Oltre Eboli: Carlo Levi e Francesco Rosi

17 Marzo 2023

Cristo si è fermato a Eboli esce per Einaudi nel giugno 1945. Fino a quel momento Carlo Levi era soprattutto conosciuto come pittore ma, terminata la clandestinità, il periodo in cui scrive il libro, è totalmente assorbito dall’attività politica come direttore de «La Nazione del Popolo», poi de «L’Italia Libera», i quotidiani del Partito d’Azione. Racconterà quell’esperienza nel suo libro successivo, L’orologio (1950). Tornando al Cristo, il libro ha immediatamente un enorme successo, in Italia e all’estero, in particolare negli Usa, contribuendo al rilancio della casa editrice Einaudi, ma soprattutto a offrire a una nazione che rinasce un’idea di Sud nuova, diversa da tutte quelle correnti.

L’opera di Levi diviene il punto di partenza per la discussione che si apre sulla Questione meridionale, dopo che, per motivi diversi, il fascismo e l’idealismo crociano, ne avevano negato l’esistenza in nome della sacralità dello Stato. Dopo la Liberazione, il divario tra Sud e Nord è considerato inaccettabile dalle principali forze politiche, anche se nel referendum istituzionale del 1946 il Meridione vota a maggioranza per la monarchia. Il Sud che presenta Levi, così lontano dalle correnti della storia, fuori da ogni tensione verso la modernità – unica testimonianza: i migranti di ritorno dall’America dopo la crisi del 1929 – è immerso in un mondo magico, premoderno, che trova la sua origine e la sua fine nel borgo dove la comunità si divide, secondo la nota definizione leviana, tra «luigini» e «contadini».

Le idee di Levi non possono piacere alle principali forze politiche impegnate nello sforzo di creare una nuova società e, negli anni successivi, l’intellettuale torinese non riuscirà a incidere nel dibattito politico, divenendo piuttosto il punto di riferimento per uno studioso inquieto come Ernesto De Martino e le sue spedizioni antropologiche nel Mezzogiorno, e per i giovani uomini di cultura meridionali (come i lucani Giovanni Russo e i fratelli Albino e Leonardo Sacco) che non si ritrovano nello schematismo dei partiti marxisti.

Nello stesso 1945 nasce a Napoli «Sud. Quindicinale di letteratura ed arte». A dirigerlo è Pasquale Prunas e tra i collaboratori si contano giovani intellettuali come Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Mario Stefanile, Luigi Compagnone e Anna Maria Ortese che narrerà le velleità di quell’esperienza nel Silenzio della ragione, l’ultimo spietato capitolo del Mare non bagna Napoli (1953). Il tentativo della rivista è di riallacciarsi alle principali correnti letterarie europee dopo gli anni del fascismo, ma del Cristo di Levi non si parla. Tuttavia Rocco Scotellaro, il giovanissimo sindaco di Tricarico che Carlo Levi conosce in occasione della campagna elettorale del 1946 in Basilicata, e che diverrà il suo principale discepolo, manda a «Sud» alcune delle sue poesie. Francesco Rosi collabora al giornale assieme a molti dei suoi compagni di scuola del Liceo classico Umberto I di Napoli occupandosi di arte, ma presto lascia il gruppo, prima trasferendosi a Milano per lavorare al quotidiano del pomeriggio «Milano Sera», poi entrando nel mondo dello spettacolo attraverso il regista Ettore Giannini. Rosi ha affermato di aver letto il libro di Levi al momento della sua uscita, ma nel suo percorso di conoscenza del Mezzogiorno importanti risultano anche i mesi trascorsi in Sicilia accanto a Luchino Visconti sul set de La terra trema (1948), il film ispirato ai Malavoglia di Giovanni Verga, l’autore su cui esercitarono prima della guerra le loro speculazioni giovani intellettuali che avrebbero voluto lavorare nel cinema come Mario Alicata e Pietro Ingrao, prima di diventare funzionari del Pci. 

Una foto sul set di Salvatore Giuliano ritrae insieme Franco Rosi e Carlo Levi. La foto è scattata a Montelepre, in provincia di Palermo, ed è datata giugno 1961. I due guardano verso l’alto. Rosi nella preparazione del film ha letto Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia (1955) di Levi e lo scrittore, come registra Tullio Kezich, è ospite sul set. Nello stesso diario di lavorazione del critico triestino si parla dei futuri progetti di intonazione meridionalista del regista: vengono citati Cristo si è fermato a Eboli e Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo. Negli stessi giorni esce Ferito a morte (1961) di Raffaele La Capria, amico di sempre di Rosi, poi sovente suo sceneggiatore, ma afferma il regista: «Ho tanto curiosità di leggerlo, ma non l’ho neppure aperto; ma chi ce la fa a leggere la sera?». Così Kezich descrive la presenza di Levi in Sicilia in quei giorni: «È arrivato Carlo Levi […]. Il suo nome è ricorso tante volte nei nostri discorsi, in queste settimane, che ci fa una strana impressione trovarcelo davanti, con il panciotto da contadino e la camicia a righe e fiorellini […].

C’è in Levi un gusto infantile del travestimento, accanto a una generosa tendenza alla mimetizzazione con il sud che adora. Questo antifascista piemontese, medico e razionalista, sotto il meridiano di Roma diventa una matrice di miti. Gli intellettuali palermitani vedono in lui lo scrittore che ha fatto conoscere a tutto il mondo i problemi del Sud e gli si stringono intorno come assiderati intorno a una stufa calda, in cerca di conforto, di parole da ripetere agli amici scettici o stanchi: “Levi ha detto questo, Levi ha detto quest’altro”».

Carlo Levi è a sua volta, come si vede, un mito e il rapporto di Rosi con lui è ora quasi su un piano di parità. Kezich, che è un bravo cronista, descrive poi una tavolata in cui amici e ammiratori siciliani (Nino Sorgi, Michele Pantaleone, Franco Grasso) dell’intellettuale piemontese gli raccontano gli ultimi fatti di mafia e di come lui, attentissimo, li registri. Salvatore Giuliano esce in sala il primo marzo 1962 dopo aver aspettato a lungo il visto di censura. In una delle visioni private pare che Luchino Visconti abbia esclamato: «Finalmente ora abbiamo un film che se lo toccano andiamo in piazza con la bandiera».

A proposito del film ha scritto Mario Soldati, amico di Levi fin dagli anni Trenta – gli chiese un disegno per la copertina di America primo amore (1935) e di affrescare il padiglione Basilicata per Italia ’61, la manifestazione che celebrò il centenario dell’Unità d’Italia –: «Un modo assolutamente nuovo di fare il cinema. Deriva da La terra trema di Visconti? Sì; ma, questa volta, trattandosi di avvenimenti noti e importanti, di personaggi veramente esistiti, di fatti veramente accaduti, il metodo ha un’efficacia senza precedenti. Un cinema storico e critico. E anche lirico. Per la forza stessa delle immagini. Una vetta, che difficilmente verrà superata».

Forse Soldati ha ragione, Salvatore Giuliano resta il più bel film di Rosi, ma qui interessa sottolineare le affinità di sguardo tra il regista e l’autore del Cristo. Infatti, nello stesso 1962, quando il fenomeno mafioso ha finalmente raggiunto, anche grazie al film di Rosi, l’interesse dell’opinione pubblica nazionale, l’editore Einaudi chiede a Levi di scrivere l’introduzione a Mafia e politica, il saggio di Michele Pantaleone che per primo esplora il fenomeno mafioso nelle sue cause storiche e sociali. Levi non scrive una vera introduzione ma una sorta di racconto dal titolo La piazza di Villalba e ferma la rappresentazione criminale in un’immagine: appunto la piazza della cittadina, una capitale di mafia, attorno alla quale tutto si svolge. Levi guarda lo svolgersi degli avvenimenti dal terrazzo di casa Pantaleone. È lo stesso punto di vista che Rosi adotta quando vuol far vedere in una scena d’assieme il cadavere di Giuliano.

Nel 1963 Levi è eletto senatore nelle liste della Sinistra indipendente, un gruppo parlamentare vicino al Pci, ma ai cui componenti non è chiesta la tessera di partito. La vicinanza al Partito comunista, che ha ancora Palmiro Togliatti come segretario, delude molti degli amici di provenienza azionista di Levi, la maggior parte dei quali confluiti nel Psi (il partito a cui Rosi era più vicino) o, in parte minore, nel Pri di La Malfa. Levi non accetta però la nascita del centrosinistra (l’alleanza del Psi con la Dc) e preferisce condurre le sue battaglie meridionaliste dagli scranni dell’opposizione, coerente con quanto aveva scritto nel Cristo: «Non può essere lo Stato [...] a risolvere la questione meridionale per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato». Levi viene rieletto nelle elezioni del 1968, tuttavia il clima politico sta cambiando e la sua figura di intellettuale pubblico ora è un po’ appannata.

Dai primi anni Settanta ha problemi di salute. Si spegne il 4 gennaio 1975 all’età di settantadue anni e, per volontà della vedova Linuccia Saba, è sepolto nel cimitero di Aliano.

Nel frattempo la fama di Rosi si consolida e la sua figura è sempre più identificata col cinema civile. Gli anni Settanta sono quelli in cui la società italiana finalmente si trasforma; vengono conquistati diritti con battaglie i cui simboli sono i referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1979). Anche la Rai è interessata a una riforma nel 1975 e il secondo canale ha finalmente un’impronta più laica. A dirigerlo è chiamato Massimo Fichera, intellettuale siciliano che si era formato con Adriano Olivetti, poi principale artefice della Fondazione Adriano Olivetti (1962), in seguito indipendente vicino al Partito Socialista. È lui a proporre a Rosi, attorno al 1976, di riprendere in mano il progetto di portare sullo schermo Cristo si è fermato a Eboli.

Rosi gira il film nella primavera del 1978. Sono i giorni del sequestro Moro e tutta la troupe attende con ansia le notizie dai transistor. La produzione ha sede a Matera e raggiunge ogni giorno Craco o Guardia Perticara, i principali luoghi scelti per le riprese, con lunghi trasferimenti automobilistici. Rosi, secondo un suo metodo cominciato con Salvatore Giuliano, trascorre vari mesi in Basilicata prima dell’inizio delle riprese. Deve scegliere gli attori non professionisti da affiancare a Gian Maria Volonté (Levi), Lea Massari (la sorella), Paolo Bonacelli (Don Luigi), Alain Cuny (il barone Rotundo), François Simon (Don Trajella) e vari altri. Il regista naturalmente si prende delle libertà rispetto al libro ma cerca di rispettarne l’intonazione e gli ambienti che si ispirano alla pittura di Levi, abbondantemente citata in varie parti del film.

La difficoltà maggiore, a mio avviso, è rappresentare Levi che nel libro è una voce narrante e qui ha tutto il peso di un attore del calibro di Gian Maria Volonté. Dirà Rosi più tardi, forse per prevenire le critiche che puntuali arrivarono, che Linuccia Saba approvò il film. Il Cristo esce in sala il 23 febbraio 1979 ed è presentato fuori concorso al Festival di Cannes. Il film, tra David di Donatello e Nastri d’Argento, ottiene qualche premio, ma non è considerato tra i migliori di Rosi: quel che viene imputato al regista è di aver privilegiato la dimensione sociale e politica, attualizzando il dibattito sul Mezzogiorno, a discapito della componente magica e antropologica, la vera novità del libro. Questa accusa è rincarata da Leonardo Sacco che, in uno speciale di «Basilicata» dedicato al film, rimprovera Rosi di una lettura statica e regressiva della condizione contadina richiamando le parole di Levi: «Senza una rivoluzione contadina non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa».

Rosi si è avvicinato al testo da intellettuale meridionale, con alle spalle la lettura di Salvemini e della tradizione socialista, o come ha dichiarato: «La mia è una lettura del libro di uno del Sud, rispetto a quella che può averne dato uno del Nord come era Levi». Ribadisce insomma di aver fatto un’operazione politica attraverso il film. La cosa è ancora più rilevante nella versione televisiva che dura 222’ invece che i 150’ del film per le sale e va in onda in quattro puntate a partire dal 17 dicembre 1980, a poche settimane dal terremoto che aveva sconvolto Irpinia e Basilicata. La discussione finale in cui Volonté/ Levi apre gli occhi ai compagni torinesi dopo «un anno di vita sotterranea» richiama la necessità di autonomia dallo Stato centrale e nella scena precedente, parlando con la sorella, cita i nomi di Gramsci, Gobetti, Salvemini ed Ernesto Rossi, uniti dal fatto di essere «contadini», di lottare cioè dalla parte degli ultimi. Uno storico dell’economia, Emanuele Felice, ha scritto che i redditi di Nord e Sud non sono mai stati così vicini come nel 1980, l’anno del terremoto. Dopo di allora i destini delle due parti del Paese hanno ripreso a divaricarsi.

Questo testo è il saggio introduttivo di Oltre Eboli (Cinema Sud), a cura di Orio Caldiron, Antongiulio Mancino e Paolo Speranza, un volume che, attraverso saggi, testimonianze e documenti, approfondisce il rapporto tra il Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi e il film omonimo che ne trasse Francesco Rosi nel 1979. 

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