Un classico, ormai / Tutte le identità, e le donne, di Romain Gary

2 Agosto 2021

Georges Simenon confessa in Lettera a mia madre (1974) che non l'aveva mai capita. Soprattutto non accettava che lei avesse sempre voluto appartenere al mondo della "piccola gente", lui che aveva imparato a descriverlo così bene, quel mondo, ma dal quale aveva fatto di tutto per affrancarsi. Aldo Busi invece la capiva, sua madre, fino a ritrarla nei vari libri in pagine di sconvolgente bellezza. Walter Siti ha provato a ucciderla, letterariamente, in un paio di romanzi. Peter Handke ha ricomposto l'esistenza mancata della madre suicida nel suo libro più bello, Infelicità senza desideri (1988). Gli scrittori che parlano della madre si misurano con una narrazione tra verità e artificio, perché le vite raccontate non sono quelle dei personaggi di invenzione. Simenon, Busi, Siti, Handke hanno avuto madri, stando ai loro ricordi, con esistenze banali e avare di affetti, spese in tentativi di salvare le apparenze, quasi sempre estranee al sangue del loro stesso sangue, ma alle quali i figli sono tornati, per restituirle spesso in pagine senza pudore, come ha fatto Roland Barthes in Dove lei non è (2009), che rinvia a Proust, alla morte della genitrice che diventa sopportabile perché, alla fine, spalanca le porte a un innominabile ma salvifico "godimento di libertà".

 

Poi c'è Romain Gary e il suo La promessa dell'alba (1960), tradotto (da Marcello Venturi) e ristampato recentemente, come tutti i suoi libri, da Neri Pozza. Un romanzo su una madre luminoso e stilisticamente perfetto, dove la commozione è sempre accompagnata dal sorriso, dove il sense of humour che lo pervade stempera il resoconto, a volte drammatico, della vita di una madre fuori dal comune, resa qui in un ritratto memorabile.

Leggere Romain Gary significa avvicinarsi senza fatica a un'idea "alta" di letteratura, dove la vita raccontata può essere disperata ma mai grave ("il più grande sforzo della mia vita è quello di riuscire a disperarmi veramente. Niente da fare. Resta sempre in me qualcosa che continua a sorridere" scrive in La promessa dell'alba) e dove lo stile raggiunge la complessità attraverso continui procedimenti di sottrazione, per arrivare a una lingua ricca e piena di invenzioni ma essenziale, con una sintassi semplice. Romain Gary era un ebreo nato a Vilnius, in Lituania, nel 1914. Cominciò ad usare eteronimi quando scriveva, il suo vero nome era Romain Kacew che poi diventerà Gary, Shatan Bogat, Fosco Sinibaldi, Emile Ajar, perché, nella prima metà del ventesimo secolo, chi nasceva ebreo rischiava la vita o forse perché, come gli suggerisce la madre a un certo punto in La promessa dell'alba "un grande scrittore francese non può avere un cognome russo".

 

Stanco di "essere solo se stesso", Gary spiega perché l'avventuriero che era in lui non aveva trovato pace in nessuna di quelle differenti identità: prima di suicidarsi con un colpo di pistola alla testa, il 2 dicembre 1980, dice: "La verità è che ho sentito profondamente la più antica tentazione proteiforme dell'uomo, la molteplicità" ed evoca Proteo, il dio marino che conosce passato, presente e futuro, come un narratore onnisciente. Tutta la sua vita sarà dedicata a cercare di dominare il presente attraverso la voce narrante di un autore non solo di storie scritte, ma anche umane, con una pretesa di conoscenza olistica, della sua psiche, di quella dei suoi personaggi e degli alter-ego che via via si inventava. Sceglie di sottrarsi al giudizio degli altri anteponendo a sé un'identità fittizia, inventandosi vite che ripartono da zero, con un nuovo nome e cognome e ogni volta che esce un libro è una rinascita, come ogni donna che ama fa di lui un uomo nuovo. Opta per gli eteronimi (e non pseudonimi, che sostituirebbero il nome dell'autore reale, lasciandolo sconosciuto e nell'ombra) perché coesistono con l'autore, ne formano una sorta di estensione del carattere, sembrano personaggi che vivono di vita propria.

 

In La promessa dell'alba il rapporto tra verità e identità non è mai anteposto a una narrazione che si dà per scontato sia autobiografica: Romain Gary arrivò davvero in Francia a undici anni con sua madre, fu davvero un eroe di guerra, come racconta nel libro, davvero diventerà diplomatico, realizzando il sogno materno. Niente rallenta la necessità di una storia che, nella sua struggente verità, incanta dalla prima all'ultima pagina. La promessa del titolo è quella che Romain fa a se stesso-bambino, una mattina, di rendere giustizia a sua madre, dare un senso ai sacrifici che lei compie per nutrirlo ed educarlo e tornare un giorno a casa "dopo aver strappato vittoriosamente il possesso di questo mondo a coloro che avevo imparato a conoscere fin dai miei primi passi per la loro potenza e crudeltà".

 

"Nijinsky! Nijinsky! Sarai Nijinsky!" esclamava estatica la madre quando aveva intravisto per lui bambino una carriera artistica e lo accompagnava alla scuola di ballo. "Mio figlio sarà Ambasciatore di Francia, Cavaliere della Legion d'Onore, grande attore drammatico, Ibsen, Gabriele D'Annunzio..." sbraitava in faccia ai vicini di casa che non l'amavano, fino a urlargli con infantile impotenza, cercando qualcosa di definitivo "che li annientasse, una dimostrazione suprema di successo materiale: '...Si vestirà a Londra!'". "Tu sarai ufficiale", "Non ti succederà niente", "Trionferai", "Tutta Nizza è fiera di te" gli ripete per tutto il romanzo, infondendo in lui "una disposizione atavica all'ottimismo, come una malattia contro cui non si può fare niente".

 

 

E inducendolo verso "una selvaggia risoluzione di raddrizzare il mondo e deporlo un giorno ai suoi piedi, un mondo felice, giusto, degno di lei finalmente". Soltanto alle soglie della maturità il protagonista comincia a capire che questo modo materno di volergli bene può forse danneggiarlo: "Non è bene essere tanto amati, così giovani, così presto. Ci vengono delle cattive abitudini. Si crede che ci sia dovuto. Si crede che un amore simile esista anche altrove e si possa ritrovare. Ci si fa affidamento. Si guarda, si spera, si aspetta. Con l'amore materno la vita ci fa all'alba una promessa che non manterrà mai". 

 

Romain Gary era un uomo affascinante, un affabulatore, bello come un attore: la sua ultima moglie, la bellissima e fragile Jean Seberg di Fino all'ultimo respiro (1960) di Jean Luc Godard morirà suicida, un anno prima di lui. Il successo mondano (Romain Gary girerà come regista anche due film, Gli uccelli vanno a morire in Perù, 1968, e Kill, 1971), ostacolato dalle sue false identità, lo mette davanti a un interrogativo: che diritto aveva di disporre delle vite degli altri, quando gli altri sono persone vere e non più personaggi usciti dalla sua fantasia di scrittore? Era successo questo: aveva scritto undici libri con lo pseudonimo di Emile Ajar e aveva chiesto al giovane figlio di una sua cugina di primo grado di incarnarsi nel corpo di Ajar. Sarà quindi Paul Pavlowitch, alias Emile Ajar, a ritirare il Goncourt che viene assegnato a Ajar per La vita davanti a sé (1975). Gary gongola: aveva già vinto il prestigioso premio nel 1956 con Le radici del cielo e, per statuto, il Goncourt non poteva essere assegnato due volte allo stesso autore. Poi, preso dal panico, non reggendo l'enormità di quanto aveva architettato, costringerà Pavlowitch-Ajar a rifiutare il premio, innescando nuovi interrogativi e nuove polemiche.

 

Manipolare il mondo, giocare con le persone autentiche come fossero figure di un romanzo, gestire spregiudicatamente la sua stessa identità, diventò il crinale pericoloso sul quale Romain Gary muoveva passi via via più incerti. La soddisfazione di essersi preso gioco dell'establishment letterario ("A nessuno è venuto in mente che non fosse Paul Pavlowitch a inventare Emile Ajar ma che fosse lui ad essere stato inventato da qualcun altro") gli prende la mano mentre il figlio della cugina, con il suo avatar Emile Ajar, avanza pretese, si allarga, rilascia interviste, si appropria del successo del romanzo premiato, otterrà addirittura un lavoro da "editor" presso la casa editrice del "suo" libro, Mercure de France. Pavlowitch, intervistato molti anni dopo da Bernard Pivot in una puntata della famosa trasmissione Apostrophe alla tv francese (visibile su YouTube) dirà: "Sì, è vero, mi sentivo manipolato ma del resto ero lì per esserlo".

La realtà preme per prevalere sulla folle messinscena di Gary. Stremato da questo gioco a incastri scrive Vita e morte di Emile Ajar e lo consegna all'editore poco prima di uccidersi, in modo che esca postumo. Uscirà nel 1981 e sarà il suo testamento letterario, nel quale Gary scioglie i nodi delle sue identità, rivela che La vita davanti a sé lo aveva scritto lui, che lui era Emile Ajar e Paul Pavlowitch solo una comparsa.

 

Finisce drammaticamente questa corsa a superarsi, che è ben spiegata, nei suoi risvolti psicologici o meglio psicanalitici, in La promessa dell'alba. La figura imponente della madre, così come appare in questo libro, sembra costringerlo a una lotta continua per competere con se stesso, un ricatto mai esplicitato ma che non gli dà tregua, perché la mamma gli aveva raccontato "troppe storie belle, e in quelle ore balbuzienti dell'alba in cui ogni fibra del bambino si impronta per sempre del segno ricevuto, ci eravamo fatti troppe promesse e io mi sentivo impegnato. Con un bisogno tale di elevazione nel cuore che tutto diventava abisso e caduta". Il bisogno del padre che non aveva mai avuto diventa speranza di affrancarsi dalla pressione materna: "Invano la supplicavo di lasciarmi riprendere fiato, di avere pazienza... distoglievo gli occhi dal suo viso per cercare di non vedere più quell'espressione scandalizzata davanti a un fenomeno completamente nuovo per lei, l'accettazione della disfatta, come se un uomo fosse qualcosa che si può vincere". Non sarà Nijinsky, ma finirà per essere "Console Generale di Francia, membro della Liberazione, ufficiale della Legion d'Onore, e se non sono diventato né Ibsen né D'Annunzio non è che non abbia tentato", scrive con l'amara soddisfazione di avere in qualche modo risposto alle aspettative materne.

 

Rileggere La promessa dell'alba alla luce di quello che ormai abbiamo appurato sulla vicenda umana di Romain Gary, non ci permette solo di godere del suo incredibile talento letterario in una storia avvincente che tiene incollati alle pagine fino alla fine. Ci mette di fronte a un ennesimo capitolo del rapporto madre-figlio, nel bisogno viscerale di una donna che non avrà altri uomini oltre a lui, e che riverserà su di lui un amore castrante dal quale, più volte, il protagonista di La promessa dell'alba tenterà di staccarsi, deludendola nelle sue aspettative, fallendo inconsciamente dove lei si aspettava che trionfasse: invano, perché lei, con un artificio che non sveliamo, continuerà ad essere concretamente presente nella sua vita perfino dopo essere morta, per ben tre anni. "Tutto quello che ho fatto l'ho fatto perché tu avevi bisogno di me". Romain Gary confesserà di avere sempre avuto bisogno di una donna – e furono molte le donne che lui ebbe nella vita reale – allo stesso tempo vulnerabile e devota, un po' sottomessa e riconoscente, che gli desse la sensazione di dare mentre prende, di aiutare mentre era aiutato. "Confesso di aver tentato di sottrarmi alla sua presenza dominatrice, cercai di fuggirla... ma la mamma mi seguiva ovunque andassi, la sua voce risuonava dentro di me con sferzante ironia". In un romanzo toccato dalla grazia si può anche proferire la parola "incesto", anche se è il 1960, e "col rischio di scioccare e sconcertare qualcuno dei lettori", per spiegare che no, mai Gary ha avuto per sua madre "tendenze incestuose", che "il beota" che è in lui "si inchina rispettosamente davanti al complesso di Edipo, la cui scoperta e divulgazione onorano l'Occidente", che "se è vero che non sono mai arrivato a desiderare fisicamente mia madre, ciò non dipese tanto da quel legame di sangue che ci univa, ma piuttosto perché lei era già una donna d'età e perché per me l'atto sessuale è sempre legato a una condizione di giovinezza e di freschezza fisica" (lasciando quindi uno spiraglio di ambiguità, "non avendola conosciuta mai veramente giovane" e, poche righe dopo, Gary si lancia: "non ho mai guardato all'incesto sotto la terribile luce da sotterraneo e da dannazione eterna che una falsa morale si è deliberatamente ingegnata a gettare su una forma di esuberanza sessuale che, per me, non occupa che un piccolissimo posto nella scala monumentale delle nostre abiezioni".

 

Più accettabile l'incesto, insomma, secondo Gary, di Hiroshima e di Buchenwald, dei plotoni d'esecuzione e della tortura. "La lugubre fisionomia di un certo illustre fisico, che raccomanda al mondo civile di continuare le esplosioni nucleari, mi è incomparabilmente più odiosa di un figlio che va a letto con la madre"). In due pagine bellissime, verso la fine, negli anni della guerra e della lontananza, la madre visita il figlio che, sdraiato sulla sabbia di Big Sur, nella notte stellata e con il rumore dell'oceano, vede nella sua immaginazione la punta rossa della sua sigaretta: "me la inventavo accanto, con tutto l'amore e tutta la fedeltà di cui ero capace". La vita di Romain Gary somiglia a un paesaggio illusorio di Escher, una fuga di specchi, con i labirinti dove smarrire la propria identità e le costruzioni geometriche di una esistenza che si vorrebbe pianificata nei minimi dettagli ma che le prospettive invertite e la forza della realtà scompaginano. Lo scrittore prolifico, al centro della mondanità, premiato, amato da donne bellissime ha, a un certo punto della sua vita troppo piena e troppo complicata, bisogno di silenzio. "Mi sono molto divertito, arrivederci e grazie" chiude così il suo testamento postumo. Nel biglietto che lasciò prima di spararsi scrisse invece "Nessun legame con Jean Seberg", intendendo che lei, suicidatasi pochi mesi prima, non c'entrava nulla con il suo desiderio di pace.

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