Mario Isnenghi / Ritratto dello storico da vecchio

26 Ottobre 2020

Occasionata dai vapori delle Terme euganee da lui scoperte di recente, mentre si rilassa tra piscine calde e saune scenografiche, la memoria si scioglie e Mario Isnenghi, il celebre professore di storia contemporanea in pensione, autorità internazionale e quasi star mediatica nel “grandeguerrismo”, torna indietro nel tempo e, con il recente Vite vissute e no. I luoghi della mia memoria (Il Mulino, 2020) ci racconta la sua vita. Ha sempre cercato di viaggiare, del resto, fin da ragazzo, in giro per il nostro paese, e oltre. Stavolta, sfoglia il calendario all’indietro. Ebbene, prendete Il paese dei Mezaràt (2002) di Dario Fo, epopea sulla prima infanzia dell’attore figlio di ferroviere attorno al lago Maggiore, e Il Regno (2014) di Emmanuel Carrère, scrittore francese che descrive la conquista del suo laico disincanto. Mescolate con garbo il tutto ed ecco queste madeleines. Quanto al primo aggancio, qualche perla dialettale alla Meneghello, il “giro del paleto” (dove passa la Regata sotto la sua casa in affitto sul Canal Grande di fronte alla Stazione) “pòpo,” “putelott” e i “piazzaròi” (partigiani comunisti) contrapposti ai “poaréti”, “faso tuto mi", “Oeghel”, ossia Hegel tra i banchi di scuola. Per il secondo, il racconto procede come un romanzo di formazione, dal 1938, anno di nascita a Venezia, sino all’oggi, tra snodi e strappi, come dal mondo cattolico (mai democristiano e piuttosto inquieto tra Mounier, Bernanos, e Weil per quanto lo riguarda) dopo i diciott’anni e dalla FUCI, l’Associazione degli universitari, all’UGI, alla sinistra e/non comunista. In mezzo, il rodaggio tra il ’58 e il ‘59, all’ombra di «Questitalia» di Wladimiro Dorigo, suo mentore geniale battitore libero con il gusto del minoritario. Autofiction storica, questo il genere ibrido del volume. E l’autore del resto fa lo storico nel crinale della letteratura, doppia competenza che agli inizi non ne ha agevolato la carriera accademica. 

 

Stavolta sono suoi i luoghi della memoria, lemma prelevato dalla storiografia francese, dove cultura e natura si incrociano e si fanno monumento simbolico. Altrove ne ha approntato una mappatura esemplare, coinvolgendo allievi e colleghi in Storie generali e particolari, tra persone, territori e oggetti, ad esempio un bar, una libreria, una saletta cine-teatrale ricostruiti nei circuiti e nelle funzioni. Qui, invece, il privato. La famiglia, intanto. Madre ligure, insegnante di inglese nelle scuole di Venezia, che gli compra alla libreria Tarantola i romanzi di Maugham ma anche la Decima Mas di Borghese. Padre di ceppo trentino, laureato in economia, impiego alla Breda, ex Ardito, reduce di guerra tornato a casa con grande barba nera, costretto a disarmarsi e ridotto al silenzio, declassato a contabile in negozi di second’ordine, primo dei tanti “vinti” dal figlio analizzati nei suoi studi. Torna più avanti costui, in una foto che lo riprende Ufficiale della Milizia fascista sul Ponte della Paglia, contiguo al Ducale, dove pochi anni dopo appaiono in un altro scatto i tre partigiani Turcato-Chinello-Arcalli, dolorosa frattura per il memorialista. Intorno spuntano parenti bizzarri, un vecchio zio paterno, costretto ad Arco a sposarsi la servotta, o la zia-nonna paterna grande affabulatrice. Si susseguono allora dagherrotipi, con tratti all’Achille Campanile. I registri leggeri faticano però a ospitare reduci, epurati, crolli di banche, e sospetti di antenati suicidi in carcere per il disonore, o filande e altre proprietà sbriciolate. In più, ricordi /incubi di aerei visti e/o sognati che volteggiano minacciosi e vaporetti sfiorati da bombardamenti.

 

Ma tra i frammenti del piccolo io/me (termine spesso presente), fatti coincidere con svolte epocali della grande Storia, ecco le bretelle bianche del Figlio della lupa, tagliuzzate e scaricate nel water. Il gesto, imposto dai genitori apprensivi, lo apparenta a quello dell’impiegato Aldo Piscitello che, nel Vecchio con gli stivali (1944) di Brancati, piscia sopra il nastrino rosso, distintivo fascista, salvo poi lavarlo e reinfilarlo sulla camicia nera. Se avanza nel cursus, si seleziona la classe sociale e spariscono i figli dei fabbri e dei falegnami dei giochi d’infanzia. Folgoranti i ritratti dei professori del ginnasio liceo Foscarini, vero college story sbozzato da un Giamburrasca latente. Così il prof che legge «Candido» durante la stesura dei compiti d’italiano in classe, e un’intera generazione di insegnanti, una compagnia teatrale con la docente di francese algida e svillaneggiante, il filosofo che bofonchia sui rivali di correnti avversarie, gentiliani versus neoscolastici. Una scuola scivolata fuori da un’era lontana, tanto è diversa dall’attuale, 

Una vitalità straripante, la sua, anche editore nel ‘63 /’64 di una piccola casa Rinoceronte (titolo coincidente con il dramma allegorico di Ionesco in giro dal ’59 contro l’omologazione nella società di massa) tassandosi assieme ad altri amici per finanziarla. Tra i pochi prodotti, i due giornali di Jahier ricopiati a mano da lui stesso alla Morcelliana di Firenze nell’epoca prima della fotocopia. Nonché la scrittura di canzoni operaie per Gualtiero Bertelli, suo allievo alle magistrali.

 

E intanto avanza nella scuola, collo sbocco universitario. Tre le città, Padova che gli offre solo un insegnamento facoltativo di Storia del giornalismo dal 1970 al 1986, e lo lascia sino al ’76 alla scuola secondaria tanto amata (tecnica e magistrale, ma a Venezia tra i banchi delle allieve conosce la moglie), Torino che lo inquadra grazie a Guido Quazza, cooptato quale professore straordinario, Venezia che lo chiama nel ’91 siglata nella pagina da punti di interiezioni a esprimere la gioia. Storia di una ascesa personale, dunque, di una guerra vinta per poi accorgersi alla fine di trovarsi in mezzo a macerie. Perché a vincere è il Tempo.  

La voce narrante usa tempi misti sveviani o come il suo prediletto Nievo. Un anziano ripercorre infatti la propria esistenza e inizia già vecchio dal suo essere stato bambino, osservando persone e cose nel frattempo mutate in un flusso gioioso e tragico assieme. Tutto si mostra stratificato, vedi l’Auditorium cafoscarino di Santa Margherita, nel cui pulpito tiene conferenze negli ultimi tempi, via via chiesa protestante, Camera del Lavoro, cinema peocéto (sala di seconda mano). Come l’intera città, Venezia, labirinto di cui coglie i soprassalti di modernismo, mentre convince i grandi editori ad accogliere le sue collane sul dopo la fine della Serenissima, alla faccia degli innamorati della decadenza o dei nostalgici alla Pompeo Molmenti. 

 

 

Il fatto è che da sempre lo intrigano anche negli altri le deviazioni e le apostasie, la mobilità delle maschere prima del mito. Così alcuni personaggi qui protagonisti, come Toni Negri, origini cattoliche, passaggio condiviso nel socialismo e poi la separazione, con il primo ormai sprofondato nella radicalità di autonomia. Una sera Negri gli invade la casa a Padova con il suo gruppo a tenere una riunione, il che forse gli causa un contatto fugace con la Digos mentre è a pranzo con la famiglia. Qui Isnenghi analizza la propria posizione da “spettatore” alla Rossanda e da «Manifesto» con cui collabora, né affiancatore né demonizzatore contro il presunto colluso colle Brigate rosse. La separazione da Negri avverrebbe per pigrizia, perché Mario recalcitra a seguirlo all’alba nella recita degli incontri con la classe operaia a Porto Marghera, e dove i soli interlocutori sono i poliziotti. Un’infinità di anni dopo lo incrocia alla stazione di Venezia, e immagina per un istante scampoli di conversazione, in puro stile Pinter, tra rivoluzione e carcere, e poi preferisce girare la testa dall’altra parte. 

Affiorano ogni tanto selfies di scorcio, in cui il narratore prova a mettersi in terza persona con mite sarcasmo: lo spocchioso, il beniamino delle mamme, l’aspirante primo della classe, il cattolico della domenica, un misto di Athos e D’Artagnan, e ancora luogotenente Yanez, spalla prudente di Sandokan. Nondimeno sa rischiare se a Feltre nell’inverno del ‘61, la sua prima supplenza dura solo due mesi, per iniziative didattiche troppo civiche estromesso dal preside Silvio Guarnieri, comunista imbarazzato con la chiesa e la Dc locale. E ancora implume che sa di sacrestia, uno cui piace fare il maestro, come sentenzia una sua allieva devota, quindi neonazionalista di sinistra. 

 

I libri che ha scritto, tanti, contesi dai massimi editori, e ristampati più volte. Ma libri pure che ha letto, agli inizi a viva voce agli amici, libri che gli entrano dentro. Perché noi siamo i libri che leggiamo. Nell’Altopiano di Asiago, dove fa in apparenza vacanza, organizza giovedì letterari-storici al Cinema Grillo Parlante (altro selfie involontario di sé). Dal terrazzo di casa contempla i monti di fronte, le postazioni contese tra Brigata Sassari e truppe austriache nella Grande Guerra. Ma nei boschi intorno incontra i fantasmi di Gadda e di Lussu, e dal vivo Rigoni Stern. Con me e con gli alpini di Jahier se lo porta come un breviario sugli scogli, e là sta custodita forse la metafora della sua vita, la responsabilità etica del leaderismo verso i giovani subalterni, che siano gli ufficialetti di complemento di Piero o gli allievi dei suoi corsi universitari, chiamati per nome, coi sensi di colpa per non essere stato oltre che maieuta e talent scout anche barone, incapace di assicurar loro posti nella miseria concorsuale.

 

Dopo la pensione, per non finire ai giardinetti, riscopre il teatro, con le orazioni performative, davanti a sale gremite di adulti (la storia, fuori dell’Accademia, interessa di solito ai vecchi, non ai giovani) nei cicli oratori cadenzati dalle ricorrenze calendariali del 2011 e 2014-2018, Unità e disunità d’Italia e Bellum in terris. Il clima però è mutato, tra revisionismi, pluralismi postmoderni con il gusto dello spaesamento e del non luogo, smobilitazioni. Inoltre, il suo Veneto-centrismo rifluito nell’italo-centrismo dei tanti volumi, suoi e della sua scuola, oggi sopravvive in una terra occupata dal leghismo di Zaia. Il racconto ogni tanto si apre a un j’accuse contro l’università aziendalizzata, finanziamenti azzerati, insegnamenti telematici (il libro è concepito prima della pandemia), tempo della ricerca sequestrato da mille incombenze burocratiche, anglocrazia nei corsi, verso cui manifesta una allergia, strana nel figlio della docente di inglese, tesi annullate, lui che aveva istituito i seminari del giovedì mattina per i laureandi, soprattutto interruzione del ricambio generazionale. Chiudono nel frattempo riviste, ulteriori lutti per lui, più gravi delle collaborazioni interrotte con la stampa nazionale, da «Repubblica» (respinto un suo pezzo sui capitelli come forme di religione popolare) al «Corriere», così come si spegne nel 2012 «Belfagor» dove rifulgevano le sue Noterelle e schermaglie. Qualcosa in lui di Don Milani, di cui da giovane ha recensito Esperienze pastorali, per la comune furibonda passione per l’insegnamento e per la pari centralità assegnata ai giornali (fonti per gli storici nel futuro). 

 

Poco spazio alla famiglia, quella sua, stanziata a Padova. Più a fuoco gli allievi che i figli, com’è giusto. Il tono oscilla tra autostima e auto-ironia. Un passaggio eloquente: nel ’70, esulta per la nascita del primogenito Enrico, nome del nonno e del mitico avo ipotizzato nella spedizione dei Mille, e per la annata formidabile di porcini. Una vena in fondo weberiana percorre il suo cattolicesimo di base, l’uomo essendo quello che lavora. E non c’è piacere senza lavoro, ricorda andando a funghi armato di manuale. 

Il corpo resta fuori dal racconto. Arriva a scusarsi, l’Isnenghi professore, perché usa a un certo punto la parola “rutto”. Una pruderie incongrua nell’anticlericale, che parla dell’amica collega torinese nella cui casa cena e dorme, lui sul letto e lei sul divano, con punte alla De Amicis. Sfiorati in cambio i tremori dell’adolescenza, favoriti dalla scoperta del Tonio Kröger manniano. Si respira sullo sfondo del libro un’aria da Le Grand Meaulnes di Alain Fournier, ribadita sottotraccia nell’istanza di coppia fraterna, nel dioscurismo insistito. Il suo io/me punta certo al noi ma passando per Io/tu, numero duale, ideale per lui. Si tratta di reticenze, “pieghe dell’anima”, “intimismi” effusivi, pericolosi. Nel 2013, tra le carte dell’amico Lanaro morto da poco, e suo alter ego accademico interessato alla grande borghesia, mentre lui si occupa di quella piccola, scopre una noticina che sconsiglia agli ottantenni l’autobiografia, meglio in questo caso l’eutanasia. 

 

Niente sesso, e la montagna colle camminate affaticanti di un ex brillante pallamanista sta a indicare percorsi di sublimazione, ben conosciuti dal clero cattolico “che sale e che trascende”. Così, le avances del fratone al patronato dei Frari, cui accenna con motto fulminante: “È l’Italia cattolica, bellezza!”. E la cameretta che abita a Chioggia sta in un appartamento poi scoperto quale ex bordello. In compenso, si innamora senza pudori, dal docente di un progetto di tesi all’amico fraterno di gioventù e collega di scuola, di forte reciproca simpatia nell’etimo antico, con cui condivide per anni stanzette d’affitto. 

Poi, c’è la moglie Sandra, cui dedica per la prima volta un libro, questo. Lei non c’è più, dopo mezzo secolo di complicità, caduta sulle scale di casa. Il testo è in fondo una Spoon river, per i tanti personaggi da cui prende congedo, specialista in epitaffi e necrologi. Ne avrà da compilarne parecchi, figlio di genitori longevi, padre deceduto a 87 anni, madre a 101. Per questo, fa sua la citazione dal grande poeta Noventa, “Semo soli, Soldati”, in un’aura ilare-depressiva. L’ultima pagina rabbrividente tratta le esequie dell’amico preside della scuola di Chioggia, dove ha insegnato agli esordi per 5 anni felici. Costui, ex partigiano salvatosi dalla pena di morte perché fintosi matto, con la sua macchina aveva portato Mario e Sandra in trepida luna di miele, in giro nei deserti tunisini, “tra tanti miraggi”. Un flash back commovente, una bella botta di vita in piena cerimonia funebre, altro tempo misto, mentre il figlio del morto si impossessa all’improvviso del microfono (il tutto avviene nella Chiesa di San Salvador a due passi dal Teatro Goldoni), a gridare che il padre era comunista. 

 

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