Ronconi: le voci di fuori

10 Aprile 2014

Una trasposizione, non una sceneggiatura. Così Luca Ronconi ha definito l’operazione compiuta sul romanzo Pornografia di Witold Gombrowicz, una delle ultime opere “sudamericane” dello scrittore polacco (che dal 1939 al 1963 visse in Argentina). Al centro della vicenda, ambientata durante l’occupazione nazista della Polonia, il perverso progetto di due uomini in età matura di far sì che una ragazza e un ragazzo, belli, apparentemente spensierati, sessualmente non inibiti, si gettino uno nelle braccia dell’altra. Il guaio è che fra i due giovinetti, amici d’infanzia, non c’è alcuna attrazione reciproca. Di qui un intrigo che coinvolge svariati altri personaggi, tra i quali il fidanzato della ragazza, una devota inferma, un partigiano spaurito. La seduzione indiretta prenderà la tortuosa via d’un proposito di omicidio, che però non si svolgerà secondo i piani; le vittime saranno più numerose del previsto.

Voci narranti


Un romanzo arduo, cerebrale, e per nulla pornografico, nel senso letterale della parola. Dietro l’intento prevaricatorio di due signori attempati che giocano con i sentimenti e i desideri di due adolescenti s’intreccia un groviglio di elementi disparati: tensione fra sensi e intelletto, voluttà di dominio e noia, squarci metafisici e sottintesi omosessuali, il tutto nel regime di un contrasto fra le generazioni. Metterlo in scena era una vera sfida – di quelle che Ronconi predilige. I commenti sullo spettacolo, presentato a Spoleto nel 2013 e andato in scena di recente al Piccolo Teatro di Milano, sono stati mediamente positivi, e ragioni non ne mancano. In particolare, la prestazione dei due principali interpreti – Riccardo Bini e Paolo Pierobon – è di gran classe. E in verità dietro ogni aspetto della rappresentazione (scene, tempi, movimenti, gesti, intonazioni) si ravvisano cura e studio esemplari.

 

 

Ciò che a me pare discutibile è proprio la strategia di fondo, l’idea ispiratrice della regia. Il romanzo di Gombrowicz non è trasformato in dialogo, bensì ripreso come testo narrativo (ovviamente con sforbiciate e cuciture). Gli attori raccontano, molto più di quanto non recitino; o meglio, recitano raccontando e raccontano recitando. Raccontano di quanto fanno e dicono essi stessi (cioè i personaggi che incarnano) ovvero altre figure della storia, in uno scambio fluido e vorticoso di pronomi di prima e di terza persona; a complicare le cose, a tratti interviene anche, nella prima parte, una voce fuori campo, che funge da io narrante esterno. Il risultato è un gioco virtuosistico di scomposizione delle soggettività, che pone in risalto la filigrana insieme autoriflessiva e alienante del testo: nel voyeurismo dei protagonisti (uno dei quali non a caso si chiama Witold, come l’autore) convergono infatti l’aspirazione ad agire (sedurre) per interposta persona e la velleità di dirigere (sottomettere) la vita altrui.

 

 

Intendiamoci. Le commistioni tra narrazione e teatro hanno una lunga storia, e Ronconi, in particolare, si è cimentato a più riprese su questo terreno, dove si contano alcune delle sue realizzazioni più celebrate. Però non sempre l’operazione riesce; e in questo caso è difficile non avvertire un eccesso di sofisticazione e di cerebralismo. L’aggio del racconto sull’azione preclude ogni abbandono al flusso degli eventi inscenati, senza peraltro consentire il tipo di partecipazione proprio della lettura. Tant’è che lo spettatore ingenuo, come l’autore di queste righe, è tentato di sbottare, tagliando corto: il romanzo è romanzo, il teatro è teatro. Un’obiezione grossolana, me ne rendo conto. Anziché pigiare il pedale sulla formula del teatro nel teatro, Ronconi ha inteso (presumo) rielaborare i risvolti metanarrativi del racconto in forma di sovrapposizione tra due forme espressive, narrazione e dramma. Ma l’esito, per chi assiste, è davvero impegnativo. E non è un caso se la parte più faticosa della rappresentazione – al netto di una certa qual prolissità – è la seconda, dove gli avvenimenti precipitano e la dimensione drammatica dovrebbe prevalere. Insomma: meglio il teatro-teatro. Meglio la Celestina.

 



La voce dei microfoni


La Celestina di Ronconi, in scena al Piccolo Teatro Strehler fino allo scorso 1° marzo, è già stata recensita su queste pagine da Maddalena Giovannelli. Al suo equilibrato, competente commento rinvio per una valutazione complessiva dello spettacolo; mi limito a sottoscrivere l’elogio al décor di Marco Rossi, mirabile per funzionalità scenica e pregnanza simbolica. Gli interpreti si muovono su una superficie obliqua, che si presenta come una sghemba distesa di vecchie porte, differenti per forme e dimensioni. Di qui un prevalere dell’asse verticale (alto/ basso) rispetto alle coordinate orizzontali, conforme all’oscura visceralità del dramma: non è lecito attendersi incontri nuovi, il mondo dove ci si muove è logoro e circoscritto, perfino sottilmente claustrofobico (la compatta parete sullo sfondo potrebbe essere quella d’un pozzo); il decorso degli eventi dipende dall’eruzione di impulsi incontrollati ai quali nessuno sembra sfuggire. E la tragica fine risulta più che mai ineluttabile: la giovane Melibea non si potrebbe uccidere se non buttandosi giù da una torre, cioè adeguandosi a una bassura dove ogni sentimento si annichila.

 

Ciò premesso – e ribadito che l’intelligenza teatrale di Ronconi rimane fuori discussione – mi pare ci sia anche qui un aspetto censurabile. Mi riferisco all’uso dei microfoni. Si dirà: nemmeno questa è l’esclusiva di uno spettacolo, né una particolarità del Piccolo di Ronconi. Capita sempre più spesso, e ovunque, di vedere in scena attori equipaggiati con microfoni ad archetto, aggeggi minuscoli, discreti, color carne, quasi invisibili. Ma il problema non è dissimulare alla vista il dispositivo di amplificazione, cosa tutto sommato banale. Il problema è l’effetto acustico. La voce, amplificata, non arriva più al pubblico nello stesso modo, perché la sorgente del suono muta. Quello che accade, in buona sostanza, è che la voce viene scissa dal corpo dell’attore. E poiché lo spettatore è seduto in poltrona, fermo, può avere la sensazione – inquietante, oltre che sgradevole – di assistere a una proiezione in 3D (sia pure di ultimissima generazione).

 

 

Certo, in una sala delle dimensioni del Teatro Strehler l’acustica è un affare serio. Né si può dire che sia stato sottovalutato nella produzione della Celestina: il programma di sala comprende una analitica e istruttiva descrizione del sistema di diffusione del suono, a firma dal sound designer Hubert Westkemper.
Ora non mi proverò a riassumere le caratteristiche della WFS (Wavefield Synthesis): si tratta di una tecnologia quanto mai raffinata, che mira a ridurre gli effetti del distacco tra voce e corpo con un approccio intelligente e innovativo. Il problema è quanto della nostra idea di teatro, oggi, dipende dalla tutela di un legame diretto tra voce e corpo. Oggi, cioè in un’epoca di inaudita diffusione della comunicazione vocale, resa possibile dai prodigi dell’ICT e (di conseguenza) da una capillare proliferazione della microfonia.

 

Lo dirò in maniera più brutale: i microfoni in scena azzerano una delle prerogative più preziose e irrinunciabili della teatralità. Non importa che i progressi nella tecnica di riproduzione dei suoni consentano di conservare la grana delle voci e le armoniche dei timbri con una precisione inimmaginabile fino a poco tempo fa. La voce viva, la voce vera, è quella che promana dalle labbra dell’attore e giunge direttamente alle orecchie dello spettatore, solcando l’aria. Le voci filtrate, distribuite e amplificate dal più meraviglioso degli impianti fonici diventano inevitabilmente un’altra cosa. Diventano “audio”. E allora, audio per audio, tanto vale un maxischermo. Non dovrebbe essere uno degli obiettivi del teatro valorizzare la propria differenza rispetto alle mirabilie delle soluzioni multimediali offerte da home cinema, home theatre e via dicendo?

 

So di aver assistito a molte rappresentazioni che si avvalevano di amplificatori. Alcune con discrezione, altre no. Ma non credo sia un caso se per me l’impressione di fastidio è esplosa proprio con la Celestina, cioè con uno spettacolo giocato in misura larghissima sulla corporeità degli attori. Plateale contraddizione: una messinscena che da un lato esalta la dimensione fisica della recitazione (gesti, movenze, posture), dall’altro scorpora le voci, le smaterializza, le rende estranee.

Corpo voce

 

Nella fattispecie è poi forse intervenuto per me anche un altro, indiretto riferimento. L’ottobre scorso ho assistito a Londra a una rappresentazione del Macbeth (l’allestimento di Eve Best, con Joseph Millson e Samantha Spiro nei due ruoli principali), al cosiddetto Shakespeare’s Globe, cioè nel teatro costruito nel 1996 sulle rive del Tamigi, presso il Blackfriars Bridge, secondo il modello di quattro secoli prima (del quale in verità ignoriamo molti particolari). Naturalmente si possono fare molte considerazioni, anche critiche, su operazioni di questo genere: così come, mutatis mutandis, sui concerti con strumenti d’epoca. Però, però…

 

 

Quella sera, quel pomeriggio, anzi (lo spettacolo cominciava alle 14), pioveva. Era una delle ultime repliche, l’ultima, forse. Naturalmente avevo comprato i biglietti, mesi prima, per posti al coperto, in una delle tre gallerie semicircolari. Stare in piedi in platea, secondo l’uso elisabettiano, è cosa già di per sé abbastanza scomoda; se piove, la situazione è davvero ingrata, e non consola più di tanto che la mantellina impermeabile gentilmente fornita dal Globe rechi sul dorso da una citazione dal Midsummer Night’s Dream.

 

Ora, io non so se Joseph Millson rimarrà negli annali del teatro inglese come uno dei migliori interpreti di Macbeth; a me è piaciuto abbastanza, ma per quel pochissimo nulla che capisco di teatro mi pare che Ian McKellan fosse un’altra cosa. D’altra parte, l’interpretazione di McKellan (noto al pubblico dei blockbuster movies come il Gandalf del Signore degli anelli di Peter Jackson) mi è nota solo grazie a un DVD, per di più reperito solo grazie alle preziose risorse del web-surfing. Invece, quell’indimenticabile 11 ottobre 2013 avevo dinanzi a me attori e attrici in carne e ossa che recitavano, sul “wooden O” del Globe, senza curarsi minimamente della gelida pioggerella del precoce autunno londinese, e senza pensare che, arretrando anche solo di un metro o due (chiedo scusa, di cinque o sei piedi), avrebbero trovato riparo sotto la metà coperta del palcoscenico. Occorre precisare che di microfoni non c’era traccia?

 

A un certo punto della rappresentazione era previsto che Macbeth entrasse in scena di corsa, con un salto: il protagonista è scivolato sulle tavole bagnate, è ruzzolato a terra, si è rialzato con prontezza, gli spettatori hanno riso e applaudito, specialmente quelli in piedi lì sotto. Che meraviglia, questo sì è teatro: quasi quasi la prossima volta provo anch’io i posti in piedi. Non saranno a buon mercato come un tempo (un penny, prima dell’incendio del 1613), ma forse per cinque sterline si può anche rischiare la pioggia.

Pornografia è in scena al teatro Argentina di Roma dal 9 al 17 aprile

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