Omar Calabrese. L’arte del trompe-l’œil

2 Aprile 2012

Uno squarcio in trompe-l’œil disegnato sull’imponente muro che separa Gaza da Israele, posto un po’ rialzato da terra, apre su un cielo incredibilmente azzurro, un mare blu e verdi palme. Luoghi paradisiaci: niente guerra né campi profughi al di là.

Davanti a questa provocazione realizzata nel 2005 dallo street artist londinese che si fa chiamare Banksy, e della cui vita e identità reale si sa poco o nulla, quello che viene voglia di fare è di mettersi sulle punte, come i bambini: per vedere se sia possibile guardare meglio, affacciarsi di più, saltare al di là. La stessa sensazione che deve avere avuto il ragazzino del dipinto di Pere Borrell del Caso che varca il confine della tela, appoggia le mani e il piede sulla cornice, si guarda in giro con circospezione e si prepara a saltare fuori, per fuggire. Fuggire come noi dal grigio di cemento e come i bambini da una realtà tutta già data.

 

 

Per riflettere sull’effetto dirompente di questi squarci di colore non basta mettere a tema il carattere provocatorio del messaggio, né la natura ai margini del graffitismo, ma è necessario considerare il rapporto finzione-realtà che sia l’anonimato d’artista che la tecnica trompe-l’œil chiamano in causa. Farlo è essenziale per capire perché oggi assistiamo a un ritorno del gusto trompe-l’œil e perché tale ritorno, seppur si giochi in forme nuove ed esplori direzioni che poco sembrano aver in comune con quelle dell’arte del lusso e della meraviglia, si ponga invece in continuità con la tradizione. Farlo, inoltre, aiuta a comprendere in che senso sia riduttivo, a dispetto del grande formato, della quantità e qualità delle immagini, della raffinatezza al tatto della carta, definire libro soltanto d’arte il ricco volume L’arte del trompe-l’œil (JakaBook, 2011): quello che sembra suggerirci Omar Calabrese aprendo la propria riflessione con la decostruzione dell’idea di inganno, è che per parlare di questa pratica millenaria non sia sufficiente occuparsi del dipinto rimasto sulla parete dopo che ne si sia scoperta la natura illusoria, né delle tecniche che è necessario padroneggiare per simulare efficacemente la realtà.

L’arte dell’ingannonon intende raggirarci: non lo vogliono fare le architetture non-finite né le provocazioni degli iperrealisti, come non volevano i quodlibet di Gijsbrechts, le cornici di Magritte o i mosaici pavimentali con cibi avanzati dell’antichità classica.

 

 

Se è possibile stringere in un unico nodo le differenti tipologie di trompe-l’œil analizzate nei dieci capitoli del volume, che ne traccia epoca per epoca forme, tecniche e stili, è perché cuore costante di quest’arte in equilibrio instabile tra percezione e rappresentazione sembra essere, al pari della retorica, il movere, delectare edocere più che il persuadere e il sedurre della cattiva eloquenza.

Superati i confini dell’arte, a essere chiamati in causa, insieme a aspetti centrali di psicologia della percezione, sono nozioni della tradizione filosofica, come quelle di cornice e gioco, inteso come prassi del fare finta.

Il fruitore, partecipe se non addirittura complice, come nel caso degli sfondati di Andrea Pozzo in Sant’Ignazio a Roma, accetta la prescrizione a immaginare, per dirla con le parole di Walton, sovrapponendo al mondo reale, senza negarlo, uno spazio autonomo.

 

 

I trompe-l’œil ci invitano a una prassi ludica: entriamo nel mondo che inaugurano, ci separiamo dal quotidiano pur continuando a sapere che quella che abbiamo di fronte non è una mela che potremo mangiare, come il bambino sa che non è un destriero la scopa che cavalca.

L’arte ci consente di esercitare la nostra libertà, abbandonare i deliri di consapevolezza e i luoghi comuni del razionalismo, non per pestare la testa contro un muro cercando di raggiungere il centro dell’abside di Santa Maria presso San Satiro, ma per essere già da sempre nella rappresentazione, così da poter immaginare e intessere finzioni il cui compito sia rendere più abitabile lo spazio circostante, e darci sollievo.

Giocare con la fascinazione dell’apparenza e dello smascheramento, con l’ambiguità tra spazio dipinto e spazio di risonanza dell’opera, con la possibilità di dare a vedere nascondendo e di nascondere quel che permette la visibilità, è confondere i piani e creare, al pari del dio, una nuova natura: insistere su questi aspetti significa porsi sulla strada per comprendere le ragioni dell’attualità del trompe-l’œil.

L’ammirazione che suscita il virtuosismo dell’artista e l’efficacia di una simulazione ben costruita sono responsabili dell’effetto di meraviglia, come sottolinea Calabrese analizzando il ricomparire in più contesti del mito della perfetta illusione, una meraviglia che appartiene sì alle categorie estetiche con cui siamo soliti guardare all’arte, ma rimanda con più cogenza alla forza inaugurale all’origine del filosofare.

Da principio si resta incantati di fronte al semplice, come sottolinea Aristotele nella Metafisica, ma oggi siamo saturi di immagini, oltre che di realtà: la loro potenza sarà dunque tanto più efficace quanto più sapranno disorientarci, alterare la percezione di quello che ci sta attorno, aprendo finestre, e squarci, per farci guardare meglio e pensare altrimenti.

 

 

Tra realtà virtuale, identità fittizie e nickname, mondi verosimili e simulazioni, che la realtà sia concetto ambiguo e fragile è qualcosa cui ci siamo abituati, come ci siamo assuefatti agli stimoli visivi: il trompe-l’œil, mettendo a tema la soglia e la coscienza del passaggio, percorre il confine della magia della sostituzione, senza cadere nella follia né precipitare nell’indifferenza.

Le palme sul muro tra Palestina e Israele, o la cuccia di ceramica di Bertozzi e Casoni che imita il cartone di una confezione Brillo di Warhol (2003), vogliono mostrarci proprio lì, nel cuore della guerra, tra le merci e l’arte da consumare, la volontà di restituire vigore al potere immaginativo che il trompe-l’œil, così vicino al fare finta infantile, rivendica con forza, e di cui sempre abbiamo bisogno.

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