro e in un'arte in generale che appaiono sempre più minacciati dal ritorno in forze del contenuto – e da un realismo politico che sta ormai diventando musica a programma: qualcosa di buono l'ha scritta al proposito Olivier Neveux in Contre le théâtre politique – Joël Pommerat è uno dei pochi artisti che, nel suo isolamento, continua a concentrarsi sull'unicità del come un testo viene portato sulla scena, cioè sul lavoro della forma (cosa che per altro non gli ha impedito, quattro anni fa, di convocare una folla di attori sui palcoscenici di vari teatri sparsi per la Francia per ridar vita con Ça ira. Fin de Louis al dibattito della Convenzione che decretò la morte di Lugi XVI) Si proponeva di rompere la macchina della recitazione, compito particolarmente arduo in un teatro come quello francese che, a dispetto di Artaud e di Lecoq, non ha mai veramente dismesso l'aulico ronzio dell'alessandrino, beh lo ha fatto, accogliendo in quello squarcio ciò che più gli interessava: l'essere degli attori che dei suoi poemi scenici non sono i tramiti ma, per così dire, i versi. L'ha messo, nero su bianco, in un suo breve scritto, Théâtres en Présence: “Le parole sono qui per far esistere questi esseri e questi corpi. Ciò che sono sulla scena è più grande di quel che dicono”. I testi teorici dei teatranti agiscono spesso come compensazione virtuale di cadute pratiche, sono irti di buone intenzioni e di promesse mancate. Contes et Légendes è una promessa mantenuta. Joël Pommerat fa quel che dice e dice quel che fa.

 

Contes et Légendes di Joël Pommerat si chiude il 16 febbraio a Nanterre-Amandiers

Testi citati: Olivier Neveux, Contre le théâtre politique, La Fabrique éditions

Joêl Pommerat, Théâtres en présence, Actes Sud.

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