Melania G. Mazzucco. Due volte artiste

4 Febbraio 2023

Un nuovo libro che costruisce una sorta di museo sulle donne artiste un po’dimenticate o da riscoprire? O un libro sugli autoritratti realizzati da donne, come il titolo pare suggerire? In verità no, o perlomeno non proprio. Melania G. Mazzucco, con questa sua ultima opera (Self-Portrait. Il museo del mondo delle donne, Einaudi, pp. 202, €30) crea una coinvolgente, colta e vitale ricognizione intorno all’arte al femminile, riflettendo su opere nelle quali la donna è “soggetto due volte” perché dipinge un’altra donna o ritrae se stessa. Certo l’autrice ci mostra numerosi autoritratti, ma si sofferma anche su dipinti con contadine che piantano patate (come in un quadro di Natal’ja Gončarova, 1908-09), lavano la biancheria (Le lavandaie di Marianne Werefkin, del 1911) o proteggono i figli dalla guerra come una cupa e tenace testuggine (Le madri di Käthe Köllwitz, 1922-23). Il libro è infatti diviso in 36 capitoli precisi, che partono da “Nascita e infanzia”, passano attraverso ’”Adolescenza”, ma anche “Erotismo”, “Gravidanza” e “Lavoro” fino ad approdare alla “Vecchiaia”: 36 tappe, illustrate di volta in volta dalla riproduzione di una singola opera su cui si sofferma. Insomma quello di Melania G. Mazzucco è una galleria «personalissima» – come lei stessa la definisce – di quadri di autrici che spaziano dal XVI secolo a oggi.

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Elisabetta Sirani, Porzia che si ferisce alla coscia, olio su tela, 1664.
Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio. (Foto della Collezione).

Ma è anche un viaggio nella vita al femminile, tra nascita, quotidianità e vecchiaia. Un viaggio che non si conclude tristemente con la morte bensì riprende slancio, proprio nell’ultimo saggio, dove incontriamo un’opera poetica e vitale basata sulla relazione tra una giovane bambina e quella che potrebbe sembrare sua nonna. In verità si tratta della scultura di Giosetta Fioroni, Giosetta con Giosetta a nove anni (2002), dove Giosetta bambina, con cappottino e trecce, prende per mano una Giosetta ormai appesantita dagli anni. Affrontano assieme il mondo, strette l’una all’altra, sorreggendosi a vicenda così come spesso accade nella realtà, dove la nonna dà un senso alla propria vita accudendo nipoti che a loro volta la inondano di una vitalità ormai in lei scemata? Certo, ma il senso di questo lavoro è per Mazzucco ancora più profondo e ha a che fare con l’essere artista: «Questa è la maternità di Fioroni.

Non separarsi dalla propria infanzia, coltivarla, nutrirla, plasmarla, in essa attingere ricordi, emozioni, visioni, permette di continuare ad essere artista. Fioroni ha oggi novantun anni. E Giosetta con Giosetta NON è la sua ultima opera.» E con questa riflessione vitale, aperta verso il futuro di un fare artistico capace di nutrirsi dello stupore della gioventù, l’autrice conclude il suo libro quasi volesse riconnettersi all’inizio, come in una sorta di cerchio dove infanzia e vecchiaia si danno, per l’appunto, la mano e si nutrono a vicenda.

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Berthe Morisot, Le Berceau (La culla), olio su tela, 1872.
Parigi, Museo d’Orsay. (Foto © Laurent Lecat / Electa / Mondadori Portfolio).

Melania G. Mazzucco ha dimostrato ampiamente di saper scrivere: i suoi romanzi sono stati tradotti in 29 paesi, ha vinto innumerevoli premi, tra cui il premio Strega nel 2003 per il libro Una vita. Ma ha anche mostrato con chiarezza di saper scrivere dalla parte delle donne, avvicinandosi in punta di piedi alla vita di varie artiste e inoltrandosi nelle loro opere: con L’architettrice riscopre l’opera e la vita di Plautilla Bricci che, nella Roma repressiva e bigotta del Seicento, non solo dipinge, ma diviene anche la prima donna architetto della storia quando crea una sfarzosa cappella per la chiesa di San Luigi dei Francesi. Con Lei così amata insegue la vita e le opere della fotografa, scrittrice e viaggiatrice svizzera Annemarie Schwarzenbach.

Con La lunga attesa dell’angelo racconta gli ultimi anni di vita di Tintoretto evidenziando il suo rapporto con la figlia Marietta, pittrice essa stessa. E ora la scrittrice fa di più: interpreta con uno sguardo empatico e affettuoso 36 opere di altrettante artiste. Come già nel libro Il museo del mondo, sceglie di riflettere su opere che l’hanno intimamente coinvolta senza seguire un ordine cronologico, né geografico o stilistico. La guida la sua sensibilità, nonché le opere delle artiste che si susseguono toccando di volta in volta tematiche legate al corso della vita delle donne. E noi possiamo così compiere un viaggio nella storia dell’arte al femminile, un percorso originale e vitale che si sposta a volte tra autrici trascurate e da rivalutare: come Berthe Morisot che a soli 32 anni si unì al nascente movimento impressionista ed espose assieme a Degas, Cézanne, Monet, Pissarro, Sisley, Renoir e altri ancora, per poi venire dimenticata. Ma incontriamo pure artiste note e famose come Frida Kahlo, Carol Rama, Louise Bourgeois o Marlene Dumas, a cui Palazzo Grassi ha di recente dedicato un’ampia antologica.

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Antonia Eiriz, La Anunciación (Annunciazione), olio su tela, 1963. L’Avana, Museo Nacional de Bellas Artes de Cuba. (Foto © del Museo).

Mentre altre ancora escono dal nostro consueto panorama eurocentrico, come la cubana Antonia Eiriz, la brasiliana Tarsila Do Amaral o la giapponese Katsushika Ōi. Con “pennellate” rapide e precise, di ognuna Mazzucco ricostruisce l’impasto della loro vita, tra studi d’arte, amori, incontri artistici significativi, difficoltà o successi, incoraggiamenti o svalutazioni, per poi accennare ai loro vari lavori, e infine concentrarsi sull’opera che lei ha scelto come una tappa significativa del viaggio nel quale ci accompagna con mano sicura, suscitando curiosità e desiderio di sapere di più, ancora di più su queste autrici e sulle loro opere. 

Che il suo libro voglia proporsi anche come una sorta di inno alla forza femminile, come una sfida che unisce queste artiste contro una società ostile, soprattutto nel passato, al loro successo, diffidente verso il loro stesso fare artistico, è un intento evidenziato da Mazzucco fin nel primo capitolo, non a caso intitolato “Esordio”. Qui l’autrice ci parla del quadro Porzia che si ferisce alla coscia di Elisabetta Sirani. Ma perché Mazzucco apre il suo libro proprio con questo quadro della giovane bolognese Sirani, adulata come l’“Apelle femminile” quando aveva soli ventisei anni e che s’intestardiva a firmare le proprie opere (quando i suoi colleghi non usavano farlo) affinché non venissero confuse con quelle del padre, modesto imitatore di Guido Reni?

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Antonietta Raphaël, Simona in fasce, olio su tela, 1928.
Collezione privata. Per gentile concessione del Centro Studi Mafai Raphaël.

Il punto fondamentale è che questo quadro mostra Porzia, figlia di Catone e moglie di Bruto, nell’atto di trafiggersi una coscia a dimostrazione della sua forza interiore e della sua capacità di sopportare ogni dolore. Porzia si rende conto che Bruto è agitato da un’insolita preoccupazione e vuole saperne la causa, così si autoinfligge una ferita e gli dice: “So che la natura delle donne si crede sia troppo debole per resistere a un segreto (…) Adesso ho conosciuto che neppure il dolore saprebbe vincermi.” Soggetto assai poco rappresentato, Porzia, dipinta a sua volta da un’artista donna (figura rara nel Seicento), diventa giustamente per l’autrice una sorta di manifesto di tutte le donne artiste: «donne forti, eroine a loro modo, che rivendicano il diritto di volgere le spalle ai lavori domestici per contribuire alla lotta politica, e/o alla produzione culturale.» 

Coraggio, alle donne che volevano essere artiste, ce ne voleva davvero molto per non diventare presto, come scrive Annie Ernaux, una donna «svuotata di sé, infarcita di sentimentalismo in un mondo ristretto, costituito dallo sguardo degli altri», protesa esclusivamente al matrimonio e pronta a sacrificare la propria libertà per marito e figli, condizionata da una società e da una cultura per la quale una donna colta era solo saccente. In passato riuscivano infatti a diventare pittrici quasi solo le figlie di artisti che avevano bisogno del loro contributo. Così Katsushika Ōi è figlia di uno tra i più grandi pittori giapponesi: Hokusai.

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Carol Rama, I due pini (Appassionata), acquerello, tempera e matita colorata su carta, 1941. Collezione privata. (© Archivio Carol Rama, Torino. Foto Pino dell’Aquila).

Firma con il suo nome solo alcune delle sue opere, mentre il resto della produzione è firmato assieme al padre o soltanto da lui, perché di fatto la loro era una sorta di alleanza, in cui lei risultava subalterna, per mantenere una modesta bottega d’arte che sfornava ukiyo-e a prezzi abbordabili, ma che con orgoglio rifiutava di dipingere album e ventagli. Di lei Mazzucco sceglie il delizioso ukiyo-e Fanciulla che compone una poesia sotto i fiori di ciliegio di notte, anche per evidenziare come in Occidente, in quello stesso periodo di inizio Ottocento, fiorissero invece dipinti con donne rigorosamente lettrici (e mai scrittrici) così da donare loro un tocco di romantiche sognatrici avide di narrazioni sentimentali. 

Il discredito e la svalutazione verso le artiste erano, un po’inaspettatamente, di casa anche tra gli autori delle avanguardie storiche, malgrado la loro vocazione di “ultra-anticonformisti”. Si sa che Walter Gropius, dopo aver aperto, bontà sua, anche alle donne la scuola del Bauhaus, trovò che ci fossero “troppe” iscritte ad architettura e quindi pensò bene di deviarle verso corsi più adatti alla loro “sensibilità femminile”, ovvero le arti applicate. Mentre il surrealista Breton – come racconta Mazzucco – trovava “insolito e improbabile” che una donna fosse in grado di “governare il timone della nave dell’arte”. Di conseguenza, pur apprezzando le opere di Leonora Carrington, basate su immaginazione allucinata (e quindi di fatto perfette per un movimento che valorizzava inconscio e follia, magia ed esoterismo) quando scrive di lei parla «solo delle sue invenzioni culinarie»! E ancora in tempi più recenti, ovvero nel 1958, a Pauline Boty, pioniera e fondatrice della pop art inglese (a cui si deve l’opera che campeggia nella copertina del libro), veniva sconsigliato di fare domanda per i corsi di pittura al Royal College of Arts per puntare su studi più appropriati al genere femminile, ovvero decorazione su vetro. 

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Giulia Lama, Nudo di donna (Nudo femminile sdraiato), carboncino e gessetto bianco, quarto decennio del Settecento. Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. Cl. III n. 6987r. (Foto 2022 © Archivio Fotografico - Fondazione Musei Civici di Venezia).

Poi, magari, a discredito di queste artiste potevano aggiungersi anche le loro eventuali origini straniere. Così Antonietta Raphaël, russa di nazionalità (anche se nata nell’odierna Lituania) e per di più ebrea, viene subito vista dall’influente critico Roberto Longhi come “la sorellina di latte di Chagall”, autrice di “un’arte eccentrica e anarcoide che difficilmente potrebbe attecchire da noi”. Ma in questo caso (siamo nel 1929) a giocare contro l’autrice, più che il suo essere donna era forse il suo fare artistico poco italico che, in pieno periodo fascista, era poco conveniente promuovere. 

Tra le innumerevoli difficoltà affrontate dalle nostre eroine, c’era anche la loro scelta di temi poco virili o erotici in periodi storici – tra Ottocento e prima metà del Novecento – in cui i mercanti d’arte e i collezionisti erano quasi tutti di sesso maschile. Così la meravigliosa opera La culla, dipinta nel 1872 da Berthe Morisot – dove si coglie tutta la tenerezza e l’ansia protettiva di una madre nei confronti della propria neonata – l’autrice non riuscì mai a venderla quando era in vita. «Ogni figlia, sorella, madre, donna sola vi si è riconosciuta» – scrive con fine intuito Mazzucco. Ma un uomo, invece, che cosa se ne faceva di questa raffigurazione di amorevole maternità? Era infatti quello un periodo in cui invece circolavano, un po’ sottobanco, migliaia di foto e dagherrotipi osé, con fanciulle grassottelle mezze nude o nude del tutto, lo sguardo immancabilmente ammiccante, anche se magari maliziosamente riflesso in uno specchio. Queste “signorine” sì piacevano e andavano a ruba, non certo un dipinto “troppo femminile” quale La culla… 

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Plautilla Nelli, Annunciazione, olio su tavola, metà del XVI secolo circa. Firenze, Palazzo Vecchio. (Foto © Fototeca Musei Civici Fiorentini).

In ogni caso, l’autrice non trascura di affrontare anche il capitolo “Erotismo” per chiedersi come il nudo femminile – un tema per secoli dipinto da uomini per altri uomini al fine di suscitare eccitazione e piacere (come ben spiega John Berger in Questione di sguardi) – potesse essere rappresentato dalle donne. Mazzucco ci propone, ad esempio, il disegno della veneziana Giulia Lama (1681-1747) dove il suo seducente e carnale nudo femminile è sì nella posizione di una qualunque Venere, ma – e questo dettaglio cambia tutto – anziché occhieggiare verso lo spettatore si copre pudicamente il viso per concedere solo il suo corpo allo sguardo. «Questo è il mio corpo –sembra dire. Guardatelo, godetelo. Colei che invece io sono non vi appartiene. E’ mia soltanto» – commenta Mazzucco.

Spiazzante, al contempo delicato e perturbante, è il capitolo “Gravidanza” dove – subito dopo una devota e commovente Annunciazione, dipinta da suor Plautilla Nelli (1524-1588), in cui si vede Maria che accetta con serenità e trepidazione il proprio destino di madre di Cristo – Mazzucco passa alla terrificante, espressionista e drammatica Annunciazione della cubana Antonia Eiriz (1929-95): sorta di grido disperato e terrorizzato dove il messaggero di Dio sembra un essere diabolico giunto per imporle una maternità che «è anche oppressione, intrusione, imposizione che porterà dolore e morte». A proposito di morte e gravidanza, con coerenza l’autrice ci mostra e ci racconta subito dopo il quadro di Paula Modersohn Becker (1876-1907) Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio. Toccante, intimo e delicato, questo autoritratto ieratico e volutamente semplice – in cui l’autrice ci guarda con grandi occhi carichi di intensità e serenità, orgogliosa di mostrare pudicamente la sua pancia rigonfia di un figlio agognato e temuto – suggerisce, come scrive Mazzucco, che «creare e procreare (…) sono la stessa cosa.» Ma tale autoritratto così pacato custodisce anche un lato oscuro e un segreto: Paula Becker quando si dipinse non era realmente incinta.

Lo divenne sì qualche mese dopo, per poi morire quando diede alla luce la figlia Mathilde. Aveva appena trentun anni, ma aveva già realizzato più di 1400 opere, tra dipinti, disegni e incisioni all’acquaforte. «Al momento della scomparsa ne aveva venduta solo una» – ci informa Mazzucco. Eppure questa artista – per la quale l’amico Rainer Maria Rilke compose una poesia proprio in relazione all’autoritratto in questione – non verrà dimenticata: nel 1927 le sue opere verranno infatti ospitate nel primo museo al mondo dedicato a una donna artista. Nonostante i nazisti considerassero le opere di lei “arte degenerata” e ne distrussero di conseguenza vari quadri, il “suo” museo (il Paula Modersohn-Becker Museum) è ancora lì per noi, nella via più affascinante di Brema, la Böttcherstrasse, progettata in stile espressionista nei primi del Novecento proprio da un amico di Paula, l’architetto e scultore Bernhard Hoetger. Chissà che in un futuro non troppo lontano nascano altri musei dedicati a donne artiste? 

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