Speciale
Medea: un caso di cronaca nera
Il mito ha una caratteristica intrinseca, quasi magica, mica tanto segreta: quello di essere valido in ogni tempo e in ogni luogo, insieme antico e attuale. Nel mito, passato e presente smettono di essere momenti distinti e si fondono in un’unica categoria che, pur a-temporale, esige l’idea di tempo come possibilità per attualizzarsi. Accade ogni qualvolta un episodio ne tocchi il nucleo incandescente, riportando la sua fibra allo scoperto. Così ho ripensato al mito di Medea qualche settimana fa, in relazione a una brutta storia che ha avuto una certa visibilità sui media, e che non viene a caso ora rispolverare. Anche perché non è di figlicidi che voglio parlare; né degli aspetti psicologici che determinano quel che accade nella mente di una madre quando sceglie di dare la morte alla persona a cui ha dato la vita. Mi interessa di più la curiosità che un fatto come questo suscita nell’opinione pubblica; curiosità che è – sin dai tempi della tragedia attica – un misto di fascinazione e terrore. La stessa che ci spinge a seguire la cronaca nera che imperversa (soprattutto d’estate) sui quotidiani e al tg, a leggere gialli sotto l’ombrellone o ascoltare il podcast di Indagini. È evidente, la nostra attrazione per i delitti altrui; specialmente per i più efferati e antinaturali, che sono quelli più lontani da noi, che mai ci sogneremmo neanche di pensare... Potenza della catarsi aristotelica: una purga dalle brutture della vita attraverso la sperimentazione dei due sentimenti sopra citati, tradizionalmente tradotti con “pietà e paura”, ma che vanno intesi più che altro come attrazione empatica (e se fossi io? E se succedesse a me?) e repulsione per questo istintivo pensiero, oltre che per il fatto in sé. Essere esposti alla narrazione di questi fatti avrebbe dunque un effetto curativo; come se il male del mondo se lo attirasse tutto addosso quella figura, mitica o reale, protagonista della storia; figura che, come capro espiatorio, diventa essa stessa l’incarnazione di quel male. Così è successo a Medea, una che proprio non si schioda dal mitema della madre che uccide i suoi figli.
Ricordate com’è andata? Medea fa coppia fissa con Giasone, di cui è sinceramente innamorata, o per lo meno per cui sente una sincera attrazione erotica. Giasone è l’eroe degli Argonauti, capo di quella spedizione che solcò per prima i mari e si recò nelle terre sconosciute del Caucaso, per recuperare il mitico vello d’oro. Oltre al vello, in Colchide, Giasone recupera anche Medea; e meno male per lui, perché senza di lei e i suoi incantesimi, non ce l’avrebbe mai fatta. Per Giasone, l’innamorata Medea molla patria, padre e fratello, quest’ultimo anche in malo modo: facendolo a pezzi e gettandolo in mare, per rallentare gli inseguitori. Una relazione nata non proprio sotto buoni auspici, insomma. Ma l’amore prospera, i due fanno un paio di figli e dopo alcune peripezie prendono casa a Corinto. Lì, a Giasone viene offerta la possibilità di diventare erede al trono della città; però previo sposalizio con la figlia del re Creonte. E qui inizia il casino – e qui infatti inizia anche la tragedia. Giasone, a cui la possibilità fa gola, abbandona di punto in bianco Medea. Al che lei, presa da furore orientale, con le sue arti magiche fa fuori la rivale in amore; il di lei padre Creonte; e soprattutto fa fuori i suoi figli, per punire in modo piuttosto categorico loro padre Giasone. La tragedia si chiude con Medea che, fiera, se ne parte sul suo carro volante verso altri lidi, lasciando Giasone a disperarsi nel suo dolore. Così, almeno, ce la racconta Euripide.
Ora: questa cosa di Medea che uccide i figli, che è l’evento che tutti e tutte ricordano e che marchia l’antieroina tragica per i secoli dei secoli forever and ever, sembra proprio che Euripide se la sia inventata di sana pianta. Colpo di scena! – di quelli che a Euripide piacevano tanto. Già: nelle versioni precedenti del mito, non si parla mai di Medea come una figlicida. Nel VIII secolo a. C., il poeta epico Eumelo di Corinto narra che i figli di Medea muoiono in un rituale perpetrato dalla madre con lo scopo di renderli immortali. Cose che capitano: pure a Teti non era andata tanto bene, visto che tenendo Achille per il tallone l’aveva lasciato vulnerabile. Qui invece doveva essere successo qualcosa di peggio: la pozione non aveva funzionato, o il fuoco sotto il calderone era troppo alto, non si capisce bene... Fatto sta che Medea i suoi figli non voleva ucciderli, ma proteggerli; però siccome al destino nessuno sfugge, la ricerca dell’immortalità li conduce alla morte. Invece, secondo Creofilo di Samo (la provenienza è importante: tornate qualche riga più su, a controllare da dove veniva Eumelo) sono i cittadini di Corinto a uccidere i figli di Medea, facendo poi ricadere subdolamente la colpa sulla madre. Lo Stato, dunque, che non aveva mai del tutto accettato Medea, fa morire di fame – oppure li lincia, secondo le fonti – i bambini, la cui colpa è quella di essere cittadini di seconda categoria. Forse anche questa parte del mito ci ricorda oggi qualcosa.
E dunque cosa spinge Euripide ad attribuire tutta la colpa a Medea? Voci di corridoio dicono che la città di Corinto abbia favorito la riscrittura del mito sborsando un’ingente somma di dracme al tragediografo, affinché questi lavasse l’immagine della città – ma nessuno ne ha mai avuto davvero le prove. Più probabilmente (anche se un’ipotesi non esclude l’altra) all’autore interessava costruire un personaggio memorabile, e l’infanticidio avrebbe fatto scandalo e portato una certa fama alla tragedia. Calcoli che non si rivelarono del tutto esatti, perché alle Dionisie di quell’anno, il 431 a.C., la trilogia di Euripide arrivò terza su tre in concorso. Va beh, capita anche ai migliori di non essere immediatamente capiti dal pubblico... Forse la tragedia non ebbe successo perché la città aveva già il suo mito su una madre assassina, quello di Procne, figlia di Pandione, ottavo re di Atene. O forse non destò così tanto scalpore perché in quel mondo, l’infanticidio, seppur orribile, non era ancora il più sacrilego dei delitti: più sacro del rapporto figliale era infatti quello di fratellanza e sorellanza. Antigone, nella tragedia di Sofocle, lo chiarisce molto bene, quando deve giustificare il perché di tanto affanno per seppellire Polinice: «se mi muore uno sposo, potrei averne un altro; e un altro figlio da un altro uomo, se un figlio è la perdita. Ma poiché padre e madre sono già scesi nell’Ade, un nuovo fratello non lo posso avere». Quindi il gesto di Medea andrebbe ricollocato anche in questo orizzonte. Ma a parte questi dettagli, c’è qualcos’altro che rende Medea un personaggio così detestabile. Beh, innanzitutto è una donna, e questo già di per sé non era ben visto, si sa... In secondo luogo, come già sottolineava Creofilo, Medea è una straniera. Peggio: una barbara. «Nessuna donna greca – lamenta Giasone – avrebbe mai osato tanto».

Medea a Corinto è un’immigrata. È figlia di un re, ok; ma è il re di un regno di serie B: la Colchide era una regione oltre i confini del mondo civilizzato, sull’altra sponda del Mar Nero, più o meno dove sta ora la Georgia. Un posto strano in cui, per rendere culto ai morti, i cadaveri non si inumavano, ma si lasciavano esposti di cani e augelli orrido pasto; pratica esecrabile per i Greci, ma tipica dell’Asia centrale – per esempio, dello Zoroastrismo – per cui la carne, considerata impura, non può entrare direttamente nella terra; del cadavere sono sepolte solo le ossa, dopo un’accurata operazione di purificazione che prevede l’intervento di animali saprofaghi. Insomma, in quelle terre sembra non aver attecchito la civiltà – che per i popoli di lingua greca coincide con un concetto ben preciso: “noi”. E siccome Medea è figlia di quelle terre oscure, una buona parte di oscurità se la porta dietro: è una fattucchiera che addormenta i serpenti e cura con le erbe, mostrando così una certa familiarità con il mondo ctonio. Ma è anche nipote del dio Elio, il sole, e quindi dotata di luce e chiarezza di pensiero. Nel suo nome c’è la radice √med-, da cui si forma il verbo manthano, “comprendo”, che genera anche il nome di Metis, dea della sapienza femminile – e da cui viene anche la nostra parola “medicina”, che è l’arte di guarire in virtù delle proprie conoscenze. Con le sue arti, Medea può sanare, come quando rimette in sesto Giasone ferito dal drago; o dare la morte, come quando a Iolco convince le figlie di Pelia a cuocere il padre (altra brutta storia); può rimettere a posto le cose, come quando salva Corinto dalla carestia; o farle andar male, come quando manda in malora la casa reale. È questa doppiezza, a risultare insopportabile per la società classica: i Greci vogliono trasparenza, non possono sopportare l’ambiguità. Eppure l’alterità fa parte della vita; poveri e povere coloro che non se lo ricordano, o che non sono disposti ad accettarlo...! Altro monito del mito, che si riattualizza sovente.
Quella stessa ambiguità, però, rende Medea anche una donna estremamente affascinante: Giasone è piuttosto attratto dalla sua pelle bruna e i suoi capelli crespi, portati un po’ così, disordinati... Per ciò che non conosciamo, sperimentiamo sempre un sentimento misto di repulsione e attrazione; specialmente in amore, no? Così Giasone si innamora di Medea, e lei pure si innamora del biondo straniero così diverso dai maschi Colchidi. I due si sposano con uno strano rito, non proprio legalmente valido; in ogni caso la civilissima Corinto non riconosceva i matrimoni misti tra Greci e barbari. Quello che lega Giasone e Medea è pertanto un giuramento fondato sull’accordo, sulla philia, non sul nomos, sul diritto. Perciò, quando viene abbandonata, Medea si ritrova sola non solo sentimentalmente, ma anche giuridicamente. Questo è interessante, nel contesto in cui la tragedia euripidea è messa in scena: vent’anni prima, una legge di Pericle aveva determinato che per godere del diritto di cittadinanza ad Atene bisognava avere entrambi i genitori ateniesi. E dunque, negli ultimi anni, molti uomini avevano ripudiato le proprie mogli straniere, per risposarsi con autoctone e far entrare i figli nella cornice della costituzionalità. Idem nella nostra vicenda. La storia di Medea è prima di tutto la storia di una donna privata di diritti politici che, una volta espulsa dalla sfera della legalità, si comporta di conseguenza. Così la vede, per esempio, anche Christa Wolf, nel suo romanzo poetico-teatrale Medea. Voci, del 1996. La scrittrice tedesca fa una lettura riabilitativa e femminista del mito, in cui Medea non uccide i suoi figli, ma patisce il disprezzo della società in cui vive, che le attribuisce il delitto e, attraverso una campagna diffamatoria orchestrata ad arte, fa correre la voce della sua colpevolezza. Una Medea messa in croce dai media dell’epoca, insomma; proprio come accadde alla Wolf che, attiva nella DDR, subì un certo ostracismo da parte dei colleghi intellettuali dell’Ovest dopo la riunificazione delle due Germanie.
Che il personaggio, oltre che l’interesse morboso della cronaca nera, sollevasse tutta una serie di morbose questioni politiche, era già chiaro in Euripide, che è forse, fra i tre grandi tragici, quello che meglio coglie le sfumature perverse della realpolitik dell’epoca. Medea uccide figli (maschi) che non sono solo suoi, ma anche e soprattutto di Giasone, quindi del nuovo re; e uccide pure la sua nuova sposa, figlia del re precedente: interrompe quindi la discendenza maschile della casa reale; e quindi, in qualche modo, uccide la città. Questa di far saltare l’oikos, il contesto sociale in cui è inserita, è una cosa che le è sempre riuscita bene, visto che nella sua vita di case ne ha distrutte varie, sterminando, nell’ordine: 1) suo fratello e quindi erede al trono di Colchide; 2) re Pelia a Iolco, che aveva solo figlie femmine; 3) Creonte e sua figlia Creusa, o Glauce, a Corinto – come abbiamo appena detto; 4) e una leggenda successiva sostiene che, dopo essersi risposata con Egeo, cerca di eliminare Teseo per mettere suo figlio Medo sul trono di Atene. Ah, ecco, va ricordato anche questo: la tragedia di Euripide finisce con lei che si trasferisce da Corinto ad Atene! Nel centro della democrazia e della legge, del nomos! Immaginatevi che rischio, che scandalo, per gli spettatori ateniesi, vedersi arrivare in città una serial killer recidiva, distruttrice di oikos e di nomos, e quindi di oikonomia, che è ciò che regola la vita di una società civilizzata.
Questa straniera che la città non ha saputo né voluto integrare, che è stata costretta a tornare alla sua condizione di barbara a causa di leggi ingiuste, rappresenta allora un problema enorme per la società, perché incunea nel cuore della politica la sua antitesi. È qui che Euripide fa un salto di qualità, rispetto ai suoi predecessori: non si tratta più solo della dike contro il nomos, la giustizia degli dèi antichi contro quella degli esseri umani; qui si presenta la resistenza della zoé alla bios, cioè dell’esistenza in sé al suo inquadramento nella vita culturale. Medea è l’elemento ambiguo fuori controllo, che incarna la possibilità del fallimento della politica. E questo, in una società che fonda la sua legittimazione sulla legge, in primis quella della ragione, è inaccettabile.
Chissà che l’interesse che questo mito ancora desta non risieda proprio nel fatto che viviamo oggi un’epoca in cui l’incapacità di accettare l’altro, sia esso lo straniero o la parte istintuale di noi che sacrifichiamo alla vita sociale, sta di nuovo portando la politica davanti all’evidenza di un fallimento. Ma forse questa cosa del fallimento della politica, più che essere attualità, è valida come un mito, in ogni tempo e in ogni luogo, forever and ever.
Per saperne di più
L’edizione di Marsilio, ora Feltrinelli, che raccoglie le variazioni sul mito è sempre consigliata: oltre a Euripide, ci trovate l’intransigente Seneca, il romantico Grillparzer e il poco frequentato Corrado Alvaro, la cui Lunga notte di Medea servì da spunto e stimolo a Pasolini per il suo film con la Callas (pure quello, da vedere). Il romanzo di Christa Wolf è edito da Edizioni e/o; mentre se volete addentrarvi nei meandri del mito da un punto di vista teorico, ci sono gli atti del congresso Medea. Da mito classico a mito moderno, appena pubblicati da Mimesis. Infine, in omaggio a quel genio di Bob Wilson appena scomparso, il link alla sua personale versione, nell’inquietante videoinstallazione Deafman Glance, del 1981:
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In copertina, opera © Christiane Spangsberg.
