Alessandro Garigliano. Mia moglie e io

21 Gennaio 2014

Una rigida struttura (tempo determinato/tempo indeterminato), ossessiva, intermittente, tic tac scandisce la narrazione di Mia moglie e io (LiberAria 2013), il romanzo di esordio del catanese Alessandro Garigliano che non dovrebbe passare inosservato. Se l'uomo contemporaneo è fondato sul lavoro Mia moglie e io è la storia di un fallimento. Ci sono due giovani precari senza figli. Lei, insegnante, riesce in qualche modo a salvarsi andando avanti giorno dopo giorno. Lui è immobile ad eccezione dei casi in cui trova lavoro: commesso in libreria (se un codice isbn identifica univocamente un libro «anch'io agognavo gruppi di cifre che mi schedassero di fronte a chiunque»), impiegato all'ufficio di collocamento («non è l'impresa che si occupa dei funerali? Di casse da morto?», chiede qualcuno dall'altra parte del telefono, forse sbagliando numero) e infine manovale (un metodico Marcovaldo che scheda ossessivo il circostante).

 

Tra i passaggi da non-lavoro a lavoro, l'io maschile che narra (ma la voce della moglie si insinua, prima in corsivo, tra parentesi, poi lentamente fagocita) sta attuando una forma di igiene mentale per non farsi sopraffare dal suo tempo, una «retorica del metodo per non andare in frantumi»: esercitazione (il nuoto) e riduzione (limitazione di cibo, di defecazione, di comunicazione) per arrivare al nulla assoluto. Astenersi è una forma di preghiera, un po' come accade con i voti del Bodhisattva che leggiamo in Salinger: «per quanto innumerevoli siano le creature senzienti faccio voto di salvarle, per quanto inesauribili siano le passioni faccio voto di estinguerle, per quanto incommensurabili siano i dharma faccio voto di dominarli» eccetera.

 

Sotto l'apparente scrittura liscia, a grado zero, si nasconde un intarsio prezioso che modella struttura e senso: il tempo verbale inaspettato, che confonde i piani narrativi, il modo colloquiale storpiato da dislocazione aggiungono al rassicurante senso di familiarità un inquieto spaesamento; a una fitta trama di citazioni che ci fanno sentire a casa corrisponde sempre un elemento che non tiene: così  una citazione biblica raggiunge una poesia montaliana (a sua volta parodia di) e forse anche Magnolia di Anderson in «sentii solo rane cadere come uno stillicidio di lacrime». È un io crepuscolare quello che parla («l'io malconcio, imperfetto, incapace di inventarsi una vita; l'io deforme, rachitico, limitato, difettoso all'origine»), su cui aleggia nella «divina insofferenza» il senso della morte. Che è qui in due forme: i coniugi nella loro vita privata danno vita, inizialmente per gioco, a una messa in scena di omicidi; si fingono morti, come in una serie televisiva poliziesca, e in casa allestiscono meticolosamente le scene del crimine, filmandosi nell'atto di morire, che non è morire davvero ma è ricerca del piacere di vedersi morti.

 

La narrazione di questi passi raggiunge una connotazione sessuale («approfittavo di mia moglie in riposo, senza perdere tempo»; «fino a quando come un'ombra inquietante la sagoma buia di mia moglie non mi scivolava di sopra e mi avvolgeva tutto, soffocandomi. E avviavamo insieme, insieme, una felicità cieca») avvicinando la morte alla petite mort per trovare l'estrema sintesi. Il desiderio di ritorno all'infanzia muta allora in desiderio di riproduzione: «avrei tentato di non assumere più posizioni fetali ma di strutturarmi fino a diventare un uomo compiuto: un uomo capace di progettare, di mettere in scena, di dirigere persino la morte, superando ogni paura di esistere e di non essere degno». Quando la moglie racconta la storia di una sua allieva che in classe non parla, l'uomo si vede angelo e padre: «avrei voluto seguirla dotato di ali e starle sempre dietro la schiena pronta a salvarla, a evitare i pericoli. Le avrei sgombrato la strada con la mia spada, l'avrei difesa e spinta in avanti, e se anche non avesse mai detto una sola parola in tutta la vita, avrei suonato le trombe alle sue spalle per farla sentire».

 

Nella disperazione di questo libro, nell'apatia, cosa ci salva (se qualcosa ci deve salvare)? Dove tutto è vuoto, precario, insensato, dove la morte ha ragione su tutto e tutto si prende, non è facile trovare uno spiraglio, un punto di fuga. A dire il vero si ha solo una grande voglia di piangere. Ma c'è una forma di salvezza, di resistenza, di redenzione: in libreria il protagonista-commesso è costretto a usare il computer per trovare i libri; gli viene detto di ottimizzare i tempi eliminando parole per concludere la ricerca più in fretta. Eppure per lui, maestro di riduzioni votato all'annullamento di sé stesso, il compito risulta impossibile: «ero in difficoltà proprio quando avrei dovuto privarmi, nella mansione assegnatami, di ridicoli caratteruzzi». È dunque la scrittura, accozzamento di venti caratteruzzi (Galileo), lo spiraglio di Mia moglie e io, così lucido sullo stato dei senza lavoro, di quelli che vivono alla giornata, privo di luoghi comuni, spietato sulla condizione umana, cupo eppure ironico, eppure vigile, vivo, così inesorabilmente somigliante a noi?

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