Diseguaglianze dell'esistenza

23 Giugno 2014

È sovrappeso. Parecchio. E potrebbe bastare questo elemento a determinare il livello di compassione che una persona come Ada può aspettarsi. Perché la combinazione di chili in più e benefits proprio non funziona. Come se quei chili stessero lì a rappresentare un’ingordigia incontrollabile: non (solo) verso il cibo, ma verso tutto quanto c’è che lo stato può elargire.

 

E se i chili di troppo non bastassero a suscitare una certa disapprovazione, ha l’aria discinta. Non discinta e sottomessa, come chi non ha più la forza di curarsi delle proprie apparenze, ma discinta e sgargiante (jeans verdi attillati sgarrati nei punti giusti, maglietta viola che lascia intravedere spalle e reggiseno, capelli di un rosso che solo una tintura naturale mal applicata può regalare). Le piace, ad Ada, essere appariscente. Mentre chi riceve benefits farebbe meglio a sembrare un po’ più dimesso.

 

C’è di più. Non riesce a contenere le parole, che le escono fuori dalla bocca caotiche e insensate, così come non riesce a manovrare il passeggino – di quelli doppi, due bambini uno sopra l’altro. E quelle stesse parole che non riesce a contenere, dicono poco o niente: perché Ada sta facendo una gran fatica a esporre e nascondere al tempo stesso. Goffa, straripante, ingombrante, rumorosa. E per di più non inglese ma polacca. Il prototipo del personaggio on benefits da detestare.

 

Non è così che si vede lei. Piuttosto si sente imperiosa, determinata, decisa, fiera. Ed è così che fa la sua drammatica entrata nella stanza dove la ricevo. E non riesco a non chiedermi quanto le sarebbe riuscita bene questa entrata in scena, se non fosse che la ricevo in uno dei cubicoli dove normalmente vediamo i clienti, così piccoli e bui che il passeggino ci entra a stento.

 

Date le circostanze, l’entrata drammatica le riesce piuttosto bene. Non si è ancora seduta che mi comunica che è qui per avere assistenza legale al fine di togliere al padre dei suoi figli ogni diritto nei loro confronti. Le chiedo se con questo padre sono sposati. “No e non abbiamo mai vissuto assieme.” Le chiedo se il padre ha riconosciuto i figli al momento della nascita. “Sì.” Allora, le spiego, ha “parental responsiblity” (simile all’italiana ‘autorità genitoriale’) e questa comporta doveri e diritti nei confronti dei figli, che vengono difficilmente tolti a un genitore.

 

Mi guarda con disdegno. “Non voglio che abbia niente a che fare con i miei figli. Voglio un avvocato.” Le spiego che dallo scorso aprile non c’è più assistenza legale gratuita per questioni di diritto di famiglia. Se vuole un avvocato, dovrà pagarlo. Non mi crede. È ‘on benefits’, mi dice. Non può permetterselo. Mi dispiace, ma le cose stanno così. È incredula, ma non perché stupida di fronte all’ingiustizia portata da questo cambiamento, ma perché pensa che io sia una completa cretina che non sa di cosa stia parlando. Ribadisce. Ho tre figli, non posso permettermelo. Tre? Con lei ci sono due bimbi, uno di 5 mesi che dorme tranquillo nel passeggino e una deliziosa bimba di due anni che si aggira per la stanza a curiosare. Il terzo ha 15 anni, di un altro padre. E questo avrebbe preferito non dirmelo.

 

Mi ripeto. Quello che le posso offrire è una lista di avvocati che offrono una prima consultazione gratis. Spero che almeno loro la possono convincere del fatto che togliere ‘parental responsibilty’ a un genitore è cosa difficile. Mi guarda con disprezzo e con una certa insofferenza, e continua: “non mi rispetta, mi tratta male. Non voglio che veda i miei figli”. Insisto. La ‘parental responsibilty’ riguarda il rapporto tra il genitore e i figli – che poi i genitori non si sopportino tra loro non importa. “Ma lui parla male di me ai bambini”, insiste. Continuo. Spesso persino in situazioni di violenza domestica, dove il padre picchiava la madre, quel padre continua ad avere il diritto di vedere i propri figli: magari solo se supervisionato, magari solo poche ore ogni settimana. “Ma se lui se li porta via? Mi dice che li porterà via, se li porterà a casa sua, in Pakistan”. Forse per questo, sono d’accordo, potrebbe servirle un avvocato. “No se, come dice lei, lo devo pagare!” mi risponde.

 

Come un registratore rotto, continuo a ripetere la stessa frase, la solita litania. Legal aid non esiste più, se non in casi di violenza domestica. Alza la testa e mi guarda. Allora si tratta di violenza domestica. “Lui mi insulta, mi dice che mi toglierà i miei figli, mi minaccia.” Di nuovo, la devo deludere. Lo standard di quello che costituisce violenza domestica è molto alto, le dico. Ci vuole che siano stati coinvolti polizia, medici. Non è il suo caso.

 

Ma qualsiasi cosa io dico, lei mi guarda sdegnosa e non mi crede. E, più io insisto che le regole sono quello che sono, che la legge dice quello che dice, più quello sguardo diventa sprezzante e irritato. Ma quello che irrita Ada non è il fatto che le sue opzioni siano state drasticamente ridotte, che i suoi diritti siano in pericolo solo perché è più povera di altri. Quello che non può sopportare è che io, di fronte al racconto delle sue disgrazie, della sua esistenza – straordinaria, epica, drammatica – risponda banalizzando tutto con regole e leggi. Mentre io sono furiosa perché penso che la legge non è più uguale per tutti (l’ex di Ada avrà un avvocato, se lo può permettere; Ada no, è povera), lei è furiosa perché non voglio riconoscere l’unicità della sua esistenza.

Sarà quel che sarà, ma lei si merita di più di quello che io le sto offrendo. E se non lo capisco è perché sono un’emerita cretina.

 

L’uscita di scena è teatrale quanto l’entrata. Ada si alza, prende la bimba grande e la mette nel passeggino, spalanca la porta e sventolando il foglio con la lista di possibili avvocati che le ho dato se ne va dicendo “ah, sicuro che trovo qualcuno che mi difenda gratis contro questo orrore!”.

 

 

Da 5 anni Dorothea Brooke lavora in una delle 3.300 sedi del Citizens Advice Bureau (CAB) sparse per tutta l'Inghilterra. Nato nel 1939 per offrire ai cittadini informazione e aiuto in tempo di guerra e cresciuto e sviluppatosi lungo tutto il dopoguerra insieme alla storia del Welfare State britannico, oggi il CAB continua ad offrire assistenza e informazioni gratuite a chiunque le cerchi, quale che sia il problema: lavorativo, economico, legale, familiare. Solo nel 2013, il CAB ha aiutato a risolvere 6.6 milioni di problemi a 2.1 milioni di persone. Questi problemi e le storie delle persone che li presentano, sono alla base delle campagne del CAB per cambiare politiche e legislazione, e offrono uno spaccato della vita di una societa' in crisi nelle sue strutture e anche nei suoi valori. Sono casi umani e burocratici che ci raccontano qualcosa dell'Europa di oggi. L'assistenza offerta e' confidenziale e a questo scopo tutti i nomi sono stati cambiati.

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