Storia e mito della Russia: dialogo con Orlando Figes

1 Aprile 2023

Orlando Figes è tra i principali specialisti di storia della Russia a livello globale: autore di libri importanti quali La tragedia di un popolo, dedicato alla Rivoluzione russa, e La danza di Nataša, affresco della complessa e ricca storia culturale del paese, si è da poco ritirato dall’insegnamento al Birkbeck college. La vastità dei suoi interessi legati al passato e alle idee in Russia si riflette nel suo ultimo lavoro, Storia della Russia: mito e potere da Vladimir il grande a Vladimir Putin, pubblicato in questi giorni per la Mondadori. Con l’autore abbiamo discusso dell’attualità e della storia di un paese il cui futuro, come recitava una battuta in epoca sovietica, è sempre certo, a differenza di un passato imprevedibile.

Nel suo ultimo libro nell’introduzione ha scritto del monumento al principe Vladimir, aperto nei pressi della porta Borovickaja del Cremlino nel 2016. Una inaugurazione forse poco notata all’estero ma che, come lei evidenzia, permette di identificare alcune linee ideologiche del pensiero di Vladimir Putin. Che ruolo ha il passato nel formare l’agenda politica e l’immaginario del Cremlino oggi?

Quell’evento illustra, ed è il motivo per cui l'ho scelto per iniziare il libro, l’utilizzo della mitologia storica. Come sappiamo, si tratta di una parte integrante dell'ideologia politica, dell'agenda nazionalista e imperiale del regime di Putin. In realtà all’epoca mi ha molto colpito come questa fosse una dichiarazione d’intenti: aprire un monumento al Gran Principe Vladimir a Mosca in quel modo e definirlo come il fondatore dello Stato e della civiltà russa fu, dopo l'annessione della Crimea, un'ovvia dichiarazione di intenti. Il discorso di Putin sosteneva come il gran principe aveva “unificato e difeso le terre della Russia, fondando uno Stato forte, unito e centralizzato, che incorporava genti, lingue e culture diverse in un’unica enorme famiglia”. Questo evento è stato uno stimolo per scrivere il libro perché volevo strutturare una storia della Russia che fosse basata sulle idee a proposito del suo passato che sono state utilizzate politicamente e su come esse si siano inserite nel determinare l’identità russa e nel condizionare la comprensione storica. E ho pensato che fosse importante farlo in quel momento, perché si trattava dell’unico modo di pensare alla storia russa per presentarla ai lettori di oggi perché era già chiaro nel 2019, quando ho iniziato questo libro, che il modo in cui i russi hanno compreso la propria storia e il discorso su di essa elaborato dalla leadership putiniana era così diverso dal modo in cui avevo insegnato la storia russa, da come l’ha insegnata o la insegnano tanti colleghi.

In effetti vi è una vera ossessione per la storia, penso a quando Putin ha evocato le battaglie contro i polovezi e i peceneghi per descrivere l’impegno nella lotta al Coronavirus…

Sì, Putin è chiaramente ossessionato dalla storia e dal suo posto nella storia. Quando ho iniziato a scrivere il libro nel 2019, con l’idea di ritirarmi dall’insegnamento, ho pensato che fosse un buon momento per mettere assieme il mio lavoro e le mie riflessioni sulla Russia, e sono giunto alla conclusione che forse sarebbe stato meglio se avessimo parlato della storiografia russa, insegnarla assieme alle vicende storiche. Il libro, in un certo senso, prova a far questo, anche perché in Russia vi è sempre stato un uso politico della storia. La storia è una miniera, è da dove i politici hanno sempre tratto idee e suggestioni per le proprie agende, per fornire definizioni su cosa è o cosa dovrebbe essere la Russia, o quale dovrebbe essere il suo ruolo nel mondo, o chi sono i russi, o chi dovrebbero essere. È dalla storia che politici e ideologi hanno sempre attinto, e il mio obiettivo era mostrare come queste idee si fossero fatte strada nell'arte di governo russa, nelle rappresentazioni russe dell'Occidente, nelle idee a proposito dello sviluppo della stessa Russia.

Nelle pagine del volume ricorre a più riprese l’immagine della Russia eterna, di uno Stato che esiste da sempre, un perennialismo oggi ancor più persistente nel contesto della guerra in Ucraina. Alcune di queste battaglie si sono combattute su Twitter, penso agli scambi tra i profili ufficiali dei ministeri degli esteri di Kyiv, Mosca e Washington a colpi di meme e fotografie su quale città fosse più antica. Inoltre, nel libro afferma che si tratta di interpretazioni risalenti alla storiografia ottocentesca, e mette in questione la linea diretta di discendenza dall’antica Rus’, contesa diventata ancor più aspra, dei russi e degli ucraini. Cosa ne pensa di queste rappresentazioni del passato?

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La guerra è una tragedia, lo scrivo anche nel libro, ma nei prodromi del conflitto vi è la rivendicazione da parte dei nazionalisti di ambo le parti dell’eredità kieviana, una rivendicazione di una civiltà di cui conosciamo solo alcuni aspetti. È l’idea di stabilire una primogenitura inesistente, spesso portata all’estremo, penso alla petizione lanciata in Ucraina per ridenominare la Russia “Moscovia”, illustrazione estrema di come si sono mescolate teorie della decolonizzazione con elementi di razzializzazione delle differenze tra ucraini e russi. 

Una narrazione che ha alcuni illustri precedenti anche nella retorica del nazionalismo polacco…

Ed è un problema. La Rus’ nel 988, secondo le evidenze archeologiche e le ricostruzioni degli studiosi negli ultimi decenni, si presentava come una confederazione multietnica larga, basata su legami commerciali, uno Stato assai debole con connessioni più o meno forti basate sul movimento delle merci dal Baltico al Mar Nero. Vi erano spostamenti di ogni genere da un posto all’altro, si trattava di territori aperti, dove vivevano pastori, mercanti, piccoli eserciti, non era una nazione, né uno Stato vero e proprio. Si potrebbe pensare che si tratti di un buon simbolo dell’apertura delle civiltà delle steppe da cui sia l’Ucraina che la Russia sono emerse, ma oggi la Rus’ è diventata un argomento primordialista per definire chi sono i russi.

Forse i sostenitori delle origini premoderne delle nazioni, come Anthony D. Smith, troverebbero la propria rivalsa…

Verissimo, d’altronde i nazionalismi vivono di miti, e quanto è venuto fuori dopo il 1991 non è un’eccezione: la ricerca delle proprie origini è diventata un tema fondamentale con il crollo dell’Unione Sovietica, prima era qualcosa lasciato lì dove deve essere, nella storia antica. Oggi la storia antica viene usata per armare la politica.

Tra le pagine del volume emerge più volte un altro, antico, dilemma: la Russia è europea o asiatica? Che cos’è l’Europa per la Russia? Si tratta di domande spesso assillanti, che si coniugano a un certo pessimismo speculare, dove ci si spinge a vedere in chi si oppone o chi governa “l’unico europeo”, e ad esempio ricordo come a inizio anni Duemila Putin venisse presentato così, sulla scorta di altri illustri predecessori come Pietro il Grande. Da dove viene questa ossessione per il carattere europeo o asiatico della Russia?

Torniamo sempre alla discussione degli eventi storici e alle domande poste alla società russa: “abbiamo preso la strada giusta quando Pietro ha fondato San Pietroburgo? L’Europa è il nostro destino? Ma vogliamo questo destino oppure no?”. L’Europa è servita sia da monito che da ideale per la società russa, e la politica ha sempre ruotato attorno a queste due visioni. Quali di esse deve venir per prima? L’ideale dello stato di diritto, di diventare un regime costituzionale, arrivando a essere una democrazia; importare e contribuire allo sviluppo di cultura, tecnologia e esser parte della civiltà occidentale. Si tratta di questioni però che essenzialmente fanno appello all’élite, quanto esse avessero fatto presa tra la gente comune è materia di dibattito. Oggi gli aspetti materiali della civiltà occidentale possono essere soddisfatti dall’industria cinese: un’automobile cinese forse non sarà così buona come una tedesca o italiana, ma è pur sempre una macchina.

E può funzionare anche bene.

Esatto, quindi adesso la questione è cosa significhi l’Europa al di fuori dell’élite russa. Cosa significa ora l'Europa per chiunque tranne che per l'élite? Penso che in questo senso la questione sia cambiata perché probabilmente la popolazione russa può vivere all'interno di uno Stato autoritario che non aderisce a nessuno degli ideali occidentali, e probabilmente potrebbe conviverci anche senza grandi difficoltà perché lo ha fatto per molti secoli in una forma o nell'altra. È un fatto però che l'ossessione su dove si collochi la Russia e il suo rapporto con l'Europa sia stata capovolta e usata politicamente e espressa in termini storici sin dal XVII secolo. Non c'è niente di nuovo, ma ovviamente sotto Putin tutto ciò ha preso una svolta molto drammatica, e nemmeno in senso slavofilo, rivendicando di dover proteggere la cultura, la religione, la lingua dall’influenza occidentale, ma più simile a quanto Nikolaj Danielevskij sosteneva sulla contrapposizione tra Russia e Europa.

Emerge anche un altro aspetto dalla visione del Cremlino, l’idea di rappresentare la vera, vecchia Europa, fedele ai valori tradizionali, legata alla religione, ultraconservatrice, a difesa della famiglia, mentre l’Unione Europea viene annullata all’interno della categoria di Occidente collettivo…

E l’Occidente è la distopia, l’Anticristo, quel che minaccia i valori tradizionali, un ragionamento molto politico; d’altronde, però, oggi il concetto d’Europa è stato assorbito in quello di Occidente, no? Quando parliamo d’Europa, di cosa parliamo? Se guardiamo all’Ucraina, l'Europa è stato l’ideale che ha mosso il Maidan, perché tra i suoi obiettivi vi era far parte di essa. Ricordo di aver sostenuto all'epoca che era piuttosto idealizzata la loro visione dell'Europa, oggi invece questa guerra sarà un test per l'Europa, perché gli ucraini, credo giustamente, stanno obbligando l'Occidente a tener fede ai propri principi. Penso che abbiano ragione a farlo, perché questo è il test per verificare se i principi europei o occidentali significhino qualcosa. Ma se l'Europa resisterà o meno a questa prova è un'altra questione, davvero, e non ne sono così sicuro. Oggi, a mio avviso, l’idea di Europa dovrebbe essere rappresentata dalla società aperta, dall’essere un crogiuolo di etnie, culture e idee diverse che competono tra loro in uno scambio aperto, ma allo stesso tempo mi sembra essa si trovi in grande difficoltà. 

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Anche all’interno dell’Europa stessa, penso ai casi di Polonia e Ungheria, questa concezione sembrerebbe essere sotto attacco.

Vero, anche se sono in un certo senso limitati dai legami economici all’interno dell’Unione Europea, e da un certo punto di vista gli ucraini sono anche più europeisti. Infatti sostengo che la UE dovrebbe accelerare l'adesione dell'Ucraina, e che quest’ultima dovrebbero puntare più all’entrata nell’Unione che ad aderire alla NATO. Adesso è evidente, la NATO può essere essenziale per loro, nel bene e nel male, ma è l'adesione all'UE che ritengo davvero importante dal punto di vista simbolico. Penso che sia importante che l'Unione Europea faccia entrare l’Ucraina e fornisca agli ucraini la libertà di movimento. Si tratta di un atto importante perché, se come temo, la guerra entrerà in uno stallo, il conflitto si estenderà ad altre sfere, e i bombardamenti delle infrastrutture civili mirano a creare una crisi dei rifugiati. Per questo è fondamentale che si resti attaccati ai principi europei, che vengano ripartiti i rifugiati tra i paesi europei e che si agisca con severità contro quei governi che si rifiutano di aiutare.

Nel capitolo finale del libro, scrive “oggi può sembrare che la sua storia (della Russia – GS) fosse inevitabilmente destinata a concludersi con la reinvenzione della tradizione autocratica da parte di Putin. Ma non è così.” Nel dibattito odierno spesso leggiamo posizioni che invece vedono nell’autocrazia il destino manifesto della Russia: vi è chi lo scrive con toni di veemente condanna, e chi con panegirici entusiasti, eppure possibili alternative vi sono state.

Certamente, vi sono state e vi sono alternative, e va sfatata l’idea di un DNA russo dove vi sarebbe inscritta la schiavitù o la cieca obbedienza, agitata da schieramenti opposti. Non è così, pensiamo solo al fatto che l'unità di base della società russa fino alla collettivizzazione era la comune contadina russa, una forma primitiva di democrazia: certo, non una democrazia onnicomprensiva perché escludeva in larga misura le donne, patriarcale, ma era autonoma. E la libertà non era così sconosciuta, si pensi al perché sono nati i cosacchi: i contadini fuggivano dalla servitù, volevano andare a vivere in libertà. Ancora, quando arrivava lo Stato e arrivava la servitù, iniziavano le ribellioni cosacche, vi era alla base sempre un istinto di rivolta contro il proizvol’, l’arbitrarietà del potere. Vi era anche un’idea popolare della monarchia, dello zar buono e dei boiari, poi dei proprietari terrieri cattivi, per cui si organizzavano petizioni per chiedere al sovrano di intervenire, come nel 1905, perché si credeva che sarebbe stato il monarca a dar la terra e la libertà. Quando questa idea si è poi scontrata con una realtà fatta di repressioni e massacri, è cambiata. 

Vi è però un problema, la modalità di amministrare e la mentalità nel farlo. “Ci servono trecentomila soldati? Eccoli; ci servono le tasse? Eccole”, ed è un problema di dimensioni geografiche, di scarsità di quadri e di manodopera, di tecnologia, di esperienza: chiunque abbia guardato alla questione con freddezza, lo ha evidenziato, si pensi alla Lettera a Gogol’ di Vissarion Belinskij, quando scrive che la Russia “non ha bisogno di prediche (ne ha sentite abbastanza), non di preghiere (ne ha recitate abbastanza); ha bisogno che nel popolo si risvegli il senso della dignità umana, trascinato per tanti secoli nel fango e nel letame; ha bisogno di una dottrina giuridica e di leggi che non si ispirino all’insegnamento della Chiesa, ma al buon senso e alla giustizia, e che vengano applicate con la massima severità”. Nel 1917 vi sono stati momenti che avrebbero potuto essere alternativi rispetto a come sono andate le cose, a differenza del tentativo decabrista o degli anni Novanta, perché vi era un’alba popolare, la rivoluzione in realtà è stata un insieme di diverse rivoluzioni… Vi era un enorme caos, è vero, ma vi erano molte possibilità aperte, come una democrazia sovietica senza partiti, un parlamento su una base partecipativa più ampia. Chissà cosa sarebbe potuto succedere, è stata un’opportunità reale e forse la Russia si troverà in una situazione simile nel corso della nostra vita. Le guerre e le rivoluzioni, e questo Lenin lo sapeva bene, sono sempre connesse, soprattutto in entità statali deboli, e la Russia lo è per la propria estensione, forte al centro e debole in periferia, e la sua storia dimostra questo legame tra guerre e rivoluzioni.

Di cosa non ha funzionato in Russia negli anni Novanta ancora oggi se ne discute, e nel libro se ne parla ampiamente, incrociando la situazione interna con la politica estera di Mosca e a proposito di Mosca di quel periodo. Lei dedica anche qualche pagina alla questione dell’espansione della NATO, riportando anche le valutazioni di George Kennan al riguardo. Che giudizio ha su quell’epoca, diventata in un certo senso leggendaria, sia come spauracchio che come opportunità perduta?

Credo che la shock therapy, le privatizzazioni selvagge con il sistema dei voucher, siano state un completo disastro. Si è trattato di un errore enorme: la Russia aveva bisogno agli inizi degli anni Novanta di una sorta di piano Marshall, e temo che l’Occidente abbia visto Mosca come l’erede dell’Urss, quindi come chi ha perso la Guerra Fredda. In un certo senso, se l’Ucraina, la Georgia, i paesi baltici, sono stati accolti e aiutati come vittime dell’Unione Sovietica, i russi sono stati visti come i responsabili del sistema sovietico, quindi non meritevoli di essere aiutati. Però la Russia era un grande spazio economico con numerose risorse, le aziende e le holding occidentali volevano entrare negli affari, e l’integrazione di Mosca nell’economia globale c’è stata, anche con l’illusione di una successiva democratizzazione dovuta allo sviluppo del mercato. Ma sappiamo quali sono state le conseguenze, e sono state disastrose. Questo è il motivo per cui nel libro volevo collegare le relazioni internazionali con la politica e l'anti-occidentalismo che è venuto fuori dagli anni Novanta: Putin quando ha iniziato a muoversi verso questa retorica e queste politiche anti-occidentali, negli anni Duemila, ha avuto successo con il russo medio proprio perché l'esperienza degli anni Novanta per la maggior parte dei russi è stata piuttosto traumatica. Come ha descritto Svetlana Aleksievič in Tempo di seconda mano, a dominare era non tanto la disillusione, ma la sensazione di esser stati privati di tutto: dell’identità, del lavoro, delle pensioni, della sicurezza, delle ideologie. È stato molto difficile per tanta gente costruire una nuova vita nelle condizioni del libero mercato alla russa. Putin ha avuto successo a presentare tutto questo come un’imposizione dall’esterno. Ricordo che nel 2008 a Mosca vi era la finale di Champions League fra Chelsea e Manchester United, in quel momento ero nella capitale russa per lavoro e sono venuti a trovarmi degli amici per andare a vedere la partita. Siamo andati al cimitero di Novodevičij, dove si trovano le tombe di tanti scrittori e altre illustri personalità della storia e delle arti della Russia, e abbiamo chiesto a uno dei guardiani dove fosse sepolto Boris Eltsin. Il guardiano ci ha guardato, e ha risposto, sprezzante, “vaš – tam”, il “vostro” è lì in fondo. Per me è stato molto indicativo, perché ho capito cosa stava avvenendo: c’era chi voleva tornare a un passato, immaginario e proprio per questo rassicurante, e oggi è quel che è avvenuto.

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