Senza padre

9 Aprile 2015

Nel luglio 2014 Matteo Renzi parlava a Strasburgo della necessità da parte dei giovani italiani di riconoscersi come la “generazione Telemaco”, la generazione di coloro che devono “meritarsi l’eredità”. Il Presidente del Consiglio non citava Omero, bensì rimasticava un libro dello psicoanalista Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, 2013) . La riflessione di Recalcati sulla ricerca della funzione paterna si inseriva in un più ampio progetto di individuazione di una sintomatologia sintetizzata nella metafora della “evaporazione del padre”, che emblematizza la dissoluzione dei limiti, dei legami, dei principi di mediazione prodotta dal capitalismo contemporaneo per assicurare campo aperto al godimento compulsivo del consumo. Variamente declinata a partire da alcuni assunti lacaniani, questo tipo di analisi del presente si è imposta come dominante nel dibattito culturale e politico attuale, affermando la necessità di opporre alla deriva del godimento un tentativo di riformulazione del Nome del Padre che consenta nuove forme di contrattazione del desiderio. Proprio a queste conclusioni, e alla forma di riduzione della politica a psicologia che le rende possibili, Paolo Godani muove una critica serrata nel suo libro Senza padri (DeriveApprodi, 2014), additando la strisciante tentazione di restaurare la funzione simbolica del Padre come un’attitudine reazionaria e conservativa. Nell’ottica di Godani la dissoluzione dei legami sui quali si fonda l’esistente andrebbe semmai accelerata e assecondata in quanto premessa per la creazione di una comunità di uguali. Il legame, il vincolo, è esattamente quello che il capitalismo contemporaneo utilizza per controbilanciare le proprie spinte disgregatrici, e quindi per conservarsi e riprodursi.

 

Seppure il punto di attacco del libro è la critica a una discorsività diffusa penetrata nella cronaca politica e nella divulgazione giornalistica, Godani non cade nella trappola della polemica parassitaria rispetto al discorso dominante, e sceglie di dare profondità di pensiero a un confronto di idee che nasce nelle pieghe dell’attualità. In particolare, quello che più interessa qui è che per mettere in discussione la costruzione della soggettività fondata sul limite incarnato dal Nome del Padre Godani rintraccia e mette a sistema modalità centrifughe di rappresentazione dell’umano e del vivente, facendo riferimento ad alcune tendenze dell’arte contemporanea, dalla letteratura, alle arti figurative, al cinema.

 

Riprendendo le categorie elaborate da Daniele Giglioli nel suo libro Senza trauma (Quodlibet, 2011), Godani individua nella letteratura contemporanea la contrapposizione tra una scrittura della trasgressione, che è scrittura della morte e della negazione, e una scrittura dell’estremo, che è scrittura della vita e dell’affermazione. La vita che la scrittura dell’estremo ha esplorato, particolarmente nel Novecento, l’estremo della vita che la scrittura ha tentato di rappresentare, è il bios, è la vita del corpo e delle sue articolazioni interne, è la vita buia che precede la culturalizzazione, le sfugge e le resiste. È la “coscienza oscura”, secondo la definizione che Godani riprende da Blondel, contrapponendola alla coscienza rischiarata dalla ragione: un livello primario, prelinguistico e prerazionale di emersione della coscienza. Come anche alcune ricerche neuroscientifiche stanno confermando, il sé, l’autoconsapevolezza dell’individuo, emerge lentamente per aggregazione di sensazioni: il corpo memorizza a livello cellulare un’emozione, una vibrazione dovuta all’interazione con l’ambiente, che è il primo livello di autoconsapevolezza. L’individuo quindi, il soggetto, è prima di tutto un’organizzazione immanente di impulsi, fremiti, sommovimenti cellulari. Il sentire oscuro è una forma di coscienza nucleare, che decostruisce il soggetto mostrando la sua struttura interna, mostrandolo come una costellazione di punti irrelati, una molteplicità informale, ma non informe, che la cultura, le istituzioni, il linguaggio, il potere, arrivano a rendere un soggetto. Come ha scritto il neurobiologo Antonio Damasio, «non occorre la soggettività affinché gli stati mentali possano esistere». Il sé testimone, il sé che sdoppia se stesso in un soggetto e in un oggetto di conoscenza, è una funzione successiva, che sopraggiunge a rappresentare e a rendere cosciente il proto-sé. La coscienza è una sinfonia in cui è la performance a creare spartito e direttore d’orchestra, e quindi un’organizzazione che non le pre-esiste, ma compare nel momento esatto in cui comincia la musica.

 

 

È in questa zona oscura, liminare, nella quale l’individuo è un fascio di sensazioni, e le emergenze del bios non si sono ancora compattate in un soggetto, che si è spinto lo sguardo dell’arte novecentesca. Emancipandosi dalla dogmatica di un’estetica idealistica e culturalistica, che concepiva l’arte come manifestazione dello spirito, la pratica artistica approda a un’estetica di matrice biologica, fondata sul ruolo delle percezioni, sulle risonanze corporee dell’esperienza estetica. Esplorando la zona oscura dalla quale si staccano le concrezioni della forma, l’arte rovescia la rigida gerarchia che l’estetica idealistica aveva creato tra sensazione pura, inferiore, e percezione organizzata, di ordine superiore. La scrittura rintraccia il valore liberatorio che la coscienza infrapersonale ha nei confronti delle determinazioni della soggettività. La letteratura lavora contro il tentativo culturale di solidificare le configurazioni fluttuanti dei singoli elementi vitali. Si incarica di proteggere l’insistenza del sorriso al di là del volto, come avviene nella figurazione che Deleuze ha individuato nello Stregatto immaginato da Lewis Carroll. Il sorriso dello Stregatto è ciò che Godani chiama tratto, «una caratteristica singolare: non la caratteristica di un individuo, che in tal caso si riterrebbe dato, e che è invece solo un prodotto dell’immaginazione, bensì la qualità singolarizzata (una certa sfumatura di rosso, un certo modo di sorridere, un certo pallore sporco)». Come il sorriso dello Stregatto, «i tratti possono essere considerati in loro stessi sussistenti, a prescindere dal loro darsi o meno in questo o quell’individuo, cioè a prescindere dal divenire dell’individuo».

 

Lo sguardo che segue la linea di fuga dell’individuo e si concentra sui tratti è in grado di vedere «le qualità senza l’uomo», la cui rappresentazione è il vero obiettivo della scomposizione dell’essere umano praticata da Musil (dove l’uomo in questione non è un uomo ma è l’essere umano, l’individuo, il soggetto, l’uomo e la donna in quanto costruzioni politiche e culturali). La sostanza di cui un individuo è fatto, scrive Godani, non è individuale, ma singolare e ripetibile: «singolare, cioè che basti a se stessa e in se stessa presenti quella qualità che consente di non confonderla con nessun altra, e ripetibile, cioè ripetibile almeno in due luoghi o in due individui diversi, tanto da risultare sottratta alla fiumana del tempo». Il tratto vive in una «immortalità fantasmatica di qualcosa che pulsa nell’infinita immobilità del tempo, apparendo e scomparendo senza ragione, ma restando ciò che è, aleggiante nell’eterna evanescenza dell’essere». L’alea che regola l’aggregazione dei tratti può aprire una crepa nella composizione dell’esistente, attivando un illimitato senso della possibilità: i tratti possono dare vita a costellazioni mobili, libere dalle determinazioni della soggettività e dalle costrizioni sociali che sulla soggettività si applicano.

 

L’assolutizzazione del concetto di stile attraverso la quale, a partire dalla fine del XIX secolo, l’arte ha tentato di applicare alla realtà uno sguardo ugualitario e indifferenziante, trasferendo nell’ambito della rappresentazione lo stesso principio di equivalenza generale stabilito dal denaro, la cui funzione è quella appunto di omologare tutto a tutto, ha consentito la restituzione artistica delle qualità che si collegano tra di loro attraversando gli individui, ma senza fermarsi e identificarli univocamente. L’oltranzismo stilistico di Flaubert non vuole raccontare la vita delle persone, ma la vita da sola, la vita di per se stessa nella sua insistenza biologica. Le cose animate e inanimate si distribuiscono in una sola vasta superficie dell’essere, indifferenziata come le superfici del sapere entro le quali si perdono Bouvard e Pecuchet. Non a caso i critici conservatori hanno messo in evidenza il nesso tra lo stile degenerato di Flaubert e la deriva democratica, lo spettro del comunitarismo. Che non era un contenuto dei suoi romanzi, ma veniva evocato dallo slancio dell’opera a farsi occhio del mondo, a scardinare gli ordini gerarchici tra le cose, a dissolvere i vincoli e i legami che compattano e solidificano l’essere. A restituire l’essere all’anonimato, a raccordarlo ai suoi tempi geologici, cosmici, biologici, coi quali già Leopardi aveva confrontato il soggetto umano.

 

La teoria dei tratti rimette a fuoco l’umano rifiutando la prospettiva umanistica vitruviana, e introducendo uno sguardo che è allo stesso tempo cosmico e molecolare, telescopico e microscopico, sovraindividuale e infraindividuale. Decostruisce la rappresentazione molare dell’individuo per discendere a livello delle sue particelle elementari, delle sue componenti essenziali. Non si tratta più di scandagliare le profondità inconsce pattugliate dalla psicoanalisi, ma di destrutturare definitivamente il soggetto, indagando non gli impulsi che lo dominano ma i tratti che lo attraversano. La critica della soggettività elaborata da Godani assume sull’umano uno sguardo radiografico, come radiografica doveva essere la scrittura secondo Proust, e come radiografica è la pittura di una linea espressionista che va da Schiele e Kokoschka fino a Francis Bacon: come ha notato il neurobiologo Eric Kandel, nei corpi radiografati da questi pittori, nel punto di vista che trafigge il corpo e lo attraversa, c’è la tensione verso la rappresentazione di qualità che lottano per fuoriuscire dal contenitore nevrotico del corpo, e abbandonarsi alla liberazione schizofrenica.

 

Lo sguardo che rifiuta la messa a fuoco prospettica si attesta su una profondità di campo media, che non è né quella dell’universale (ancora umanistico), né quella del particolare: è quella del tratto transindividuale. La rappresentazione di soggettività permeabili, cui contribuiscono tanto la filosofia quanto le ricerche più recenti sul funzionamento della mente umana, suggerisce che al movimento di indifferenziazione prodotto da alcuni vettori del movimento sociale, alla tendenza all’interconnessione e alla creazione di aggregazioni intersoggettive, alla costituzione di un «cervello collettivo» dislocato nell’ambiente della comunicazione digitale, alla pressione semiotica che modella le strutture cerebrali, spingendole a funzionare in una dimensione sovraindividuale, non necessariamente si debba rispondere in termini di contenimento della dissoluzione, di creazione di vincoli e legami che preservino, ancora, i confini dell’individuo senza qualità. Il libro di Paolo Godani dimostra che forse si può guardare alla ristrutturazione complessiva che sta travolgendo i paradigmi dell’umano in termini di possibilità e di liberazione.

 

 

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