La gara nella pelle
Così come un micro organismo bioluminescente esposto a determinate reazioni chimiche emette energia luminosa, a chi pratica una intensa performance agonistica può capitare di percepire dentro di sé una vibrazione muscolare insolita, una scia di riverberi interni particolari, in subbuglio, per certi versi luccicanti.
Meno estetica, naturalmente, della strabiliante bioluminescenza marina o batterica, questa condizione di decelerazione agonistica potrebbe essere definita come una irradiazione discendente e invisibile di energia, un rilascio lento di lunga durata.
È in realtà un defluire para-motorio che tenta di trattenere il corpo e la mente sul campo di gioco, prolungando l'attività sportiva a un tempo in cui il corpo è già altrove – magari a riposo, ma la mente, come saltando da un treno in corsa, continua ad avvertirne ancora quella potente energia cinetica.
Chi ne ha fatto esperienza, la potrebbe descrivere, azzardando oltremodo, come un formicolio opaco e granuloso che si espande e sobbalza nei pensieri, spezzando gli istanti di quelle attività che, terminato il tempo agonistico, si tenta di riprendere a fare.
Questa memoria subitanea sportiva, ne siamo certi, pur scavando la sua tana fondante nella mente, accade nel corpo, si propaga, ribolle e soprattutto sostanzia e schiude grumi inattesi di possibilità virtuali.
Credo che sia una sensazione comune a molte persone che praticano sport agonistico con una certa intensità e determinazione, o, ancor più probabilmente, è un vissuto che si può estendere a diversi campi artistici, dove una data performance (sportiva, così come teatrale o musicale) viene creata nel durare dell'attimo, nella sua densità "dal vivo", solidificandosi nella sua esecuzione, nella sua indelebilità svolta.
Prolungando il tempo che segue l'attività di gioco si rivive interiormente la scena in tutte le sue condizioni: come in sogno – luci, rumori, visioni, scelte, emozioni, fatalità tornano a galleggiare riempiendo la scena.
Attingendo dal mio vissuto di atleta pallavolista, ricordo che dopo alcune partite, come in una sorta di pratica meditativa travisata e involontaria (talvolta anche autoinflitta), mi capitava di ripensare a tutti i gesti compiuti durante le azioni cruciali, ricampionando l'intera sequenza di variabili, probabilità, esecuzioni tecniche divergenti.
Mi trasformavo in un montatore di fotogrammi liquefatti e impossibili che lavora e traffica in post produzione.
Frame. "La parabola della palla è troppo bassa per questo gesto". Frame. "Posso anticipare il movimento del polso, equilibrare il corpo in volo durante il salto con una spinta nella direzione opposta". Frame. "Impatto il colpo una frazione di secondo prima". Frame. "Eludo l'avversario, lo smarco."

Seguivo tutte le piste labirintiche che la memoria mi predisponeva: non tanto per rimpiangere eventuali scelte erronee, quanto per rifondarle da zero, in una scacchiera invisibile che aumentava e ingrandiva il tempo di gioco, lo proseguiva, anche in termini di apprendimento.
Rivivevo interiormente, spesso senza riuscire più ad addormentarmi, la composizione ricodificata del match, come se ogni frazione costituisse la variabile di una sequenza decisiva per il prosieguo della partita, ormai conclusa.
Capita anche, ad altissimo livello, che questo pensiero di memoria percettiva auto-allenante possa diventare una delle voci con cui ci si confronta in modo simultaneo all'azione. Un dialogo immediato che verifica e sonda cause ed effetti, implicazioni e intuizioni, dove in una moviola precisissima e condensata si raccolgono quante più nozioni possibili circa il proprio gesto, quello dell'avversario, quello del proprio compagno (negli sport di squadra). Allo stesso modo in questo pattern complesso, simile a un prisma triangolare in fase di rifrazione, non esiste solo la tecnica: non è possibile trascurare, nemmeno per un'azione, le emozioni proprie e degli altri che sopraggiungono più o meno inaspettate, più o meno accolte, e che devono essere incanalate nella direzione adatta alla singola situazione. Scacchiere sconfinate di probabilità, dunque, visualizzate in pochi secondi. Se si osservano, per fare esempi eclatanti, Sinner o Alcaraz, Giannelli o Egonu che guardano fisso davanti a sé, con un'intensità strana negli occhi, quello è, probabilmente, l'istante in cui stanno rivedendo tutto ciò che è accaduto nell'ultima azione, tutto ciò che avrebbero potuto fare diversamente o ciò che hanno eseguito nel modo corretto. Riavvolgono il nastro e si rispondono in modo consapevole e assertivo.
I soggetti con più esperienza, poi, attingono a questo tipo di lettura segreta durante l'azione stessa, colpo dopo colpo: proprio nel momento in cui dal dritto dell'avversario arriva la pallina a centinaia di chilometri all'ora sul rovescio della nostra racchetta, in quella frazione di tempo si elaborano soluzioni e variabili, e così per tutti gli scambi durante l'arco di partite che durano ore.
Al contrario, quello che in gergo sportivo viene definito flow, una sorta di trance agonistica dove il tempo di gioco pare dilatato e fluidificato, rappresenta la scomparsa di qualunque voce, di qualunque interferenza razionale. Atleta e gesto coincidono, mente e corpo stringono le proprie nervature attorcigliate le une alle altre. Tutto ciò che deve accadere – internamente – accade.
Sembrerebbe l'esecuzione in chiave sportiva della teoria del cinema come "soggetto pensato durante" di Cesare Zavattini. "Il senso non precede ma coincide con la messa in forma, con la messa in scena. È il soggetto stesso del film, l'argomento di cui si parla, che non è dato a priori, e che nasce piuttosto durante le riprese e il montaggio, dalla relazione tra la cinepresa e il profilmico", lo descriveva così Giorgio De Vincenti.
Il soggetto è nel varco magnetico del durante: niente prima, niente dopo, niente attorno – la realtà, in qualche modo, si piega.
Da una parte dunque, ricordare per ruminare l'accaduto, farne una tempra, una luminescenza. Tessere i fili di virtualità alternative, connesse alla realtà dei fatti, spalancando così altri mondi.
Dall'altra parte sciogliere il tempo delle interferenze, spegnere il colloquio scrosciante con il sé. Accoccolarsi nel vibrato.
Edoardo Camurri in conduzione a Pagina 3 sulle frequenze di Rai Radio3 ha letto l'incipit di un articolo di Silvio Bernelli sulla rivista online Il primo amore che sembra incastrarsi in questo discorso. "Paradossalmente," scrive Bernelli, "per lo yoga il rapporto con la memoria è così importante da prenderne le distanze. Quando siamo raccolti in noi stessi, concentrati sul momento che stiamo vivendo, meditando sul respiro o visualizzando, ciò che ci viene chiesto è soprattutto di dimenticare. Dimenticare la maleducazione di quel tizio che stamane ci ha suonato il clacson appena è scattato il verde; un rimorso che ci molesta da anni o quella persona che abbiamo amata e se n’è andata. Dimenticare le sconfitte e i successi che hanno fatto di noi le persone che siamo. Dimenticare le incombenze, gli impegni, i fatti che costituiscono la minutaglia della giornata, le telefonate, gli appuntamenti, il futuro che cerchiamo di prefigurare, dove andremo in vacanza la prossima estate, quello che faremo da vecchi. In sanscrito queste si chiamano vritti. La radice è la medesima dell’italiano “vortice”, ma il praticante yoga è abituato a tradurre più spesso questo termine come “modificazioni mentali”. In una formula, si tratta di quella massa di pensieri che come un vento perenne sferza, scuote la mente."

Nel testo viene poi menzionata la tesi dello psicologo americano Daniel Schacter che si concentra sulla memoria (proustiana) nel libro Alla ricerca della memoria: "I ricordi, come molti li immaginano, non esistono. Esistono solo infinite versioni e ricostruzioni che la memoria ci propone di un evento che abbiamo vissuto."
Cosa rammentiamo, quindi, quando ricordiamo? Secondo Schacter, un engramma. Ovvero lo scheletro di un ricordo, l’ossatura scarna dell’esperienza che abbiamo vissuto.
"Ricordare è un’azione che richiede uno sforzo immenso al cervello, incessantemente impegnato a colorare, questo ricordo, a ricostruirlo, a farcelo rivivere in modo sempre diverso. Da un lato quindi, il passato che non passa mai, trasformandosi di continuo, tiene la mente costantemente sotto sforzo. Ed ecco perché la facoltà di ricordare che nella vita di tutti i giorni è il propellente che serve ad andare avanti, nella pratica dello yoga si rivela un avversario che ci impedisce di riposare nella nostra essenza.
Dall’altro lato però, comprendere che i ricordi sono merce scivolosa, inaffidabile, ci consente anche di ridurre l’attaccamento che proviamo nei loro confronti, di identificarci un po’ meno con loro."
È così che la memoria può diventare un vortice. Leviga, sedimenta, educa, orienta, certo, ma è capace di intrappolare in zone tenebrose, allagando di fantasmi vocianti il presente.
Anche nella pratica sportiva, dunque, in quella sovraesposizione inebriante probabilmente generata dalla dopamina agonistica dello spettacolo, si ricorda e si dimentica in un'alternata danza di rasserenamento e inquietudine, controllo e abisso, utilità e malessere.
Canticchiando Ricordi tattili di Andrea Laszlo De Simone, tratta dal suo ultimo album Una lunghissima ombra, ci rammentiamo di una città invisibile.
"Al di là di sei fiumi e tre catene di montagne sorge Zora, città che chi l’ha vista una volta non può più dimenticare. Ma non perché essa lasci come altre città memorabili un’immagine fuor del comune nei ricordi. Zora ha la proprietà di restare nella memoria punto per punto, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, e delle porte e delle finestre nelle case, pur non mostrando in esse bellezze o rarità particolari. Il suo segreto è il modo in cui la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella quale non si può cambiare o spostare una sola nota. L’uomo che sa a memoria com’è fatta Zora, la notte quando non può dormire immagina di camminare per le sue vie e ricorda l’ordine in cui si succedono l’orologio di rame, la tenda a strisce del barbiere, lo zampillo dai nove schizzi, la torre di vetro dell’astronomo, la edicola del venditore di cocomeri, la statua dell’eremita e del leone, il bagno turco, il caffè all’angolo, la traversa che va al porto. Questa città che non si cancella dalla mente e come un’armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare: nomi di uomini illustri, virtù, numeri, classificazioni vegetali e minerali, date di battaglie, costellazioni, parti del discorso. Tra ogni nozione e ogni punto dell’itinerario potrà stabilire un nesso d’affinità o di contrasto che serva da richiamo istantaneo alla memoria. Cosicché gli uomini più sapienti del mondo sono quelli che sanno a mente Zora. Ma inutilmente mi sono messo in viaggio per visitare la città: obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l’ha dimenticata."
Come lucciole vive per un giorno gravitiamo in tondo, rabbrividiamo nell'esercizio storto del diffondere luce ricordando: in chiaroscuri – abitiamo questa ambivalenza, disarcioniamo le interferenze frattali, vibriamo nel presente dimenticando.
Le immagini sono di Erik Kessels “Muddy Dance”.
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