Speciale
Antonio Biasiucci in controluce
In Biasiucci, casertano classe 1961, si sente tutta la profondità del Meridione e della civiltà contadina reinterpretati con il doppio, anzi triplo filtro dell’archetipo, dell’autobiografia e della trasfigurazione poetica. Gli elementi primordiali, le tematiche originarie e fondamentali non hanno valore profondo senza la messa in gioco di sé stessi. Senza l’evidenza della dichiarazione, bensì con la motivazione radicata nell’operare artistico. Il rito del sacrificio dell’animale rivela dolore e vapore, la cieca materia diventa occhio, così come lo sguardo animale diventa scavo nella visione, il pane e il latte si trasfigurano in corpo e spazio cosmico.
E tutto è al tempo stesso metafora dell’immagine fotografica, che a sua volta appare allora come vapore ma anche come magma in continua ebollizione, come corpo dormiente o forse ferito o morto, come calco che la luce rende al tempo stesso concavo e convesso, come ammasso sospeso nello spazio.
La magia, bisogna dirlo perché qui non è né un vezzo né una difesa caparbia della tecnica, la realizza il bianco e nero, profondi colori dell’eterna lotta tra luce e ombra, ma che vuol dire anche i grigi, infiniti e misteriosi.
L’autobiografia è personale, non è raccontata né illustrata, è l’interrogazione della propria motivazione: perché faccio il fotografo e questo tipo di immagini? La risposta di Biasiucci è netta, come una scoperta al fondo di sé stesso: per pagare un pegno per una grazia ricevuta. L’immagine fotografica è un ex voto, una riparazione e insieme un “ringraziamento per il dono della fotografia”.

EG: Trovo veramente poetico intitolare Vapori un lavoro su una serie così violenta come è quella dell’uccisione del maiale. Ecco, come ti è venuta l’idea del vapore, perché hai sottolineato questo aspetto?
AB: In genere nel mio lavoro io tento in qualche modo di compensare una perdita e, nel tentativo di darle un senso, cerco una chiave di lettura possibile. In questa circostanza notai che, nel momento in cui veniva versata sul maiale l’acqua calda che serve per pulirlo, in controluce apparivano i vapori che si sovrapponevano alla scena. Tutto ciò nacque da un errore, sbagliai l’esposizione e, nella sovraesposizione, anziché ritrovarmi la silhouette del maiale in controluce, notai questi strani vapori che coprivano tutta la scena. Un inaspettato che rendeva il lavoro immaginifico. Ho inseguito per circa tre anni, sempre nel mese di gennaio quando appunto viene ammazzato il maiale, quella condizione ideale di luce.
Dietro questo lavoro c’è sicuramente una connotazione fortemente biografica. La nostra non era una famiglia di contadini, mio padre faceva il fotografo di cerimonie. Si ammalò prestissimo, già a quarant’anni ha avuto il primo ictus e quindi dovette interrompere la sua attività professionale. Mi invogliò a fare fotografia, non voleva perdere tutti i clienti che aveva, nonostante volesse che io comunque continuassi gli studi. Purtroppo non amavo affatto la fotografia, e in particolare la camera oscura, da cui scappavo appena lui si distraeva. è il luogo dove ho trascorso poi il resto della mia vita, divenne il mio pensatoio per eccellenza. Ebbene, sono cresciuto in questo contesto: come dire, io non ho dovuto iniziare a fare il bel ritratto, il bel paesaggio ecc., poiché quel tipo di fotografia la faceva già mio padre egregiamente.
Il lavoro sul maiale, cominciato a 19 anni, mi apparve allora come un azzardo; era tutto realizzato in controluce, cosa che mio padre mi aveva sempre detto di non fare. Insomma, era evidente che rappresentasse una forma di rottura forte nei confronti degli insegnamenti di mio padre ma anche verso un certo tipo di fotografia ben realizzata, piacente o professionalmente utile, alla cui visione ero abituato. In me comunque persisteva un problema enorme: non riuscivo a tollerare quella scena atroce dell’uccisione del maiale. Puntualmente ogni anno da ragazzo cercavo di non essere presente ma in quei luoghi, in quel contesto, quel rito è un processo di iniziazione, ci devi stare.
La serie dell’uccisione del maiale è uno dei miei primi lavori giovanili ma anche uno dei miei lavori preferiti. In quella sequenza mi sostituisco al maiale, l’animale diventa terra, paesaggio. è il corpo sacrificato e mangiato. Non è morto invano. Questo modo di porsi nei confronti dei soggetti che fotografo si ritrova in tutti i miei lavori, anche recentissimi.
Sono oggi consapevole che se non mi fossi spostato a Napoli non avrei mai potuto guardare meglio la realtà di provincia che mi accingevo a lasciare in quegli anni. Da questo contrasto violento nasce la mia fotografia. Il bianco e il nero, il gioco di luci e ombre rappresentano la mia quotidianità. La vita e la morte, le origini e la catastrofe sono la sostanza dei miei luoghi, le mie ossessioni.
Ritorno alla tua domanda iniziale: il motivo per cui scelsi un titolo così leggero come Vapori per un rito così cruento probabilmente è legato a un tentativo di restituire a questo animale una fine quanto più decorosa possibile, come se sparisse, si innalzasse... qualcosa che avesse a che fare con il misticismo.
EG: Come se evaporasse, sì. Trovo molto bello che si traduca anche in un’idea dell’immagine fotografica come un vapore, come qualcosa che emana dalla realtà e dalla superficie del supporto, come un’emanazione. E poi è luce: il vapore rende visibile la luce.

EG: Benissimo, passiamo alla seconda immagine, che peraltro sembra quasi l’opposto, almeno a livello visivo, con queste macchie nere così dense. È sempre l’animale il soggetto e in questo caso c’è anche il suo sguardo. Lo sguardo dell’animale è un argomento così affascinante, che hanno trattato in molti. Non so se conosci il testo di John Berger...
AB: Conosco Berger ma non quel testo specifico. Accade che mi trasferisco a Napoli per gli studi universitari in un periodo problematico, attraverso una crisi di identità fortissima. Napoli così voluta, così sognata, in realtà non la comprendo, non ne capisco i meccanismi e addirittura comincio a somatizzare ogni cosa. A un certo punto scopro che fare fotografia mi fa stare meglio, mi permette di resettare la mia esistenza e cominciare a riguardare tutto ciò che fino ad allora avevo rinnegato: i riti contadini, gli ambienti, tutto ciò che apparteneva a quel mondo. Comincio a scrutare quella realtà con la macchina fotografica e con un occhio diverso, per cui avvio un lavoro di ricostruzione della mia identità. Capisco che la fotografia per me è un dono, nel senso che questo strumento, anch’esso rinnegato perché non lo amavo, fa in modo che io possa relazionarmi con il mondo.
Successivamente un amico mi porta a teatro a vedere uno spettacolo di Antonio Neiwiller, che era un grande regista di teatro d’avanguardia, il più radicale della scena teatrale dell’epoca. Nonostante la mia completa ignoranza riguardo il teatro, e in particolare quel tipo di teatro, comprendo immediatamente che quel genere di spettacolo così scarno, senza una sceneggiatura delineata, così essenziale, mi appartiene fortemente. Mi lasciava spazio per poterlo interpretare in relazione alla mia esperienza di vita. Me ne accorsi anche quando, all’uscita del teatro, chiesi agli altri un parere e sembrava che ognuno di loro avesse visto uno spettacolo diverso. Ebbi la possibilità di conoscere Antonio Neiwiller. Ci fu subito tra noi una speciale sintonia ed ebbi in seguito la possibilità di seguire i suoi laboratori teatrali.
Provo a raccontarti come nasceva il suo teatro. Neiwiller sceglieva degli attori, spesso non professionisti, con i quali avviava un vero e proprio laboratorio che per lui era “lo stimolo a solleticare corde interne del pensiero e dell’emozione, affinché diventino delle epifanie pure e scarnificate”. Antonio sottoponeva dei testi agli attori, come per esempio una poesia di Majakovskij, invitandoli a interpretarla con un’azione teatrale. Questa azione veniva ripetuta per molto tempo, anche mesi. I due mondi, quello dell’attore e quello del poeta, si fondevano, l’azione col tempo diventava sempre più scarna ed essenziale. Il risultato era la nascita di un altro sguardo, l’insieme di queste azioni formava lo spettacolo.
Ho applicato per la prima volta questo metodo di lavoro alla serie delle vacche. Il mio teatro era una stalla vicino casa, un luogo circoscritto, in cui c’erano cinque vacche, un animale che conoscevo bene. Ripetutamente mi recavo dentro quel luogo. All’inizio le mie foto delle vacche erano retoriche. Era il soggetto che predominava, esse si autofotografavano. Mi accorsi che il mio ritornare accentuava il dialogo tra me e il soggetto scelto. Da quelle ripetute azioni fotografiche, che mettevano sempre in discussione quelle realizzate precedentemente, nascevano nuove foto. Mi accorsi del manifestarsi nelle immagini di una sorta di “inaspettato”, ciò che non immaginavo di realizzare in quel luogo diventava a me visibile, creando una immediata e istintiva appartenenza.
Questo metodo, che poi ho applicato costantemente, libera letteralmente l’immagine. A un certo punto del confronto all’interno del “laboratorio” raggiungo un risultato in cui l’immagine stessa va via paradossalmente anche da me, la delego agli altri che riescono a interpretarla rispetto alla propria esperienza di vita.

EG: Il terzo grande tema è il vulcano. Magma è un altro titolo molto bello, termine giusto perché è la materia l’argomento.
AB: Sì, una esperienza molto forte dove capisco che non tutto è fotografabile! Lavorando per dieci anni sui vulcani attivi italiani, assistendo a tante eruzioni, sia dell’Etna che di Stromboli, mi sono accorto che ogni volta che fotografavo l’eruzione restavo sempre incantato e le fotografie che facevo erano poca cosa rispetto a quello che avevo visto. Ho capito ancora di più che quando qualcosa ti meraviglia non devi fotografare, devi semplicemente vivere quell’emozione che sono convinto che rimane e si ritroverà poi in un altro “laboratorio” in una forma diversa.
Magma divenne nel corso del tempo un’operazione sui piccoli mutamenti della materia, questo era lo sguardo che ritenni giusto avere nei confronti di un lavoro così complesso. Che è stato per me fondamentale. Quando ero giovane mi chiamò Giuseppe Luongo, allora illuminato direttore dell’Osservatorio vesuviano. Luongo cercava un giovane fotografo che documentasse i vulcani dal punto di vista scientifico. Io non rispettai perfettamente le regole scientifiche richieste, privilegiando una fotografia più emozionale e il direttore sospese il mio rapporto di collaborazione. Dopo due mesi mi richiamò dandomi la possibilità di interpretare il paesaggio vulcanico. Il tutto è durato dieci anni e questa vicinanza ha cambiato la mia esistenza. Avere a che fare per così tanto tempo con gli elementi primari ti cambia la vita. Tutte le cose viste da lì, il contatto con la lava, con le fumarole, la frequentazione con i geofisici, i geochimici e i vulcanologi con cui lavoravo, questa presenza della scienza ha condizionato molto dal punto di vista concettuale il mio lavoro. Il “vulcano” divenne il luogo per eccellenza dove io riuscivo a distinguere il fondamentale dall’effimero.
Nel libro Magma non seguo una narrazione lineare (quale racconto sarebbe attribuibile al vulcano?), cambio di volta in volta il punto di vista (dal basso, dall’alto: ma qual è il punto di vista per osservare un vulcano?), accentuo un senso di smarrimento evidenziato dall’assoluta assenza di esseri viventi e ipotetici riferimenti che permettano di capirne la scala (cosa è vicino, cosa è lontano, quali dimensioni hanno i luoghi?). Il processo vulcanico è inafferrabile, sfugge proprio quando tutto sembra chiaro, quindi nel libro considerai una sequenza fatta di dissonanze, di assonanze e altro ancora, come se non avessi deciso fortemente un punto di vista.
Questa terza immagine che ho scelto per provare a capire quali potessero essere i capisaldi fotografici della mia ricerca è stata realizzata alla solfatara di Pozzuoli. Essa è emblematica del mio lavoro, si presenta come un occhio, quello della Natura non indifferente e riproponendo, nello stesso tempo, il simbolo dell’infinito, diviene una potente metafora del tempo, della ricerca.
EG: Io continuo a pensare anche all’identificazione dei tuoi soggetti con il tema dell’immagine fotografica, cioè anche l’immagine è un magma, anche la fotografia lo è, la metafora vale anche a questo livello ed è veramente molto suggestiva. Inoltre richiama veramente archetipi, anche filosofici. Ma passiamo alla quarta immagine.

AB: A un certo punto maturò in me la consapevolezza di quale fosse il progetto al quale dedicare una vita intera: cominciai a considerare quegli archetipi che riguardano la storia degli uomini spogliandoli dei contesti antropologici e culturali, che spesso hanno a che fare finanche con la mia persona. Volevo provare a riscrivere la storia degli esseri viventi analizzando i soggetti essenziali a questo scopo, consapevole che non mi sarebbe bastata una vita per terminare un progetto di tale portata; una sorta di utopia.
Mi resi conto che la scelta del soggetto diventava determinante: un animale come la vacca doveva necessariamente essere una presenza emblematica nella storia degli uomini (produce un alimento primario come il latte, ha influenzato religioni, economie ecc.); e così i vulcani custodiscono il mistero della creazione; il pane, il latte sono i cibi per eccellenza che diventano cosmo; gli ex voto il teatro della vita; le foto sul maiale un lavoro sul rito e il mito; quello sulle lavagne una ricerca sulla trasmissione del sapere, ecc.
In questo mio faticoso progetto Res è il mio lavoro sulla catastrofe ma è anche il tentativo, dopo l’esperienza linguistica del lavoro sulle vacche, di non rischiare di creare una fotografia manieristica che nel mio caso poteva avvalersi solo della presenza del nero per essere immaginifica. Comincio a fotografare il soggetto nella sua forma più realistica senza nasconderlo, come avevo già fatto, per gran parte nel nero, con l’auspicio che l’oggetto scelto perda tutti quei connotati che solitamente gli attribuiamo, diventando altro pur restando quello che a noi tutti appare. Difficilissimo.
Ma in quel periodo maturai la forte convinzione che la fotografia è prima di tutto un pensiero. Addirittura cominciai a pensare che si può anche non essere in un determinato luogo per poter realizzare una ricerca da quel luogo ispirata. Questa consapevolezza mi ha aiutato a capire che la fotografia è uno strumento senza limiti.
Ritornando alla mia quarta fotografia, sicuramente in Res la guerra in Kosovo è stata la fonte ispiratrice di questo percorso visionario e l’utilizzo della metafora in questo lavoro è stato determinante. Per cui accade che l’Italsider di Bagnoli, area siderurgica dismessa, rappresenti lo smantellamento del mondo, ne raccolga i resti opachi, mostri relitti di città abbandonate; le maschere di cera del Museo di anatomia diventano volti segnati dall’enorme tragedia legata alla guerra; i calchi di Pompei, in questa circostanza, assumono un significato diverso, di assoluto gelo; i Cristi divelti fotografati nei depositi delle chiese alludono al martirio; così per tutto il percorso seguo una mia sceneggiatura, assolutamente visionaria, in cui organico e industriale diventano metamorfosi di un mondo in continua trasformazione. Il passato, il presente e il futuro sono rimescolati senza soluzione di continuità. Ogni singolo scatto incarna una metafora e tutti insieme costruiscono il romanzo di un mondo sospeso.

EG: Passiamo agli ex voto, altro argomento molto suggestivo. Io qui ho pensato che tu li fai diventare come dei calchi. Il tuo lavoro con la luce rovescia il convesso nel concavo.
AB: Sì, perfettamente, è proprio così. Come avrai notato scelgo i soggetti da fotografare in relazione al significato che quel soggetto ha avuto nella mia vita con l’auspicio che, attraverso un metodo di lavoro che punta alla scarnificazione, esso assuma una valenza universale. Nella serie le immagini ritraggono varie tipologie di ex voto e sono state scattate principalmente nella cappella del medico Giuseppe Moscati, nella Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli. L’espressione significa letteralmente “a seguito di un voto” e racchiude tutti quei doni di vario genere che vengono offerti a un santo per grazia ricevuta, per una promessa fatta o per aver avuto esaudita una preghiera. La malattia è stata sempre presente nella mia famiglia. Mio padre ha avuto sette ictus, andava in ospedale completamente paralizzato per poi rientrare a casa dopo mesi con le proprie gambe tra lo stupore di tutti, anche dei medici. La grazia ricevuta, il pericolo scampato, la guarigione e l’offerta di un voto era una modalità ricorrente nella mia famiglia ma, a prescindere da questo, la quinta foto presente in questa intervista rappresenta il mio ringraziamento alla fotografia. La pratica esistenziale del fotografare, il guardare il mondo con occhi diversi, il crearsi dei mondi paralleli, la possibilità di andare in profondità nel confronto con i soggetti scelti e la consapevolezza di possedere uno strumento che mira dritto alla conoscenza mi hanno permesso di vivere pienamente la mia vita facendo di me sicuramente un uomo migliore.
Quando poi mi sono ritrovato con tutte le stampe di questi calchi che ho fotografato, come sempre ho costruito una sceneggiatura tutta mia che gli altri non coglieranno mai ma che possono annusare. In essa ho ripercorso tutta la mia vita fino al 2006 ed è diventata una sorta di teatro della vita, con personaggi di un teatro dell’assurdo, diciamo. Per cui ci sono i miei tre figli, la separazione da mia moglie, la perdita di mia madre, la malattia di papà, è un vero e proprio racconto personale, ricco di presenze enigmatiche e misteriose.

EG: Bene, pane e latte per concludere, bellissima conclusione. Anche questo è un racconto?
AB: Sì, anche questo è un racconto molto autobiografico. Perdo mia madre improvvisamente, stava benissimo, aveva solo 46 anni, ma a causa di un incidente dopo un po' ci lascia. Io e mia sorella Maria restiamo con il papà da accudire per tutta la vita. Nella nostra famiglia mamma era il nostro riferimento principale, da allora è cambiata inevitabilmente la nostra vita.
Sono convinto che gli artisti, man mano, nel corso della loro vita, diventano sempre più consapevoli del motivo per cui in una maniera ossessiva hanno guardato, raccontato, talune cose anziché delle altre. Ebbene, mi sono accorto che nel corso degli anni i soggetti scelti e il senso che ho attribuito a ogni ricerca aveva a che fare con il mondo di mia madre, con il suo vissuto. Tutto questo in una maniera inconscia. Le vacche le appartenevano, era figlia di allevatori, il pane lo ha fatto fin quando è stata in vita come anche ciò che con il latte si poteva preparare. Mi sono accorto che non ho fatto altro che dare un senso alla sua fine affinché non fosse morta invano.
Ho dovuto ereditare un atteggiamento che ho riversato in tutte le mie ricerche: quello di dare nuova linfa a tutto ciò che stava per sparire o era sparito. Quindi gli alberi in Ghenos, attraverso le figure antropomorfe che fuoriescono dal taglio dei boscaioli, ripopolano il bosco permettendo la sua rinascita, in Crani il cranio perde la sua forma ieratica e diventa nel suo consumarsi un mollusco marino, quindi un’immagine che allude a una forma primaria dell’esistenza, in Vapori il corpo del maiale viene sacrificato e mangiato, diventa paesaggio, terra. Insomma, sempre qualcosa di autobiografico nascosto tra le righe di uno strumento perfettamente in grado di produrre immagini in sintonia con le proprie esperienze di vita e il proprio mondo interiore.
In copertina, Corpo latteo, 2017.
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