Whiteout

4 Novembre 2011

Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Davide Sapienza, La musica della neve, per le edizioni Ediciclo. Un viaggio dalle Alpi all’Artico con la neve come protagonista. Sulle tracce di Jack London, Fridtjof Nansen (di cui ha curato, La spedizione della Fram e Nel Cuore della Groenlandia) e Knud Rasmussen, Davide Sapienza non meno esperto viaggiatore, racconta con il silenzio della neve il tempo dell’uomo; nella natura più estrema sempre alla ricerca di uno spazio vitale per il corpo come per l’anima.

Io amo le mappe: con loro trascorro molto tempo a immaginare e ovviamente la tecnologia satellitare sembrerebbe toglierci il gusto della sorpresa. Ma non credete a questo assunto. Anche la prospettiva di una mappa può essere ingannevole, quando siamo nel viaggio di neve e di ghiaccio. Essa crea aspettative e la materia bianca le sottopone all’azione delle variazioni. È l’occhio umano poi a decifrarle sul campo, perché le mappe, per citare Barry Lopez, sono «la proiezione del desiderio che lo spazio possa essere bene organizzato». Ciò è anche più vero di fronte alla tabula rasa che un territorio innevato ci sottopone e dove la luce, le facoltà di orientamento, il desiderio di esplorare, si danno appuntamento.

Ora immaginiamo di affrontare la neve con una mappa, consapevoli che quella preziosa creazione umana potrebbe non bastare. Poiché la nostra dimensione fisica deve trovare una corrente vitale nella quale procedere di fronte alla potenza del bianco in mutamento, dobbiamo sempre ricordare che dove tutto sembra immutabile qualcosa accade di continuo. È la pochezza della mia dimensione corporea rispetto a quella della terra a darmi un’idea di forza e del fluire bianco.

È in questa dimensione personale che trovo il whiteout, fenomeno particolare che ho sempre considerato inestricabilmente legato al discorso fatto sopra, come espressione massima dello spaesamento e del cambio di prospettiva che la natura impone. Quando ascolto la musica di un film come La sottile linea rossa di Terence Malick, oppure The Plateaux of Mirrors di Harold Budd e Brian Eno, mi sento più vicino al mistero della neve e con quella musica spesso mi sono lasciato avvolgere da questo straniamento invincibile, anche per scrivere. Non posso raccontare la musica della mia neve senza raccontare il whiteout, perché chiunque lo abbia vissuto sa cosa significhi ritrovarsi all’improvviso in questo universo parallelo. Se riesci a comprendere che potrebbe arrivare, puoi prevedere come comportarti con una serie di gesti automatici, che nella neve sono necessari più che in altre situazioni. Prima ripercorri i segnavia mentali, i punti di riferimento offerti dalla terra bianca che stai attraversando, poi ti affidi al presente.

Una mattina in Norvegia, durante la traversata del Dovrefjell con gli ski in inverno, io e l’amico Eirik fummo colti dal whiteout nel corso della tappa più lunga e impegnativa, anche a causa della diffusa assenza di punti di riferimento. Eravamo davvero nel grande bianco e le ondulazioni del terreno che disegnavano i vaghi confini di quella vastità erano più spaesanti della nebbia. Nonostante Eirik avesse dimestichezza con quel territorio, prima di ritrovare l’immensa distesa dopo il whiteout eravamo già finiti addosso a una piccola cima rocciosa dalla quale ci districammo solo togliendo gli ski, costretti a cercare una discesa tra le rocce con gli zaini pesanti e una sete indimenticabile.

Il whiteout era talmente pregno di bianco che non appena mi giravo le tracce erano già misteriosamente sparite. La neve non era altissima e le tracce dovevano restare come riferimento nel caso avessimo dovuto tornare indietro e attendere una schiarita. Il vento le cancellava, perché quel whiteout era un blizzard di neve sollevata da terra e di nebbia, che si erano incontrate in una terra bianca e lottavano per avere l’una il sopravvento sull’altra. Noi eravamo proprio lì nel cuore della lotta bianca. Ci vollero quattro ore per uscirne e per ritrovare la rotta verso la snøhetta, la baita di legno che era la nostra meta. Questo è solo un episodio: ma quando la collezione si arricchisce comprendi sempre meglio che il whiteout è un universo che si accetta come parte di una relazione continua con la neve e le sue regole.



In montagna i riferimenti sono più espliciti e delineati – il che non elimina il problema: quando il whiteout viene, non vedi più. A malapena puoi credere che la materia bianca sotto gli ski possa subire in tale misura l’effetto di un microclima temporaneo. In terreno aperto ciò è assolutamente spiazzante perché dopo che l’occhio registra con fatica alcuni punti di riferimento, dove le distanze sono difficili da calcolare, dentro il whiteout ti chiedi: ci sono entrato io, oppure è arrivato lui? Impossibile dirlo. Ci sei dentro e basta. E lì i colori non hanno più cittadinanza, l’occhio si ritrae impaurito, il corpo vaga in se stesso, senza direzione, orfano del suo cammino.

Il whiteout è figlio di situazioni diverse: può venire perché il cielo è coperto, puoi essere entrato tu in una nuvola o magari è calata la nebbia che stava viaggiando attraverso il territorio o tra le rocce. Cosa accade di così potente in questo spazio da sovvertire la percezione spaziotemporale? La luce che viaggia in una direzione e con una certa angolazione ha la stessa forza della luce che viaggia con qualunque angolatura e in qualsiasi altra direzione. Lo stato delle cose nel whiteout è piuttosto indecifrabile: non solo fuori tutto è bianco – lo è anche dentro. Sei fermo in attesa di qualcosa e ti senti dipinto da questa variazione del territorio, ti senti penetrato, afferrato e spaesato.

Dove prima il bianco era un insieme di tonalità che aggiungeva o sottraeva dimensione alla morfologia della terra bianca, adesso è solo assenza e dunque questo bianco è come l’oscurità: fuori c’è il mondo e tu sei dentro l’oscurità bianca. Si deve ricalcolare la rotta, la neve sembra sfuggire sotto i passi e anche quando ho la certezza di essere su una distesa uniforme, ci sono attimi in cui ho la sensazione che stia per aprirsi e inghiottirmi. Sarà per questo che spesso provo nausea e ho problemi di equilibrio, come se fluttuassi tra un vuoto d’aria e un altro; sarà per questo che il whiteout ricorda il Maelström, il gorgo provocato dalla marea lungo la costa atlantica della Norvegia che tanto ha ispirato gli scrittori (Una discesa nel Maelström pubblicato nel 1841 da Edgar Allan Poe ne è esempio superbo).

In questo universo parallelo, quasi sempre posso solo stare fermo o procedere con estrema cautela. Quando vieni catturato da questa repentina variazione della natura, capisci che se il whiteout ti impedisce di vedere il mondo intorno, sei costretto a guardarti dentro, lì dove è più infinito di tutti gli oceani e il viaggio non ha mai fine, poiché è lì dentro che si nasconde la risposta per compiere i passi giusti, uscire da te stesso e tornare alla luce.



Quel giorno, io e Eirik eravamo in una bianca terra di mezzo dove nulla era ciò che sembrava. Inoltre ci trovavamo sempre al suo centro perché non potendo misurare il bianco fuori da noi, la mente cercava di aggrapparsi all’unica realtà possibile – la neve. Ma sulla neve, dove ogni cosa era sottosopra, ogni dentro era fuori e ogni fuori era dentro. Come fantasmi ci muovevamo su quella neve nell’ostinato bianco che ci stava plasmando. Non eravamo più neanche ombre sul plateau del Dovrefjell e la nostra unica realtà – l’unica cosa che ci assicurava di essere sulla Terra – era la neve. Tastavo il terreno imbiancato con il bastoncino e sentivo la profondità che mi avvolgeva. Il biancore sembrava un liquido pronto a invadere ogni cosa – lo zaino e tutto ciò che di prezioso esso contiene – ma ciò che più contava era la traccia sottoposta alla metamorfosi dal whiteout, ormai poco più di un’ipotesi. Era tutto un desiderio di luce, che in quell’universo parallelo non viaggia più e finisce in una terribile bonaccia.

Io dico che il whiteout è forse il genius loci della neve. Melville scrisse: «Non è su nessuna mappa, i veri luoghi non lo sono mai» e questa frase meravigliosa sembra descrivere perfettamente le coordinate inesistenti del whiteout. E sono anche convinto che ciò spieghi perché lo stomaco va in subbuglio: nel whiteout si vive il temporaneo passaggio dallo stato corporeo a quello incorporeo. La nausea è il segno che siamo gravidi di cambiamento, messi di fronte a una visione imprevista di noi stessi.

Se vado con la mente a tanti whiteout che ho vissuto, quando il cammino si ferma il centro è il luogo della neve che sta sotto gli ski. Se preparo l’attesa con gesti lenti e cauti, mi sento sereno. Il whiteout dell’uomo con gli ski è la bonaccia di chi solca gli oceani. Ancora Melville, dal romanzo Mardi del 1849: «Per un uomo di terra la bonaccia non è uno scherzo. Non soltanto rivoluziona il suo stomaco, gli sconvolge anche la mente e lo induce a rinnegare la sua fede nell’eterna stabilità delle cose. In un primo momento è stupito, dato che non ha mai immaginato una condizione di esistenza in cui l’esistenza stessa è come sospesa. Si scuote addosso l’abito per sentire se dentro c’è il proprio corpo. Chiude gli occhi per sperimentare la concretezza di quella vitrea immensità. Tira un profondo respiro – un altro esperimento – per vedere che cosa succede. L’inerzia della bonaccia è spaventosa: se la sente dentro e si prolunga come una specie di involontario mormorìo interno. Ma più di ogni altra cosa, c’è la coscienza dell’assoluto abbandono. Non c’è aiuto. Non c’è comprensione».

Nella neve penso al mare perché ho sempre l’illusione di essere irraggiungibile e anche se capita la bonaccia bianca, ebbene, che essa sia. Stare con la materia bianca è attraversare la terra che la ospita e nel farlo, i sensi vengono catturati e la mente sedata.

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