Speranza e immaginazione / Se una zolla è rapita dal mare

4 Marzo 2020

In questi giorni sono salito in Appennino ma l’Appennino non c’era più. Tutto era lì, identico a prima. Le faggete, i denti di arenaria, le nevi residuali. Ma l’Appennino non era più lì perché qualcosa mi impediva di stabilire un ponte tra quello che avevo sotto gli occhi e quello che in più di quarant’anni si è raccolto, tra desiderio e memoria, nel mio paesaggio mentale. Le cucine delle osterie erano ancora calde, le piste tra i cuscini di foglie erano identiche a quelle che percorrevano i manipoli celtici o le brigate partigiane, l’odore del fumo dai comignoli era quello di mio padre e di mio nonno. Ma l’Appennino era scomparso. Non potevo più contare su di lui, vaporizzato. Dall’alto del Crinale guardavo giù la cappa lenticolare su Modena, sul polo ceramico, sulla Pianura padana. Ma non era solo la nube delle polveri sottili e delle zattere di CO2 alla deriva sopra cervelli e polmoni. Era come il 1962, come se una nuova Rachel Carson collettiva avesse scoperchiato il vaso di Pandora su una verità inconfutabile: non c’è angolo della Terra che sia salvo. Ieri erano le molecole di DDT, oggi è il virus pandemico, che sta impattando come un iceberg di panna contro il Titanic di pastafrolla delle coscienze.

Fino a sei mesi fa l’Appennino era quello della Resistenza, delle strade ducali, di Lazzaro Spallanzani, dei viaggiatori del Grand Tour, di Annibale e Silla, degli insediamenti neolitici e paleolitici, dei ghiacciai, delle balene fossili. Negli ultimi sei mesi però la gente, perfino gli intellettuali e gli scrittori, hanno imparato a usare parole come Antropocene, Collasso, Sopravvivenza, Contagio, Emergenza. Fino a sei mesi fa eravamo bloccati in una sterile dialettica tra nuovi apocalittici e nuovi integrati, tra chi urlava “è la fine del mondo” e chi continuava a pensare che il ruolo dell’intellettuale e dello scrittore sia quello di star calmo, di non farsi prendere dal panico, di raccontare il presente anche se poi il presente è sempre quel bozzolo mummificato tra gli anni Sessanta e Novanta. Dopo appena sei mesi, però, anche il Salone del Libro di Torino decide di fare un upgrade, forse un reboot. Parole-chiave di nicchia, quelle su clima, alterità, post-umano/non-umano, deantropizzazione, cigni neri, eventi X, animismo, cosmologia, immaginario e ovviamente Antropocene diventano magicamente parole d’ordine. Tutti ad allestire in due mesi scarsi il prossimo manufatto editoriale, tutti ad aggiornarsi su Wikipedia. Ma la base cognitiva e intellettuale rimane la stessa. Anche le discussioni più autorevoli su virus, stato di eccezione, biopolitica e società di controllo non riescono a smarcarsi da un bias cognitivo invalidante: l’esercizio del linguaggio, in fasi di vera crisi, è un muro di nebbia, è solo un altro modo per negare il trauma, per rimandare ancora e ancora e ancora la presa di coscienza raggelante: nessun uomo è un’isola, ogni uomo è parte della terra, e questa terra è rapita a colpi di vanga da un mare grigio di inadeguatezza e arroganza.

 

 

Dopo aver guardato laggiù nelle pianure, il mio Appennino è un’altra cosa. Gli essiccatoi per le castagne sono piccoli bunker dove immagazzinare provviste. I laghi sono riserve idriche contro le prossime ere di siccità. I sentieri sul fondo sono punti dove tendere imboscate. Il crinale è una linea di rudimentali pale eoliche e di reti per la raccolta di vapore acqueo da nuvole e nebbia. Non ci sono più le vecchie matriarche a cuocere crescentine tra tigelle e foglie di castagno ma bambine magre a mescolare gamelle di zuppa liofilizzata. Non c’è più il cacciatore di cinghiali dal naso rubizzo ma il filo di ferro del bracconiere, del trapper che torna a casa a mani vuote. E non ci sono più le passeggiate della domenica, ma la guerriglia ultima, tra sopravvissuti che portano il fuoco e bande di predatori affamati. Il mio Appennino insomma non esiste più. È bastata una settimana di narrazioni tossiche, di misure sanitarie too little too late, di chiacchiere inconcludenti tra chi crede di sapere e non sa niente, di paura gestita male e di totale latitanza dei cosiddetti intellettuali per rovesciare la percezione del mondo. Non parlo ovviamente delle decine di lucidi interventi in rete, di disamine autoptiche, del “facciamo chiarezza sui numeri”. Parlo della desolante mancanza di voci poetiche autorevoli nel proporre delle vere soluzioni mentali, spirituali.

 

Da qualche anno il messaggio che arriva martellante dai media, dalla fiction, dalla politica e dall’economia neoliberista è il darwinismo sociale apocalittico: nel collasso del sistema non potranno salvarsi tutti. Chi si salverà? Le élite ricche che stanno comprando migliaia di ettari di buone terre in Nuova Zelanda o in Scozia per costruirsi delle lussuose ecofortezze? I più preparati, che hanno già in casa provviste, armi e anni di letture survivaliste? I padroni e il loro corteo di schiavi tenuti in catene dalle promesse securitarie? I più “forti” a prescindere? Ogni soluzione narrativa che sta saturando in queste ore l’immaginario collettivo non sembra uscire dallo schema villaggio-zona-salva vs mondo-contagiato. Una narrazione tossica che ha guidato più o meno consapevolmente anche la gestione pubblica, fisica e mentale, del Covid-19. Lockdown, imposto e autoimposto. Ma la quarantena non sta funzionando. Non solo perché i furbi e gli omertosi sono incapaci di agire collettivamente, ma perché nessuno sta offrendo alle persone disorientate delle contronarrazioni per uscirne. Non bastano statistiche o misure di sicurezza a tranquillizzare la gente, perché la gente non è più la plebaglia rurale o il gregge non pensante. Ci vuole qualcosa di convincente, che superi il magro descrittivismo un po’ imbecille in cui sono rimasti intrappolati i politici e gli intellettuali italiani. Ci vuole una visione, insomma, una visione alternativa.

 

 

Proviamo a dirlo così. Di recente Timothy Morton ha fatto un discorso condivisibile su Dark Ecology e il concetto di luogo. In breve, Morton sostiene che la nostra ossessione per il luogo è all’origine di un’idea di ecologia fallimentare, perché nombrilista, ripiegata sull’orto domestico, incapace di vedere la Terra in prospettiva cosmica. Morton ha ragione e addita, come altri prima di lui, una possibile via di uscita nelle culture indigene. Nel suo caso il Tibet: “La superficie dell’altopiano tibetano è già simile a quella di Marte. Sopra di me, la Via Lattea non è mai sembrata così grande. Immagina un tappeto guida davvero largo. Ora moltiplicalo per tre, circa. Riempilo di migliaia di punti di stelle simili a polvere. Aggiungi una trentina di nuove stelle al Grande Carro. Immagina stelle cadenti così frequenti che non devi aspettare più di mezz’ora per vederne una decina. Alcune di esse producono un suono quando si spengono nell’atmosfera. Una stella cadente aveva il diametro di una moneta da mezzo centesimo e mentre schizzava nel cielo faceva le bollicine come un gelato nella Coca-Cola” (Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico, Aboca 2019). Bruno Latour ci indica il “ritorno progressivo alle cosmologie antiche e alle loro inquietudini, che all’improvviso ci si accorge che non erano così infondate” (Enqête sur le modes d’existence: une Anthropologie des modernes, La Découverte 2012). Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro ci mettono in guardia dai facili primitivismi: i popoli amerindi e i loro affini non moderni “adattano sempre più spesso la retorica ambientalista occidentale alle proprie cosmologie, ai propri vocabolari concettuali e progetti esistenziali, e ritraducono questi ultimi in un linguaggio modernizzato di inequivocabile intenzione politica” (Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo 2017). In altre parole, non si tratta di fare gli Yanomami a Milano, di prendere in prestito cosmologie amazzoniche o inuit per ripensare la quarantena a Codogno. Bisogna ispirarsi invece a un livello più profondo, quello delle capacità sincretiche, di una visione cosmopopolitica del presente, di una diversa tecnologia dell’immaginario.

 

Dunque, di che cosa abbiamo veramente bisogno adesso? Che cosa può generare non solo una visione alternativa ma una prospettiva sul futuro che trasformi la rassegnazione in reazione, il fatalismo in speranza? Andiamo verso tempi molto duri. Il collasso del sistema-Terra non farà sconti. Le tecnologie e le misure necessarie per farcela richiederanno una dose enorme di sacrifici e una dose inimmaginabile di immaginazione. Ma che cosa possiamo fare noi, gente comune, nel frattempo? Mi trovavo in Appennino ed ero solo. E questa era la prima cosa sbagliata. Mi trovavo in Appennino senza un libro che fosse in grado di risvegliare in me l’essenza epica e cosmogonica delle terre che stavo guardando. E questa era la seconda cosa sbagliata. Camminavo sapendo di tornare in pianura, ed ero immerso in una macedonia di angoscia e nostalgia senza conforto. E questa era la terza cosa sbagliata. Allora ho immaginato una ragazza o un ragazzo di quattordici anni in una qualunque città delle pianure. Sul suo tavolo c’erano manuali di scuola concentrazionari, inservibili, decisamente ignoranti. Sul tavolo c’erano un cellulare pieno di facce e un computer pieno di scroll. Ma sul tavolo c’era anche un quaderno. La ragazza o il ragazzo scrivevano con una grafia pesante, fanciullesca, poco abituata alla penna. Ma le parole che ogni tanto andavano a capo in mezzo alla pagina parlavano di montagne che premevano da sotto il mare e migrazioni di testuggini verso l’Australia. Incendi che puzzavano di carne di animali bruciati e profumavano di legno di eucalipto. Di volpi blu che escono dall’atmosfera terrestre e guardano dall’alto della ionosfera le concussioni delle deflagrazioni atomiche. I salmerini e i tilacini. Le isole di kelp alla deriva e le città sparate verso il cielo che si sbriciolano come castelli di sabbia. Di migranti e di ingiustizie e di sangue, ma anche di nascite nei cespugli di Lesbo. Di che cosa abbiamo veramente bisogno in questo momento? Che cosa può restituirci la speranza? Quella ragazza, quel ragazzo che inventano mondi mentre noi piagnucoliamo o sorseggiamo birra. Quel quaderno, che esiste già da qualche parte, e che stiamo aspettando senza saperlo.

 

Fotografie di Filippo Macchi.

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