Una conversazione con Paolo Matthiae / Storia, cosmologia e fine dei tempi

22 Agosto 2019

Paolo Matthiae (1940), professore emerito di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente alla Sapienza di Roma, accademico dei Lincei, membro della Fondazione Balzan, nel 1964 ha scoperto l’antica città di Ebla in Siria (2400-1600 a.C.) e da allora fino al 2010, con lo scoppio della guerra civile siriana, ne ha diretto gli scavi. È considerato uno dei più importanti e influenti archeologi del mondo. Domani 23 agosto alle ore 19 interverrà presso l'Anfiteatro sul mare di Egnazia nel corso del Festival dei sensi 2019, che si svolgerà in varie località della Valle d’Itria in Puglia dal 23 al 25 di questo mese – tema di quest’anno il fiabesco – con una lectio magistralis sulla dea Siria e la Magna Mater.

 

 

Professore, lei ha scoperto un’intera città, un regno durato otto secoli, un tassello centrale nella storia arcaica del Vicino Oriente. Si tratta di un destino che è toccato a ben pochi archeologi, penso ovviamente a Einrich Schliemann, ed è qualcosa che oggi ha un sapore leggendario. Nel caso di Ebla, poi, ha significato la possibilità di scrivere da zero un’intera pagina di storia antica altrimenti sepolta tra le sabbie. Era il 1964 e da allora, fino a poco meno di 10 anni fa, lei ha diretto gli scavi sul campo. Nel 1975, scoperta nella scoperta, la sua spedizione ha portato alla luce il palazzo reale, con un archivio di 17.000 tavolette di argilla in carattere cuneiforme. Se dovesse recuperare un singolo aneddoto per raccontare a un gruppo di bambini l’emozione e l’importanza della scoperta, quale sceglierebbe?

 

La storia breve di un giorno, quello in cui apparvero, nel quadrato dello scavo, le prime tavolette degli Archivi Reali, fine settembre 1975. Nel terreno in piano del deposito archeologico, rimosso lentamente e sistematicamente perché eravamo sicuri di essere all’interno di un vano che, per alcuni indizi, poteva essere stato destinato alla conservazione delle tavolette cuneiformi di poco meno di 4.500 anni fa, all’improvviso apparvero lungo due lati, a nord e a est, numerosi bordi di tavolette cuneiformi come infisse nel terreno in verticale. In pochi minuti ci rendemmo conto della realtà: sul terreno stava apparendo un mare di tavolette in ottime condizioni di conservazione. Enigmatica era la posizione verticale e l’infittirsi dei documenti lungo due pareti: solo più tardi si poté capire che i testi erano all’origine conservati su scaffali di legno come quelli delle nostre librerie ed erano scivolati verso il centro del vano quando l’Archivio venne dato alle fiamme dai conquistatori della città. L’emozione vivissima di trovarsi di fronte a una scoperta epocale dovette essere controllata per prendere tutte le misure necessarie per il prelievo in sicurezza di un inestimabile tesoro. Nel primo pomeriggio mettemmo al corrente il Governatore della Regione di Idlib della scoperta e alla sera decidemmo i turni, ininterrotti giorno e notte, sul cantiere di scavo di membri della Missione e di operai locali per il prelievo delle tavolette e il trasferimento alla casa della Missione. Solo dopo due settimane di sfibrante lavoro di prelievo, trasporto, pulitura e registrazione delle tavolette, nella corte della casa della Missione cominciarono ad allinearsi ben 99 casse di tavolette predisposte per la consegna dei reperti al Museo di Aleppo. In quelle casse erano racchiusi i resti di un tesoro di documenti di ogni tipo da cui sarebbero stati ricostruiti, in decenni di futuri studi, 40 anni di storia, politica, sociale, economica, amministrativa, religiosa, di una grande città del 2350 a.C. – Ebla – che aveva aspirato senza successo a un dominio universale e di cui già intorno al 1200 a.C. si era perso ogni ricordo.

 

Le ho chiesto di pensare ai bambini perché la perdita della storia è uno dei primi effetti collaterali della “perdita del futuro”. L’Antropocene, o comunque vogliamo chiamare il prevedibile collasso di alcuni processi biofisici del Sistema-Terra, ha modificato la nostra idea di tempo, e una delle più dirette conseguenze è il ripensamento, a volte la revisione, del presente e del passato. Oggi la storia sta scomparendo, come un gas volatile, non solo dalle scuole ma nella stessa coscienza delle persone. Ebla era una città del Bronzo antico, prima c’era il Neolitico, e ancor prima il Paleolitico superiore, millenni e millenni che nei manuali di storia vengono liquidati in poche righe e di cui quasi nessuno avverte il peso culturale. Non crede che il recupero del senso della storia, specie di fronte alle nuove paure della fine, dovrebbe partire proprio da un racconto delle origini?

 

La scomparsa della Storia, o comunque un crescente spregio nei suoi confronti, tipica dei nostri giorni, deriva dalla pur raramente esplicita negazione di valore della famosa definizione antica che la Storia è “maestra di vita”. Questa espressione di forte impatto è tratta da un passo del De Oratore di Cicerone, assai illuminante nel suo insieme, in quanto il grande oratore romano rivelava quanto ritenesse essenziale la conoscenza del Passato per creare un Presente nella prospettiva di un Futuro per i suoi valori degno dell’Umanità: la Storia è «testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, araldo dell’antichità». Senza la Storia l’Umanità è destinata a disumanizzarsi. La Storia delle origini, del formarsi delle prime civiltà, è fondamentale per il Presente e per il Futuro, soprattutto ai nostri giorni, perché è la storia del rapporto armonioso, pur con mille varianti, tra Umanità e Natura. Questo rapporto, essenziale e ovviamente ineliminabile, tra Umanità e Natura è stato mediato, nei secoli e nei millenni, dalla Cultura e la Storia è la storia, infinita, della mediazione tra Umanità, Cultura e Natura. Oggi, una parte non irrilevante del nostro mondo, in una sorta di cieca follia, attraverso gli argomenti di una pseudo-cultura, ritiene che il progresso materiale dell’Umanità possa compiersi facendo violenza alla Natura. Ma quando l’incontro, il rapporto, l’armonia tra Umanità, la Cultura e la Natura si pongono su un itinerario in cui domina la violenza, ogni equilibrio si stravolge: la Natura, ferita in modi sempre più irreparabili, si ribella convertendo la sua neutralità positiva in catastrofici eventi negativi; la Cultura, rinnegando principi etici e scientifici che sono i suoi fondamenti, si perde in un vortice di argomenti fallaci, determinando un proprio pericoloso degrado; l’Umanità, che nei secoli ha cercato, seguendo tragitti innumerevoli, un’armonia, delicata e fragile, con la Natura attraverso la Cultura, si trova, sgomenta e attonita, a riflettere sulla probabile irrevocabilità di una rovina di cui è stata largamente causa.

 

La fine chiama le origini in una circolarità che fa pensare alla topografia di Ebla: una cinta muraria a cerchio, quattro porte su due assi a croce, nel mezzo l’acropoli reale, una sorta di pianta del cosmo. Parliamo allora di fondazione dello spazio, di mito come tecnica per ancorare il presente, e la vita comune, a una genesi capace di dare senso. L’archeologia ci offre numerosi esempi: Çatal Hüyük, Göbekli Tepe, ovviamente anche Lascaux e Chauvet. In realtà sappiamo che l’uomo simbolico ha sempre agito così: la Gerusalemme terrestre e celeste, Versailles, perfino Dubai City… In che modo Ebla ci racconta questa necessità della specie di fare luogo, di ordinare lo spazio, di tenere il caos al di fuori?

 

Ebla, in maniera inattesa e imprevedibile anche per il suo scopritore, è stata una città che dovette apparire ai suoi contemporanei come una città di un particolare significato, segnata da un destino particolare. In un poema bilingue pervenuto fino a noi in forma sfortunatamente molto frammentaria, denominato il Canto della liberazione, che celebra con accenti mitici la sua definitiva distruzione, verso il 1600 a.C., a opera di un principe hurrita, Pizikarra di Ninive, certo alleato di Mursili I di Hatti, il famoso sovrano paleohittita che riuscì nell’impresa di conquistare prima Aleppo e poi Babilonia, Ebla viene definita la “Città del trono” e il suo re la “Stella di Ebla”. Questi epiteti indicano che per Hittiti e Hurriti Ebla era città sede di una regalità di grande prestigio, derivante probabilmente dal fatto che era la massima sede di culto di una grande dea, Ishtar di Ebla, nelle cui mani erano i destini dell’umanità. Ma soprattutto, per motivi ancora sconosciuti perché non ci sono conservati testi mitici suoi propri, Ebla deve essere stata il luogo di un’antichissima elaborata visione del mondo come un luogo, a un tempo, sede delle forze negative del caos cosmico e dell’ordine della civiltà. Nell’età degli Archivi Reali, sui sigilli dei più alti dignitari appare una figura di Atlante che sorregge sulle spalle un disco formato da quattro teste, contrapposte a coppia, due umane e due leonine: chiaramente simboliche rispettivamente dell’ordine della civiltà promossa dall’uomo e del caos della natura selvaggia.

 

 

 

I miti hanno luoghi e personaggi. Alcuni di questi personaggi sono destinati a viaggiare nel tempo, a spostarsi da una cultura a un’altra restando un po’ se stessi e un po’ adattandosi ai bisogni locali. Tecnicamente si parla di diffusionismo, di sincretismo, di acculturazione. Nel Vicino Oriente abbiamo le più antiche testimonianze certe di divinità femminili che in modo un po’ approssimativo raccogliamo sotto l’etichetta di Magna Mater. Questa approssimazione, o questa macrocategoria un po’ troppo inclusiva, ha offerto il destro a interpretazioni “politiche” della storia antica, penso ovviamente ai lavori di Marija Gimbutas. Ebla, come lei ci ha ricordato, aveva la sua Ishtar, una dea perfettamente integrata in quel sistema socioculturale dell’Età del Bronzo che la Gimbutas avrebbe definito patriarcale, guerriero e fallocentrico.  Ma Ishtar, o Atargatis, o Astarte, o Syria è una divinità che non si può racchiudere in un’unica categoria cosmopolitica. Qual è stato il grande viaggio culturale di Ishtar?

 

In una storia complessa di sviluppo della religiosità politeistica, nella prima Ebla protosiriana dell’età degli Archivi Reali, nei decenni attorno al 2350 a.C., il pantheon della città era dominato dall’ancora enigmatica figura del dio Kura e della sua paredra Barama, ma due dee avevano un ruolo particolare soprattutto nella concezione della regalità: la ctonia Ishkhara, il cui animale sacro, lo scorpione, simboleggiava la fecondità inestinguibile della terra, e la celeste Ishtar, identificata con Venere, “la stella del mattino e della sera” e signora dei leoni, che presiedeva alla fertilità, all’amore e alla guerra. La terza Ebla paleosiriana, risorta nei primi decenni del II millennio a.C. sulle rovine di due distruzioni micidiali, fin dagli inizi ebbe come dea poliade e patrona della sua prestigiosa regalità Ishtar Eblaitu, la “Ishtar di Ebla” come la chiamavano gli Assiri, che fu il risultato di un sincretismo tra Ishkhara e Ishtar protosiriane. Questa grande dea con caratteri universalistici, sotto varie forme, era diffusissima in tutta l’area siro-palestinese e in forme diverse nell’area anatolica ed è la remota antenata dell’Atargatis dell’età imperiale romana, testimonianze del cui culto sono state rinvenute dalla Britannia alla Dacia e a Roma stessa, dove aveva un santuario ai piedi del Gianicolo, che nel mondo romano era nota semplicemente come la “Dea Siriana”. Un singolare stendardo d’oro, con due teste, fissato su una protome leonina e sormontato da una colomba, sacra alla dea, era originariamente conservato nel maggiore tempio paleosiriano della dea a Ebla e fu trasferito, certo per motivi politici, intorno al 1800 a.C. in un altro santuario della dea a Bambyke, l’odierna Membij, a mezza strada tra Aleppo e l’Eufrate, dove era ancora conservato eretto tra le statue cultuali di Atargatis e di Hadad almeno fino al II secolo d.C., quando lo descrive, antichissimo ed enigmatico, Luciano di Samosata nel suo libello De Syria Dea, dedicato appunto alla Atargatis di Bambyke, la Hierapolis di Siria.

 

 

Ebla è stata distrutta tre volte, prima dagli Accadi, poi dagli Amorrei, infine da Ittiti e Hurriti. Per due volte è rinata dalle macerie ma dopo il 1600 a.C. la gente non l’ha più ricostruita e ha usato le rovine adattandole in modo precario a uno stile di vita vernacolare, rurale, un po’ come Roma nel VI sec. d.C. in seguito alle devastanti guerre greco-gotiche. Questa idea di riuso delle rovine è un cliché postapocalittico. L’immaginario collettivo dell’Antropocene ci regala innumerevoli varianti di un mondo senza di noi, dove persone e civiltà sono l’ombra di ciò che erano. In scala archeologica questa lezione è la norma: gli imperi crollano. Il crollo può essere lento o improvviso, ma le civiltà prima o poi scompaiono. Quello che mi pare interessante è che il lavoro dell’archeologo consiste nell’operazione inversa: partire dalle rovine per restaurare una visione “preapocalittica”, restituire all’immaginario del proprio tempo la vita meravigliosa e complessa di un gruppo umano prima della sua fine. Lei pensa che oggi ci sia bisogno anche dello sguardo dell’archeologia per restaurare la visione di un presente in frantumi?

 

L’Archeologia è una disciplina di un grande fascino, spesso ritenuto tanto bizzarro quanto incomprensibile. Ma di questo fascino vi sono ragioni non banali. L’Archeologia è l’unica disciplina in cui le scoperte sono squisitamente fisiche: nell’archeologia militante, l’archeologia sul campo, ciò che prima era “coperto” dal deposito archeologico, viene materialmente “scoperto” con la sua rimozione. L’Archeologia è una delle pochissime discipline, umane o naturali, in cui l’operatore, che sia un esperto direttore di Missione impegnato in una complessa strategia di scavo o il più giovane responsabile della più limitata unità operativa, agisce sempre in una continua e ineliminabile interazione tra lavoro mentale e lavoro manuale, unico antidoto all’alienazione del lavoro tipica del nostro mondo contemporaneo. L’Archeologia, soprattutto, è la disciplina in cui si opera costantemente, nell’analisi del più modesto ritrovamento singolo come nell’interpretazione dei più complessi rinvenimenti nel terreno, seguendo un itinerario che oscilla necessariamente tra Identità e Alterità, in quanto ogni ritrovamento di qualcosa prodotto dall’uomo ha aspetti di familiarità che inducono a far prevalere nella valutazione l’Identità, ma, al tempo stesso, ogni ritrovamento, per il suo semplice collocarsi in un passato anche prossimo, ha aspetti di Alterità perché il suo contesto non è quello della contemporaneità. L’itinerario tra Identità e Alterità nell’esaltante momento del giudizio di valutazione storica è un percorso interpretativo rischioso, perché se si privilegia il versante dell’Identità si può cadere nella banalizzazione e perfino nella falsificazione, mentre se si esalta il versante dell’Alterità può accadere che la comprensione sia difettosa, manchevole, incompleta. L’Archeologia, che per questi ultimi motivi ho spesso definito una “scuola di tolleranza” offre “uno sguardo”, come lei dice, ancor più che opportuno, necessario nel nostro “presente in frantumi”, perché l’Archeologia opera, in ogni occasione, per recuperare realtà scomparse, vicinissime a noi o a noi remotissime, che sempre contribuiscono ad arricchire la Diversità Culturale. E se è vero, come è vero, che la Diversità Culturale, come è stato limpidamente proclamato dalla Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale dell’Unesco di Parigi del novembre 2001, è una ricchezza irrinunciabile e un patrimonio da conservare dell’Umanità, non v’è dubbio alcuno che l’Archeologia sia in prima linea su questo fronte, sempre aperto, che questa ricchezza tende a negare.

 

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