Michel Serres: Mercurio e la comunicazione

4 Novembre 2022

Sembra stia passando sotto silenzio, nei media e nella stessa Università, il trentennale dell’istituzione dei Corsi in Scienze della comunicazione nel nostro Paese. Forse la cosa non fa notizia. E forse è giusto che sia così, data l’inflazione di queste lauree un po’ dappertutto negli atenei italiani di ogni ordine e grado, natura ed entità. Oggi, del resto, la qualifica di comunicatore non si nega a nessuno: basta saper smanettare un minimo con un programma di grafica, scribacchiare in un sito d’informazione di provincia o primeggiare con ampio numero di like nei social per autodefinirsi – ed essere universalmente considerato b un esperto di comunicazione.

Curatori di immagine sono parrucchieri ed estetisti; per non parlare di un qualsiasi ragazzino (influencer, youtuber o quant’altro) che sbaraglia in termini di numeri (e di danari) ogni altra forma di attività mediatica, di massa e no. Comunicazione: qualunque cosa voglia dire questa parola, in qualunque modo si tiri questa coperta troppo corta, ora dal lato della paciosa complicità ora da quello delle subdole strategie di mercato, la confusione regna sovrana. E c’è chi ci sguazza; come al contrario chi – va detto – si chiama fuori dal magma sempre più indifferenziato dei saperi e dei poteri provando a formulare programmi di ricerca e di insegnamento ripensati alla radice.

Eppure, quando aprirono in cinque e solo cinque atenei italiani, nel lontano 1992, questi corsi di laurea in Scienze della Comunicazione avevano la mira opposta: quella di fornire una spiegazione chiara e distinta, e una conseguente rigorosa attività formativa, di questo fenomeno inevitabilmente multidimensionale e fortemente stratificato, quindi accostabile da una molteplicità di prospettive disciplinari e metodologiche. C’era una scommessa da lanciare: chiamare a raccolta sociologi e semiologi, giuristi e informatici, storici e letterati, economisti, politologi etc. per disegnare una nuova carta del sapere e un comune terreno di ricerca con l’obiettivo di formare una figura professionale senza pedigree ma con enormi potenzialità analitiche e strategiche da giocarsi entro una società dei consumi in rapidissimo mutamento.

Cambiavano assetti geopolitici, politiche pubbliche, condizioni del mercato; e soprattutto l’ondata micidiale della rete stava per arrivare, potente e pervasiva. C’era un po’ di timore, grande fermento, tanta eccitazione. Nacquero nuovi temi interdisciplinari (la sociosemiotica), questioni trasversali (la spettacolarizzazione delle notizie, i media e la guerra…), problematiche che laceravano il sistema dei saperi ridisegnandone confini e gerarchie, valori e disvalori. E i ragazzi accorrevano a frotte, le iscrizioni facevano numeri impressionanti (non pochi gli insegnamenti con duemila esami…), creando una moda che, come tutte le mode, ha finito per passare di moda. Una crisi di sovrapproduzione.

La casualità di un anniversario non costringe a fare bilanci, ovviamente. Troppo presto o troppo tardi. A meno di non agire in via contrastiva, e rileggere un testo che, ignaro di tutto ciò non foss’altro che per ragioni cronologiche, pensava la comunicazione come fenomeno pervasivo e centrale della cultura contemporanea – e che dunque in qualche modo ha funzionato, insieme ovviamente a molti altri, come iniziale spunto propulsivo per la costituzione di programmi di laurea che se ne occupassero. Ce ne fornisce occasione l’editore Meltemi che ha appena mandato in libreria la traduzione del celebre La comunicazione del mai troppo onorato Michel Serres (cura e postfazione di Alessio Ceccherelli, introduzione di Giovanni Boccia Artieri, pp.395), questo filosofo a dir poco sui generis, apostolo dell’interferenza e della contaminazione, della traduzione/tradimento e del dinamismo strutturale che ha via via elogiato parassiti e angeli, dongiovanni e nomadi d’ogni tipo.

Dai suoi oltre sessanta volumi (pochi dei quali in lingua italiana, e alcuni già spariti dal mercato) si fa fatica a circoscrivere e articolare l’ampiezza e la complessità dei suoi interessi (matematica, fisica, filosofia, mitologia, religioni, fantascienza, antropologia, letteratura e scultura, musica…), nonché il gran numero di autori e compagni di strada (Bachelard, Canguilhem, Foucault, Dumézil, Monod, Deleuze, Prygogine, Girard…) con cui ha incrociato riflessioni e polemiche, dibattiti infiniti e durissime prese di posizione. Un recente fascicolo della collana-rivista “Riga” (è il n. 35 del 2015, dedicato appunto a Michel Serres, per la cura di Gaspare Polizzi e Mario Porro) rende assai bene conto di questa ricchezza e di quest’erranza programmatica di concetti e di questioni, che vede soprattutto nella figura di Ermes (messaggero degli dèi e dio egli stesso della traduzione e dei viaggi, del commercio e del furto) un costante punto di riferimento teorico e insieme immaginativo, concettuale e simbolico.

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Cinque i volumi consacrati da Serres a questo dio greco-latino maldestro e simpatico, sempre altrove rispetto a dove lo si cerca, dislocato a partire dal suo centro, in perenne sgombero e con le relative mediazioni e ibridazioni (nelle Lezioni americane Italo Calvino ne fa il patrono della sua idea di letteratura come ricerca plurima e inarrestabile). Il primo di questa serie, per così dire, ermetica ed ermeneutica, è appunto dedicato a La comunicazione (1968), il secondo a L’interference (1972), il terzo a La traduction (1974), il quarto a La distribution (1977), mentre il quinto e ultimo, Passaggio a Nord Ovest (1980), va in cerca dei percorsi tanto eventuali quanto necessari per riunire in una sola problematica epistemologica scienze esatte e saperi umanistici, natura e spirito, fisica e filosofia.

Ed è proprio nel sospiroso passaggio a Nord-Ovest, come spiega Boccia Artieri nella sua introduzione, che possiamo individuare il punto di partenza e d’arrivo, il chiodo fisso, della ricerca di Michel Serres sulla comunicazione: tra gli incolti istruiti (scienziati?) e i sapienti ignoranti (umanisti?), va costruita, per Serres, la figura intermedia dello specialista generalista, e cioè di qualcuno che pone la vastità di interessi epistemici e di prospettive teoriche come sua specifica expertise. Che è appunto quel che fa Ermes-Mercurio, il comunicatore per eccellenza, con mandato celeste e cocciutaggine personale.

Per Ermes, cioè per chi effettivamente potrebbe vantare la patente di comunicatore, non vi è alcuna differenza fra conoscenza del mondo e comunicazione dei suoi risultati: conoscere è viaggiare, traslare, scambiare cose e concetti, affetti e percetti, compiere faticose e avvincenti escursioni fra mondi ineguali eppure formalmente analoghi, rassomiglianti per via adbuttiva. E questo per una ragione molto semplice, che fra i primi Serres espone già negli 60 e che oggi è quasi un luogo comune: a un paradigma classico della produzione di cose (dove l’eroe è Prometeo) si sta sostituendo nella tarda modernità un altro sistema insieme finanziario e sociale, politico ed estetico che funziona piuttosto per scambio di messaggi (da cui, appunto, Ermes), per circolazione di segni e segnali, i quali stanno al posto di cose e stati di cose che non per forza devono posizionarsi dietro di loro a mo’ di referenti.

Circolando a più non posso, l’informazione è diventato il vero capitale, e la conoscenza del mondo finisce per essere una specie di motivazione posticcia della sua esistenza. I messaggi contano per se stessi, per il modo in cui circolano, parlandosi e trasformandosi fra loro, a prescindere, molto spesso, dai contenuti che pure esprimono.

Così, secondo Serres, occorre rovesciare la classica teoria della comunicazione ipotizzata alla fine degli anni 40 del Novecento da Shannon e Weaver, esito di una ricerca commissionata dalla Bell, potente compagnia americana della telefonia. Se per quel matematico e quell’ingegnere l’obiettivo è far passare alla meglio il segnale fra un emittente e un ricevente, una fonte e un bersaglio, grazie ad adeguate codificazioni, eventuali ridondanze e sistematiche eliminazioni d’ogni possibile fastidio nel canale di trasmissione, per Serres quel che conta è piuttosto il rumore, ciò che interferisce nella comunicazione, che la fa deviare verso altri scopi, sempre momentanei e sfuggenti.

La cosiddetta società dell’informazione non è un flusso di messaggi inviati a interlocutori in cerca di sapere ulteriore, ma una rete di spostamenti continui dove quel che conta è lo scambio, assai spesso non vicendevole, e non quel che si scambia. Secondo Serres, la cifra della società contemporanea non è la reciprocità, quell’alternarsi fra dono e controdono di cui parlano gli antropologi (Malinowski, Mauss, Lévi-Strauss…), ma l'ingerenza, il disturbo, l’interrompersi di un contatto umano e sociale che, però, riprende quasi sempre e inaspettatamente altrove. Il mondo insomma – e qui la lezione della termodinamica si percepisce tutta – va tendenzialmente per entropia, per dissipazione, salvo riprendersi per conseguente neghentropia dove meno la si aspetta. 

Ne deriva che ogni informazione si caratterizza, e per nulla paradossalmente si rafforza, in un contrasto continuo con la dis-informazione, che non è una deviazione del sistema ma il suo inveramento. Oggi che ci si è resi conto che la questione dell’informazione deviata (o invertita, o mancata) non è solo un problema di cattiva divulgazione, meno che mai di giornalismo, ma di strategie politiche globali, così come di tattiche locali, Serres ci invita fortemente ad abbandonare qualsiasi forma di ingenuità veritativa (anch’essa, spesso, tattica a suo modo), e a riconsiderare la comunicazione, in ogni senso, come fulcro del vivere – si spera – il più possibile civile.

(Compitino per i futuri corsi di comunicazione: incrociare la lettura di Michel Serres a quella di Jurij Lotman: stessi punti di partenza, stessi esiti teorici; stesso insegnamento.)

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