Vladimir Sorokin. La coda

18 Febbraio 2014

Si dice che girasse un indovinello, nell’URSS degli anni ’60: “Qual è quell’animale lungo almeno cento metri, che ha mille piedi e si nutre di cavoli?”. Si trattava del fenomeno di massa più conosciuto dai cittadini dell’Unione Sovietica, simbolo di un sistema in cui ciò che serviva non era mai disponibile al momento giusto e in quantità sufficiente. La coda. Per ovviare alla difficoltà di acquistare i beni necessari, chiunque – studenti, operai, madri con bambini, anziani e ragazze – si sottoponeva a interminabili file preventive, a volte essendo all’oscuro della merce che veniva venduta.

 

Ed è la coda la protagonista del libro che prende il suo nome, riedito da Guanda (traduzione di Pietro A. Zvetermich): scritto da Vladimir Georgievič Sorokin, vietato a causa della sua forza satirica e quindi circolato a lungo in forma di samizdat, fu pubblicato a Parigi nel 1985. Lette oggi, queste pagine non sono solamente una testimonianza di quella società ma rappresentano una eccezionale sfida narrativa. L’intero libro è composto esclusivamente di dialoghi senza soluzione di continuità: il narratore è assente, non interviene mai ed è la folla a regnare sovrana. Ma, lontano dall’essere un esperimento ai confini con l’analisi sociologica, La coda sa divertire e persino raccontare una storia, quella di Vadim, unico personaggio ad accompagnare fino alla fine il lettore.

 

 

O viceversa, perché, volenti o nolenti, venuto a mancare il narratore, siamo proprio noi lettori il centro nevralgico del libro. Fin dall’inizio osserviamo incuriositi la gente che si conosce, litiga, bestemmia, beve e mangia, aspettando che laggiù, davanti ai grandi magazzini, le commesse si sbrighino tanto più che noi, al posto dei cittadini lì in fila, non avremmo mai quella pazienza e di certo saremmo già fuggiti a gambe levate. Rimaniamo ad ascoltare conversazioni e sbirciare incontri, insomma, e diventiamo dei veri e propri people watcher, non tanto dei voyeur ma più simili a quei vecchietti di paese che passano le giornate ad ascoltare le faccende altrui.

 

Per altri versi, il libro presenta anche un altissimo tasso di autorialità: fin dall’inizio si avverte come sia stato tutto orchestrato alla perfezione, in maniera da trasformare l’intero edificio narrativo in un monumento allo scambio verbale, anzi no, alla discorsività, perché Sorokin è uno dei pochissimi scrittori a far procedere la storia anche attraverso risate, sospiri, bestemmie e brevissime interiezioni.

 

E il risultato è un testo pieno di umorismo, con delle vere e proprie punte comiche, grazie alle quali emerge un ritratto graffiante della società sovietica. Da qui, la messa al bando del libro, che però non è bastata a spaventare il suo autore tuttora attivo (il suo ultimo romanzo è del 2011), che nelle sue dichiarazioni non è meno estremo che nelle sue scelte autoriali. “La letteratura russa è una chiesa ed io entro in questa chiesa con un’ascia” ha detto in un’intervista, per poi aggiungere che “per uno scrittore in Russia vale sempre e solo una formula: o si scrive o si è terrorizzati. Tertium non datur”.

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