Arles: ascoltare la fotografia
Nel suo libro più celebre, Il paesaggio sonoro (Casa Ricordi, 2023), il compositore canadese Raymond Murray Schafer, nella tensione di tradurre in linguaggio condivisibile la descrizione di un luogo percepito con le orecchie, avanza questo semplificativo schema: tonica – impronte – allarmi.
Ovunque noi ci troviamo – che sia sdraiati su un letto, in cima a un monte o sul ciglio di una strada trafficata – siamo circondati da suoni. Ci sarà un suono di fondo, che Murray definisce “tonica”, poi una serie di suoni che ascolteremo in questo momento e che solo in questa frazione di tempo fanno parte del paesaggio, le cosiddette “impronte”, infine si potranno individuare suoni che stanno ad indicare che qualcosa sta per avvenire, gli “allarmi”, conclude Murray. È un esercizio che propongo sempre a chi partecipa ai miei laboratori radiofonici e che pratico spesso anche da sola, perché mantiene in allenamento le orecchie, aumenta la capacità di ascoltare, prevede uno sforzo nel tradurre in parole ciò che sentiamo, amplifica le possibilità di comprendere uno spazio, infine radica nel qui e ora.
In questo momento mi trovo nella mia camera da letto a Roma, la tonica: l’elettrico muggito della strada dal lato sud dell’appartamento. Le impronte: rapidi e acuti stridii di pappagallini verdi intrufolati nei palmizi del cortile interno, l’ululato di una tortora, il gracchiare disordinato e croccante di una cornacchia, il gommato tonfo di una ruota (camion?), un cupo fischio di un aereo in lontananza. Allarmi: il sinistro scatenare di una saracinesca (apre il tabacchi), un grasso colpo di tosse dal piano di sopra (la vicina si alza dal letto), lo spalanco acuto e cigolante di un cancello (qualcuno entra o esce dal cortile).
Ho attraversato la 56esima edizione del festival di fotografia Les Rencontres d’Arles con le orecchie ben aperte. Anche quest’anno le esposizioni distribuite in tutta la cittadina francese, visitabili fino al 5 ottobre, sono decine, quasi cinquanta, oltre alle innumerevoli mostre fuori circuito, esposte in locali e per strada. Per ogni immagine è possibile pensare un paesaggio sonoro. Ogni fotografia possiede una voce. Un borbottio di folla in cammino, il mormorio soffocato alle luci dell’alba, un concerto squassato di clacson, un sibilo di vento, il frastuono di un cingolato in un polveroso panorama di guerra, la sorda resistenza di un generatore arrugginito. Ebbene, nell’alternanza tra fotografie “storiche” e nuovi progetti selezionati per il festival, il mio udito non faceva altro che esercitarsi in un doppio elastico esercizio: prima tendersi nello sforzo di ascoltare i minuti ronzii di vecchi paesaggi, poi all’inverso richiudersi per affrontare l’urlare doloroso dei nuovi scorci.
A l’Espace Van Gogh ho visto le donne in bianco e nero immortalate negli anni Settanta dalla newyorchese Erica Lennard, compagne di vita e di viaggi ritratte in schemi fiabeschi e languidi movimenti, una quasi ottantenne Simone de Beauvoir in posa in salotto, la stessa Lennard nell’abitacolo di un’auto immersa in un bosco. Sono scatti dai suoni di ovatta, qui si colgono i sibili degli insetti in volo, gli sfrusci di spiragli di vento tra spighe, i teneri affanni altalenanti in un delicato torace che posa nudo, mostrando i due seni perfetti. E poi, a pochi metri dalla stanza dedicata a Lennard, in uno schizofrenico gioco, ci si cala all’interno dell’Église des Trinitaires, accolti da tamburi e urli squarciati, selvatici, colmi di orrore, rabbia e tetra energia. Sono le opere di decine di artisti chiamati a raccontare la loro terra, il Brasile, fotografi e performer che si sono interrogati sulla storia brasiliana, sugli stereotipi con cui viene narrata. Qui, al centro della chiesa, le voci immaginate hanno preso corpo e suono tangibile, grazie a un breve video trasmesso in loop su uno schermo. Di fronte è stata posta una panchina, su cui a turno si sono sedute donne e bambine, anziani e ragazze, con occhi sgranati da curiosità, stupore e indecenza, per quelle immagini vive e sonore, che alternano le acrobazie a corpo libero di una drag queen sui tacchi a spillo a una performance nel mercato centrale di Belem: in scena ci sono uomini-animali intenti a sibilare, ululare, gracchiare, con sgranati occhi di satana e lingue gonfie violacee, imbustati in vestiti piumati, stracolmi di garze, balze, paillettes. Il cortometraggio si chiude con una ripresa dall’alto: un drone piomba sulle teste degli uomini-selva, fusi ormai in un’unica figura mostruosa, acido stormo di gabbiani affamati. È uno dei quattro video realizzati dall’artista di Rio de Janeiro Rafa BQueer, che ha seguito, fotografato e filmato le esibizioni del collettivo brasiliano Themonias.

Dall’Église des Trinitaires, si fa un salto e si piomba in un grottesco silenzio di spazi aperti disabitati. Ci sono le cicale nei pochi scorci estivi delle fotografie di Todd Hido, l’impercettibile affondo dei fiocchi di neve sul parabrezza in quelli invernali, c’è il fischio del vento tra siepi e guardrail e il minuto ronzio di un lampione accostato a un acerbo parcheggio, ci sono i sussurri dettati all’orecchio di una bionda signora. Poi ancora, si cammina per qualche manciata di minuti tra le strade di Arles, sino all’Ancien Collège Mistral, e si scoprono fosforescenti e gelatinosi paesaggi che suonano di cantate neomelodiche, microfoni autotune e motivetti dance, sparati a tutto volume dalle casse a bordo piscina, grida di comitive e famiglie accalcate tra gli ombrelloni, sirene spiegate di una nave da crociera che irrompe in un porto, mentre affilate unghie di plastica rosa brillante picchiettano su un bicchiere di gin tonic. Sono le immagini di Kourtney Roy, fotografa e regista canadese di stanza a Parigi, in un lavoro dedicato alle vacanze di lusso.
Infine, in un’unica esposizione si attraversa la stessa strada, all’andata ci sono suoni sommessi e bisbigliati, a ritroso malcelate urla di dolore e di angoscia. Da un lato un uomo intento a pescare in un silenzioso scatto in bianco e nero, dall’altro un enorme fuori strada parcheggiato al lato di un cartello verde subbuteo che recita la scritta “dollar tree”; da un lato l’ufficio postale di East Machias, Maine, coronato da una timida bandiera a stelle e strisce arrotolata da un filo di vento, con le sue fioriere sporgenti e una donna in chiaro abito anni ’50 e piedini calzati da graziose scarpette biancastre, dall’altro una enorme aquila che atterra su una gigante bandiera di plastica che reca a grandi caratteri, in corsivo, la scritta “faith”. È la rilettura di due fotografe, Anna Fox e Karen Knorr, della storica inchiesta per immagini di Berenice Abbott dedicata alla Route 1. Fox e Knorr hanno ripercorso la leggendaria strada che collega il Canada alla Florida. Due denunce del capitalismo e delle sue storture dal ritmo, melodia e toni totalmente diversi.

“L’architetto di oggi progetta per i sordi” scrive Murray, che oltre a essere un fine compositore è stato anche un attento ambientalista “le sue orecchie sono foderate di pancetta. E fino a che non se le sturerà a suon di esercizi di ear cleaning, l’architettura moderna andrà avanti per la sua strada”.
Per ogni urlo di dolore lanciato dagli artisti esposti a Arles, per ogni immagine di un mondo stuprato da disastri ambientali e inaccettabili disuguaglianze, ho ascoltato uno strappato lamento corale, un disperato e lancinante insieme di acuti. Se nelle fotografie scattate sul finire dello scorso millennio i mali collettivi sono raccontati attraverso le sussurrate vicende dei singoli, ora la tragedia è cantata a più voci, è sfrontata, è didascalica, non può che essere condivisa e condivisibile da ogni abitante del mondo. In effetti, a pensarci un po’ su, i racconti provenienti dai quattro angoli del pianeta racchiusi tra le strade di Arles trovano presto i loro corrispettivi a chilometro zero: di fronte ai documenti della Route 1 penso alle incessanti rivolte no Tav infiammate anche in questa estate rovente, le stanze che accolgono l’opera di Kourtney Roy mi conducono a Fiumicino, alle porte di Roma, dove il progetto per un nuovo porto turistico per navi da crociera attende l’approvazione, le urla da Belem sono le stesse di chi da questo lato dell’oceano denuncia con forza la violenza xenofoba e omofoba.

Maurizio Maggiani, che ha scattato fotografie sin da giovane, ha continuato a farlo anche quando la sua vista è seriamente peggiorata, fino a quasi la cecità. “Mi porto sempre una macchina fotografica appresso: per potere poi tenere tra le mani un bel foglio di carta lucida e spessa con dentro tutto quello che mi era sfuggito dal mondo”. Così immagino che in questo suo chinarsi sulle fotografie, possa anche percepirne meglio i suoni in essa contenuti, un tuffo immersivo nel paesaggio e nella realtà.
Per chiuderla, con un pensiero sempre rubato a Maggiani, “sono fermamente convinto che non tutto può essere scritto, non ogni cosa ha la sua voce. E ho scoperto nel tempo che neppure tutto può essere fotografato, non ogni cosa ha la sua immagine”. Eppure, prosegue, nello scrivere e nel fotografare qualcosa accade. È un movimento, aggiungo io, che ha una spinta intima, tutta interna, uno slancio che rimane tuttavia tronco e sterile se non trova una via per essere condiviso, capito, interiorizzato, di nuovo condiviso. Se non si trasforma, infine, in atto politico, nel significato più nobile del termine. Ascolto, imparo, ragiono, canto, come insegnano i grandi maestri della storia orale.
In copertina, Fotografia di Gabriele Lungarella.
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