Archivio del conflitto

10 Febbraio 2016

Muovendosi avanti e indietro nel calendario, tra l’anno che si è appena chiuso – affollato di anniversari che hanno ‘ripresentato’, reso di nuovo presenti, gli eventi-simbolo dei conflitti più immediatamente ‘mondiali’ del secolo scorso – e l’attesa delle nuove date-anniversario che di qui a poco seguiranno, il tema dell’archivio storico, dell’archivio di ciò che siamo attraverso la nostra Storia è apparso e pare più che mai attuale. Di lunga durata e centralissima dagli anni ’60-’70 in poi, la questione dell’archivio si intreccia da un lato – sulla scorta delle indagini sistematiche di Foucault – all’archeologia come catalogazione organizzata del sapere, dall’altro al discorso storico ovvero anti-storico, di costruzione cioè una narrazione fattuale ‘altra’ da quella ufficiale. Una questione, come dimostrano appunto le commemorazioni avvenute e prossime, che ancora è nodo stretto e stringente della nostra contemporaneità, sempre più sommersa dalla rete (ormai largamente informatica) di tracce, oggetti, discorsi da/di un passato più o meno lontano.

 

Nel 1972, dal cerchio di voci impegnate a discutere su questi problemi (si veda in proposito il volume Riga 14, curato da Mario Barenghi e Marco Belpoliti, da cui le cit. successive), Italo Calvino prendeva posizione in favore dello Sguardo dell’archeologo, individuando «quel che più incuriosisce e intriga in questo tipo di sapere [...] [ne]l suo espandersi orizzontale, la spinta tendenziale a render conto di tutti i modelli di rappresentazione e comunicazione [...]». Una direttrice radente di descrizione a tappeto, cui Calvino non faceva comunque mancare un contrappeso prospettico pur tra parentesi – mezzo dentro e mezzo fuori il discorso archeologico, dunque – nella speranza di un orizzonte ultimo (o primo): quell’auspicato punto di vista da cui la «mappa» dell’«atlante» possa infine valere anche da «mappa della prigione che permette di guadagnarsi una libertà» (pp. 198-199). In parallelo, Gianni Celati nel suo Il bazar archeologico argomentava che «lo sguardo moderno è uno sguardo archeologico, che coglie l’essere [...] come frammentarietà di rovine, continuo essere-stato» (pp. 202-203).

 

Chloe Dewe Mathewes, Soldat Ali ben Ahmend ben Frej ben Khelil; Soldat Hassen ben Ali ben Guerra el Amolani; Soldat Ahmed ben Mohammed el Yadjizy; Soldat Mohammed Ould Mohammed ben Ahmed time 17:00 / date 15.12.1914 Verbranden-Molen, West-Vlaanderen

 

In effetti, ripensare miratamente agli eventi traumatici del cosiddetto «secolo breve», significa confrontarsi con delle «rovine» non solo simboliche, ma propriamente reali. Concretissime, laddove siano ancora presenti i segni materiali della distruzione: si pensi ai falsi carri armati collocati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale lungo le coste francesi ancora lì visibili come grandi relitti spiaggiati. Fantasmatiche, laddove ricostruzione e smantellamento siano stati ultimati: si pensi a una città-chiave della storia novecentesca come Berlino, che offre ad ogni passo l’esperienza di una sovrapposizione di piani temporali, per cui – un esempio solo, a relativamente basso gradiente – i giovani tigli della famosa arteria Unter den Linden oggi sostituiscono e insieme rievocano e mediano il ricordo dei loro fratelli secolari abbattuti dai nazisti per ragioni pratiche di urbanistica da parate.

 

Proprio in conseguenza dello scorrere del tempo, del mutare e riassestarsi dei paesaggi, sono anzi i fantasmi delle rovine e, più in generale, del passato recente a informare sempre di più l’archeologia contemporanea e la creazione – quantomeno per via artistica – dell’archivio della memoria. Il fattore tempo cioè, intuitivamente centrale in rapporto all’argomento, costituisce il perno di sperimentazione per molte operazioni artistico-letterarie alle prese con queste problematiche. Un buon campione di strategie espressive nell’ambito specifico della fotografia è stato offerto di recente dalla mostra Conflict, Time, Photography tenutasi alla Tate Modern di Londra lo scorso anno, a cura di Simon Baker e Shoair Mavlian. In tale rassegna, come indicato già dal titolo programmatico, all’elemento temporale appunto è stata riconosciuta un’importanza cruciale nella rappresentazione di scene o luoghi di conflitto – tanto più che è proprio la fotografia a confrontarsi per statuto con il tempo e le sue frazioni. Uno dei problemi di fondo posti dai curatori della mostra può riassumersi dunque nella domanda: come può l’arte fotografica costruire memoria a posteriori rispetto a un evento, ricordarlo, ripensarlo, una volta che l’istante stesso dell’accadere sia passato, addirittura lontano un centinaio di anni? Il quesito teorico trova nelle opere di numerosi artisti contemporanei risposte pregnanti, in cui le rappresentazioni, concettualmente e operativamente anche molto diverse tra loro, sono spesso alle prese – vuoi per esplicito confronto, vuoi per contestazione – con l’archivio stesso come istituzione (nella particolarità di ciascun ente concreto).

 

Tra le soluzioni più suggestive, si pone la serie Shot at Dawn (2014) di Chloe Dewe Mathews, incentrata sulle esecuzioni britanniche dei disertori sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale. Soggetti veri e propri degli scatti – ciò che si vede – sono tuttavia gli scenari delle esecuzioni stesse: i luoghi – individuati attraverso complesse ricerche d’archivio (sul punto piuttosto manchevoli) e soprattutto di storia locale – colti nell’ora e nel giorno esatti dell’evento. Tutti questi elementi sono forniti, insieme al nome della vittima, dal singolo titolo, che solo permette quindi di leggere appieno l’immagine altrimenti puramente paesaggistica.

 

In questo modo da un lato è messa in scena una «sovrimpressione» di tempi, sintesi di due istanti insieme corrispondenti e distanziati nel tempo. Dall’altro lato, come si esprime Shoair Mavlian nel suo saggio di commento The Modern Archive of Conflict (nel catalogo della mostra, a p. 211): « Nel lavoro della Mathews il conflitto [...] è non solo il soggetto che manca, ma la stessa sostanza che lo sostituisce, o come suggerirebbe il teorico Roland Barthes, il noema - la cosa che 'è stata». Il nocciolo dell’opera è quindi il conflitto non solo sul piano contenutistico della rappresentazione, ma soprattutto del metadiscorso (conflitto tra tempi, tra ciò che il fruitore vede e ciò che mentalmente deve sovrapporre all’immagine). Non a caso cade qui il nome di Roland Barthes, che nel celeberrimo saggio La chambre claire individuava la più sofisticata attrazione (il punctum «d’intensità») dell’immagine fotografica proprio nel «Tempo, nell’enfasi straziante del noema [...], la sua raffigurazione pura» (trad. it. Einaudi, Torino 1980, p. 95). Nel caso delle immagini di Dewe Mathews il punctum sta dunque nella tensione creata dall’intero sistema concetto-immagine-titolo, nella congiunzione tra due istanti di «è stato», pendendo anzi soprattutto sul fantasma mentale dell’evento rievocato.

 

Questa e altre operazioni simili – alla cui complessità contribuiscono anche ulteriori aspetti: ad esempio, la tensione tra storia umana doppiamente cancellata (dalla morte e poi dal generale oblio istituzionale) e storia naturale dei paesaggi ritratti, un tema comune a diversi lavori di ‘memorialistica fotografica’ – si reggono con tutta evidenza su una narratività potenziata, quasi fosse immesso nel campo del mezzo artistico fotografico un principio propriamente letterario.

 

E in effetti, opere come queste ben si lasciano confrontare – per un’analisi comparativa di tecniche retoriche – con antecedenti esperimenti letterari degli ultimi decenni. Vien da pensare ai versi di Andrea Zanzotto, uno dei più complessi poeti contemporanei, che alle Sovrimpressioni ha dedicato una sua raccolta del 2001. Lì in particolare il testo – dal titolo appunto programma – di Diplopie, sovrimpressioni (1945-1995) può essere letto come una sorta di equivalente, se non anticipatore, verbale delle istantanee di Shot at Dawn, in memoria di altra guerra (la seconda mondiale) e di altri morti (i partigiani, i resistenti delle sue terre venete) ma in una prospettiva al contempo universale (nella Nota d’autore, Zanzotto parla di «Martiri contro ogni tirannide palese o nascosta, presente o futura»):

 

Sempre un po’ storto e stonato

in ritardo entro le vostre azioni,

Martiri, ovunque vi leggo nel tremolio

dei globi di pappi perennemente intenti

a scomparire nascere ridire

                        ridire di prato in prato

                        a raso dell’oblio.

 

(str. II, vv. 1-7, in A. Zanzotto, Tutte le poesie, a c. di S. Dal Bianco, Mondadori, Milano 2011, pp. 861-862)

 

E del resto già un paio di decenni prima Zanzotto si era concentrato sulle macerie umane dei caduti del Montello durante la prima guerra mondiale, producendo quella grandiosa opera ‘sovrimpressiva’ che è il Galateo in Bosco (1978).

 

Ma così anche Giovanni Raboni ha sperimentato la «sovrimpressione» storico-memoriale, calcando sul pedale di una narrazione poetica che giochi fra linearità cronologico-evenemenziale e crasi temporale. Così è costruita ad esempio la prosa d’apertura (risalente al 1984) dei Versi guerrieri e amorosi (1990), ma anche una poesia come la seguente, tratta dal volume più tardo Barlumi di storia (2002), che appunto con tempo e storia fa i conti.

 

Dentro il tardo crepuscolo

delle nove e tre quarti del mattino

in attesa che il semaforo scivoli

dall’impossibile al possibile

come se niente fosse già avvenuto

appena più in là di un’edicola

che da almeno trent’anni non c’è più

ancora recalcitra, ancora

disperato ma incredulo s’interroga

su come cavarsela il cuore

se grondanti d’inchiostro

nel buio d’ottobre all’incrocio

tra via Pisani e viale Tunisia

i carri armati addentano l’asfalto.

 

(in G. Raboni, L’opera poetica, a c. e con un saggio introd. di R. Zucco, e uno scritto di A. Zanzotto, Mondadori («I Meridiani»), Milano 2006, p. 1244)

 

E in fondo così continua ad essere. Nel processo di organizzazione archeologica del nostro «atlante» storico e dell’esperienza, dove la rovina e il trauma ricordati ridiventano un presente, il «cuore» non smette di «interrog[arsi] / su come cavarsela», continuando a sperare che nella «mappa» memoriale di ciò che siamo stia la finale «libertà» di un possibile senso.

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