Voci di nuovi italiani (2)

26 Agosto 2022

Il Ministero dell’Istruzione rileva che nell’anno scolastico 2020/2021 erano iscritti 865.388 alunni e alunne con passaporto straniero; la legge di cittadinanza vigente è lo ius sanguinis, che ancora oggi priva i ragazzi (dopo tredici anni di scolarizzazione in cui tutto hanno condiviso con i loro compagni italiani) del diritto di cittadinanza, che possono richiedere solo dai 18 compiuti, con attese lunghe anni. Il 25 settembre 2022 si terranno le elezioni parlamentari: il Governo Draghi è caduto anche perché in Parlamento si stava approvando una nuova legge sulla cittadinanza, lo ius scholae, che avrebbe permesso ai ragazzi non nati qui di diventare italiani come i loro compagni dopo aver frequentato almeno cinque anni di scolarizzazione. Molti nuovi italiani potranno votare, molti no. Chi sono? Che ne pensano dell’Italia in cui vivono e che così spesso non li riconosce?

ABRIL K. MUVUMBI ha 25 anni, è di Imola. Impegnata in politica e nel volontariato sin da giovanissima, l’anno scorso ha partecipato allo European Youth Event a Strasburgo; lavora al progetto Champs ideato da AMREF e finanziato dall'Unione Europea; fa parte dell’AFAR (Afrodescendant Fighting Against Racism); nel 2020 è stata selezionata dal German Marshall Fund per il programma Transatlantic Inclusion Leaders Network. Ora è coordinatrice a Bologna dell'associazione Face to Face, che ha prodotto un libriccino di desiderata presentato alla Camera dei deputati il 3 agosto 2022 da Italia Viva. Si sta laureando all’Università di Bologna in International Cooperation on Human Rights and Intercultural Heritage (Protection of human rights) con una tesi sui rapporti tra Unione Europea e i Paesi ACP (Africa-Caraibi-Pacifico). 

«Sono nata in Italia, a Castel San Pietro Terme in provincia di Bologna. I miei genitori sono originari mio padre della Repubblica Democratica del Congo e mia madre dello Zambia, e sono immigrati negli anni Novanta. Al liceo linguistico sono andata in crisi, volevo “tornare” in Zambia… mi son messa a studiare l'Africa per i fatti miei, è stato come un corso di studi parallelo: mi ero resa conto che non conoscevo bene la mia storia e la mia cultura».

Sei italiana?

«Sì, da quando avevo 13 anni, perché mio padre aveva già ottenuto la cittadinanza. Il problema però è stato che avendo cittadinanza italiana ho perso quella congolese, perché il Congo non ammette il doppio passaporto. Allora ho chiesto quella dello Zambia, ma niente da fare. Sono stata discriminata più dall’Africa che dall’Italia!»

Ricordi episodi di discriminazione?

«No, non mi sono mai sentita esclusa a scuola; i miei genitori hanno educato me e i miei fratelli ad essere consapevoli sia delle nostre origini sia del fatto che ormai eravamo qui. Siamo sempre andati regolarmente in vacanza giù, quindi ho sempre saputo difendermi subito da ogni idiozia, tipo “in Africa vivete nelle capanne”…»

Come hai cominciato con l’impegno politico?

«Facendo la volontaria in uno stand degli europarlamentari del Partito Democratico. Mio padre è sempre stato molto attivo e quindi mi ha un po’ trasmesso questa cosa: era presidente della comunità congolese in Italia e quindi lo vedevo sempre organizzare manifestazioni, eccetera. Un giorno ero alla Stazione Leopolda di Firenze alla manifestazione di Renzi e Civati e mi hanno fatto salire sul palco: le cose poi sono andate avanti».

Prima o poi ti candiderai come afrodiscendente?

«Quando entrai nell'aula del Parlamento Europeo a Strasburgo fui stupitissima di vedere a colpo d'occhio tanti afrodiscendenti! Mai visti tanti in qualsiasi sede della politica in Italia! A me piace fare politica nel senso nobile, civile del termine, non come si fa politica qui. Su Instagram seguo giovani che fanno attività in altri Paesi, tipo in Germania, e li vedo molto più coinvolti proprio dai partiti, cosa che in Italia vedo poco. C’è da cambiare, in Europa, la narrativa sul continente africano; quindi, chi meglio di noi che stiamo qui può farlo? Il colonialismo in armi è stato sostituito da uno sfruttamento delle risorse che ha soltanto cambiato maschera, in tanti Paesi africani ci sono classi dirigenti corrotte che gestiscono in modo servile l’economia, ma altrove, in Ghana ad esempio, stanno cambiando un po' le cose; il boom del Rwanda mi lascia un po’ diffidente invece». 

Quindi vuoi cambiare la politica italiana.

«Sono critica, sì. Critico l'incapacità che si dimostra nell'affrontare la questione del razzismo, la poca competenza quando si parla della legge sulla cittadinanza (si è visto di nuovo durante le ultime discussioni in aula sullo ius scholae scritto dall’avvocato napoletano Hilarry Sedu), in cui si parlava addirittura come requisito di finire gli studi con il massimo dei voti!). Non c’è coraggio nel criticare l'Unione Europea, che difende i suoi confini dall’immigrazione con sostanziale violenza».

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FATIMA BOUHTOUCH è nata a Mirandola, in provincia di Modena, 28 anni fa. Dopo il liceo si è trasferita in Inghilterra, dove si è laureata in Lingua Araba e politiche del MENA (Medio Oriente e Nord Africa) all’Università di Leeds; a settembre comincerà un master in Psychology in Education: pensa di cominciare a fare l’insegnante, e poi di prendere un dottorato in Psicologia infantile. L’anno scorso ha partecipato a “Italia’s Got Talent” su Sky Uno/TV8 con la sua reading poetry, e ha avuto un momento di notorietà.

 

 

 

 

«Sono contenta perché questa estate sono tornata in Marocco, dopo quattro anni! I miei genitori sono di Marrakesh. Mio padre è venuto in Italia quando aveva 19 anni e ha lavorato come operaio nell’industria farmaceutica, mia madre era un’insegnante, in Marocco. Quando ci fu il terremoto nel 2012 sfollammo nella tendopoli e papà ci disse che era meglio che per qualche tempo noi figli tornassimo in Marocco; in quel periodo ho preso coscienza che qualcosa non funzionava più per me nel sistema nella società marocchina».

Quando eri in Italia ti trovavi meglio?

«Beh, in quegli anni non c’era ancora una comunità marocchina, quando sono entrata nella scuola dell’infanzia non parlavo una parola di italiano, avevo difficoltà a socializzare. Alla primaria ero quindi indietro rispetto ai miei compagni di classe; alcuni di loro venivano da famiglie razziste e spesso sono stata presa in giro. Alla media ho messo il velo, conoscevo pochi ragazzi italiani: avevo le verifiche semplificate e pensavano che fossi handicappata.

Al liceo linguistico non mi invitavano nemmeno alle feste di compleanno; una volta siamo andati in gita, c’era una abbazia cristiana da visitare e qualche compagno non voleva farmi entrare perché ero musulmana! Ma poi ho cominciato ad avere una rete di amicizie a Bologna, che è una città inclusiva, aperta, così ho capito che il problema era la provincia di Modena, dove la gente sta molto bene economicamente ed è piuttosto indietro culturalmente.

Avrei voluto fare l’Università in Germania, dove avevo contatti che mi rassicuravano sul fatto che quella è una società davvero matura e inclusiva, ma per me imparare il tedesco era troppo difficile. Ho provato a lavorare un po’ a Milano, e ho visto che lì almeno quando cammini per strada la gente non ti fissa continuamente, ma non riuscivo ad ingranare così è venuta fuori l’idea dell’Inghilterra: mia sorella era andata a studiare lì e ora fa l’ostetrica».

Da che età sei italiana?

«Dai 14 anni, perché mio padre aveva ottenuto la cittadinanza dopo anni di lavoro qui. Mi sento sia italiana sia marocchina, e non sopporto sentire parlar male degli uni o degli altri, ma non è un amore cieco, ho senso critico per tutte e due le società. La qualità della vita in Italia è unica al mondo. In Inghilterra il vantaggio è che ti trovi in una società davvero multiculturale, ormai, ma il resto non è che sia così piacevole».

Porti il velo in Inghilterra?

«L'ho indossato quando avevo undici anni, obbligata, poi è diventato una specie di bandiera personale, l’identità che mi difendeva. Ma quando poi sono venuta qua, dove non c’è pressione sociale, dove sei accettato per quello che sei, ho cominciato a chiedermi se fossi spiritualmente attaccata al velo, e l’ho tolto. Questo non esclude che io forse un giorno lo possa rimettere, chissà: la spiritualità è una cosa che muta con il tempo. Qui nessuno ti chiede se sei marocchina o che altro, non ci sono le difficoltà che ci sono ancora in Italia, basta pensare a quanto è difficile comprare casa, affittare casa, avere un lavoro…»

Mai pensato di tornare a vivere in Marocco, ora che sei donna laureata?

«La qualità della vita a Marrakesh è buona se hai soldi; c'è una netta differenza tra la borghesia e la classi sociali medio-basse; se sei un borghese non puoi uscire con persone povere, non esiste. Sanità e Istruzione pubbliche sono sempre peggio, e i ricchi vanno nel privato. La legislazione per le donne è un po’ migliorata ma non siamo ancora a livelli europei. No no preferisco tornarci in vacanza, per rivedere la mia famiglia».

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AYA MOHAMED è nata in Egitto 26 anni fa. A sei mesi era in Italia con i suoi genitori, che hanno aperto ristoranti a Milano. Dal 2017 è una blogger famosa: Milan Pyramid, intervistata da “Cosmopolitan” o dal programma “Young Stories” della Rai, o da “Harper’s Bazaar Arabia”, perché ha creato una comunicazione originale, empatica, a partire dalla sua convinzione di indossare l’hijab musulmano; intorno a quel capo di abbigliamento così mal sopportato da molti razzisti ha inventato una moda, uno stile per le ragazze islamiche in Europa e nel mondo arabo. Si sta laureando in Scienze Politiche all’Università Statale. Impegnata nel movimento Giovani Musulmani Italiani (GMI), dai suoi social diffonde dialogo e comprensione.

«Come puoi sentire ho uno smaccato accento milanese! Ho studiato l’arabo per comprendere il Corano, lo leggo e lo scrivo, ma l’italiano è la lingua che uso di più. Anche per me, da adolescente, i punti di riferimento sono stati per lo stile, per il look, quelli americani, e mi è stato naturale imparare bene anche l’inglese».

Sei italiana?

«Ho fatto richiesta di cittadinanza egiziana nel 2015 e sono ancora in attesa di risposta! Ho passaporto egiziano. Mio padre non la vuole, per patriottismo, mia madre la vuole. Non erano bene informati sulle procedure, avrebbero già potuto chiederla per me da quando avevo dieci anni perché loro erano qui dagli anni Ottanta, ma pazienza, l’ho chiesta io a 18 anni. Mi fanno un sacco di storie… incongruenze di documenti, mah… In vacanza torno sempre a casa in Egitto. A scuola qui non ho mai avuto problemi di inclusione, ma so che ce ne sono ancora. I problemi per me sono cominciati quando ho iniziato ad indossare il velo alla quinta superiore: sono rimasti tutti spiazzati, anche i prof».

Com’è la situazione per una giovane donna che indossa il velo, in Italia?

«L'Italia è un bellissimo Paese ma c'è ancora un grosso problema di sessismo e di misoginia. Mi scrivono ragazze respinte ai colloqui di lavoro perché portano il velo. C'è un problema a livello sistemico che va risolto. Siamo lontani da Paesi come la Norvegia o la Svezia. L’Italia è bloccata dalla burocrazia, e da leggi ingiuste: mi ferisce molto il tema della cittadinanza: lo ius sanguinis mi blocca da anni solo perché sono nata in Egitto e dai sei mesi di età vivo qui? Non dobbiamo mollare, io mi impegno perché quella legge cambi. Se vado a iscrivermi in una palestra a Milano la mia cittadinanza egiziana è un problema! C’è un reticolato di leggi contraddittorie e assurde che punisce sempre e comunque chi non è ancora italiano».

Non ci sono pari opportunità, di fatto.

«No: nessun’altra persona dovrebbe proibire a qualcuno la sua libertà; io trovo sempre difficile spiegare come il mio hijab sia la mia libertà, per molti è come fossero due concetti completamente opposti. Io credo molto nel supporto reciproco tra donne della comunità musulmana».

Chi è Milan Pyramid?

«Tutto è cominciato dalla mia passione per la moda e il beauty, fa parte della mia identità di ragazza; il velo richiede un certo codice di abbigliamento e cercando di conciliare i miei gusti e la mia fede ho cominciato con i miei post. Volevo rompere i pregiudizi e gli stereotipi, creare un luogo dove tutti possano sentirsi a loro agio senza giudizi. “Influencer”? mah, è solo un’etichetta: i brand mi mandano i prodotti adesso, collaboriamo a livello artistico e creativo, è qualcosa che mi piace fare… ho la casa piena di profumi e creme e vestiti!»

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