Orgoglio zapatista nel Chiapas messicano

24 Maggio 2025

Emiliano Zapata (1879-1919), Augusto Cesar Sandino (1895-1934), Ernesto Che Guevara (1929-1967), tre figure leggendarie che nell’immaginario collettivo occidentale rappresentano l’estremo sacrificio per la libertà dei popoli latinoamericani. Si dovrà attendere il 1994, con l’apparizione sulla scena politica del messicano Subcomandante Marcos, il cui vero nome è Rafael Sebastián Guillén Vicente (1957), per completare un ritratto novecentesco delle tensioni e delle speranze rivoluzionarie di un intero continente. Se la tragica morte alimenta il mito attraverso l’elaborazione del lutto, così consustanziale alla sinistra, Marcos è vivo quanto lo è oggi il Movimento Zapatista e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) da lui stesso fondato nel 1983. Quando undici anni più tardi avvenne il cosiddetto Levantamiento social, fu messa in atto una vera rivoluzione che aveva tra i suoi fini quella della liberazione dell’intero popolo messicano. I compañeros incappucciati dell’EZLN tentarono la conquista di cinque città dello stato del Chiapas, Ocosingo, Las Margaritas, Comitán, Altamirano e San Cristóbal de Las Casas, capitale culturale del Chiapas, fondata nel 1528 dal conquistador spagnolo Diego de Mazariegos, ma in pochi giorni vennero respinti dalle forze governative. In compenso, nel ritirarsi verso le regioni interne gli zapatisti conquistarono numerosi comuni rurali in cui si sommano ben 700.000 ettari di terra strappata al dominio di quattro potenti facenderos. La rivoluzione, al grido di Ya basta! era incominciata. Mai conclusasi, in realtà. Rivoluzione permanente, quindi, ma non nell’accezione trotzkista, ma piuttosto campesina, nel nome di tierra y libertad. L’ombra lunga fissata da Emiliano Zapata (1879-1919) nella prima rivoluzione novecentesca del Sudamerica, è il fil rouge che salda il passato con il presente in un lungo e accidentato percorso di lotta per la difesa del diritto alla vita, alla terra, alla speranza.

A San Cristóbal, città che ha conservato intatta la propria fisionomia architettonica coloniale, al pari di Antigua in Guatemala o di Cartagena in Colombia. Sebbene il vasto barrio historico di San Cristóbal de Las Casas abbia conservato la propria integrità architettonica e urbanistica, non è purtroppo sfuggito ad un inevitabile processo di gentrificazione, che si è concentrato sui numerosi palazzi storici un tempo appartenuti alle famiglie più facoltose.

k

In un caffè letterario del barrio historico incontriamo Diana Itzu Gutiérrez Luna, membro attivo del Movimento Zapatista, sociologa all’Università del Sudeste, la quale ci accoglie con affabilità e insieme determinazione. Attivista per i diritti delle donne maya del Chiapas, Diana ha inoltre, curato nel 2025 la pubblicazione del volume Zapatismo/Ezln. Antologías de la Dignidad Textos de 1994-2021 di Gustavo Esteva, un intellettuale messicano indipendente, autore, tra gli altri, di Crónica del fin de una era, el secreto del Ezln, 1994. Essa è al corrente del nostro progetto di un film documentario sullo zapatismo e proprio per questo è felice di aiutarci, partecipando in prima persona al film stesso. La sua visione del Movimento è quella di chi conserva dopo trentun’anni di lotta una incrollabile fiducia, innanzitutto nei principi fondativi dello zapatismo e nella loro applicazione pratica che non ha escluso, nel corso della storia, la fase dell’autocritica, nel 2023, ci spiega Diana, quando l’eccessiva verticalizzazione della struttura organizzativa impediva la giusta distribuzione dei poteri secondo il principio della democrazia partecipativa dal basso. Su questi fondamenti è possibile, quindi, comprendere la vocazione anti-statale, anti-capitalista e anti-liberale. Un passaggio fondamentale è avvenuto in seno al Movimento zapatista, quello dall’ideologia marxista-leninista della rivoluzione armata, con funzione di sovvertimento dell’ordine e del sistema vigente, al radicamento territoriale in difesa della “madre terra”, della collettivizzazione delle sue risorse e dei suoi confini. Con la sua microstruttura statuale formata dai cosiddetti Caracoles e dai Municipi Autonomi Ribelli Zapatisti (MAREZ) che vanno a costituire i Centri di Resistenza Autonoma e Ribellione Zapatista (CRAREZ), esso si pone come un corpo estraneo (sano) che non dialoga con il corpo (malato) della nazione messicana. Lo aveva fatto in passato il Sub-comandante Marcos, anche avvalendosi della sua forza mediatica, (con grande risonanza anche in Europa), tuttavia con risultati assai deludenti come ad esempio, talune promesse fatte dal governo mai mantenute. Con la guida del sub-comandante Moise, un uomo di origine tzotzil, il paradigma nazionale si sposta su un asse territoriale, pur mantenendo intatti i principi dell’autogestione collettiva e la vocazione anti-capitalista, un sistema educativo, sanitario, così come quello di giustizia ed economico, completamente autonomi.

Si può dire, allora, con parole nostre, che lo zapatismo sia un microcosmo rivoluzionario (il caracol) dentro un macrocosmo (stato e governo messicani) capitalista neo-liberale. Esperienza politica unica nel continente latinoamericano, si configura come una rivoluzione in atto in cui un potere non ne sostituisce un altro dal momento che l’idea stessa di potere viene, per così dire, frantumata in piccole autorità locali tra loro coordinate rispetto a un progetto comune. Al contrario le rivoluzioni comuniste, non solo in Latinoamerica, hanno dimostrato la propria forza e vitalità soprattutto nel momento in cui esse avvenivano, motivo che le rese storicamente necessarie, non quando subentravano e logiche di un potere verticistico, ancorché autoritario.

j

Cideci

In compagnia di Diana varchiamo la soglia della vasta area del Cideci/Universidad de la Tierra (Centro Indigena de Capacitación Integral), situata nel barrio popolare di Periferia Este; secondo Diana “un utero di contenzione in mezzo alla guerra”. Fino a pochissimi mesi fa era il Caracol urbano di San Cristóbal, espressione fisica ma anche simbolica dell’organizzazione zapatista, ma in seguito ai ripetuti attacchi dei paramilitari e degli anti-zapatisti dei barrios più estremi, l’Ezln, per non mettere a repentaglio le molteplici attività che in esso si svolgono, ha preferito ritirarsi all’interno degli altipiani. Resta tuttavia fermo nella guida di uno dei luoghi più straordinari del mondo zapatista, l’ormai famoso dottor Raymundo Sánchez Barraza. Una figura minuta, barba grigia e davvero poche parole, talora piuttosto allusive, un modo per alimentare il proprio carisma sulla comunità zapatista. Ideatore dell’Unitierra o Universidad de la Tierra, ha fatto di questo luogo senza eguali, circondato da una vera e propria foresta urbana, il proprio ritiro spirituale. Sono note a tutti, infatti, le origini religiose dei suoi studi romani, ma altresì la sua incrollabile fede nello zapatismo. Nei molti, ariosi laboratori, ciascuno contrassegnato da un colore diverso – giallo per l’artigianato, azzurro per le arti, arancione per l’alimentazione e la salute, verde per la spiritualità – pensati per sviluppare la conoscenza e l’apprendimento nelle diverse discipline, è manifesta la volontà di educare i giovani insegnando loro una professione, sia essa artistica, manuale o artigianale. In quello dedicato alla musica, disposto su due piani, giovani donne imparano il pianoforte mentre due giovani eseguono brani alla chitarra. C’è chi costruisce strumenti musicali, chi si occupa di tipografia e chi invece studia filosofia e teologia oppure impara ad impastare il mais per fare il pane oppure a tessere con strumenti moderni. La bellezza invade ogni spazio attraverso una musica soave che può essere il Magnificat di Bach o un concerto di Mozart; nella mente del dottor Raymundo la musica affinerebbe l’animo durante le ore di lavoro alleggerendone il peso. È la lezione dal basso dei lavoratori neri del cotone o la visione eurocentrica della “grande musica”? Giovani provenienti da famiglie povere di San Cristóbal o di altri paesi, molti dei quali analfabeti, qui imparano a leggere e a scrivere, rimanendovi ad esempio anche un intero anno, ma anche come affrontare la vita confrontandosi con gli altri in un rispetto reciproco. Luogo in cui l’utopia diventa realtà. Tutt’intorno si respira un’aria serena e di pace quasi ci trovassimo lontano da un mondo di ingiustizia e di violenza. Luogo, tuttavia, che come ogni altro al mondo, può essere tranquillamente violato come un atto di stupro con la violenza delle armi e la legittimità dello stato.

Acteal

Ci mettiamo in viaggio presto al mattino per raggiungere con un carrito il villaggio di Acteal, immerso negli altopiani del Chiapas dove esistono diversi nuclei retti dal governo autonomo zapatista, perlopiù di campesinos che vivono di un’economia di sopravvivenza basata sullo sfruttamento della terra (Milpa) per il proprio fabbisogno. Tre ore trascorse su strade sconnesse o piene di rallentatori, ma entro un paesaggio alto, arioso e insieme solenne. Come per altre comunità situate lungo dei dirupi, è necessario lasciare la strada asfaltata e scendere lungo una scalinata da cui è possibile notare una piccola chiesa posta al centro di un vasto spazio in terra battuta. Colpisce la facciata dipinta con le figure di un sacerdote e di un catechista, entrambi vittime, in tempi diversi, della furia omicida del gruppo paramilitare PRI di Chenalhó e del gruppo Mascara Roja. Il catechista era il padre di Guadalupe Vázquez Luna, per tutti Lupita, colei che, ancora bambina, una domenica dell’anno 1997, un giorno come tanti altri, vide con i propri occhi materializzarsi la più terribile delle tragedie. Ciò che per la gente del Chiapas fu la strage di Acteal, per Lupita fu la perdita di nove persone della sua famiglia, tra cui i genitori. Oggi è attivamente impegnata sul versante dei diritti delle donne, prima donna ad essere eletta al Consiglio Nazionale Indigeno del Messico, prima a ricevere il bastone del comando dell’organizzazione “Las Abejas de Acteal”. La vediamo seduta su una sedia nell’umile atto di ricamare una tovaglia. È contenta di vederci, di poter rievocare per noi, viaggiatori stranieri del “primo mondo”, il dolore provato quel tragico 22 dicembre, in cui 45 persone, tra cui molti bambini, vennero trucidate freddamente all’interno della chiesa che oggi è scomparsa per fare posto a quella attuale, ma lo fa con grande dignità, a stento trattenendo le lacrime. Quando, in silenzio, Lupita , ci guida sotto le fondamenta di una specie di auditorium coperto affacciato su un paesaggio dalla bellezza che commuove, mi sembra di avvertire come un senso di oppressione che diventa palpabile non appena scopriamo di trovarci nel cimitero delle vittime di Acteal. Un’aria umida e soffocante ci investe nel mentre osserviamo le fotografie di quei volti, uno dopo l’altro, partendo da quelli dei genitori di Lupita e poi tutti gli altri fino al più totale sconforto. Ho pensato allora, che quel villaggio immerso nella bellezza dell’altipiano trae la sua forza e la sua dignità dalla memoria del sangue delle sue vittime innocenti.     

j


Intermezzo: San Juan Chamula Zinacantán San Andres

San Juan Chamula, un villaggio maya a poco meno di un’ora dalla città, dove non si parla spagnolo ma la lingua tzotzil, e dove le donne vestono gonne di lana di pecora nera e le case sono fatte di fango, noto per il suo variopinto mercato e per l’antica chiesa parrocchiale di San Juan, al cui interno ogni giorno si celebra un rito assai singolare: lo spazio è gremito di gente, il popolo di San Juan Chamula, uomini, donne e molti bambini seduti o sdraiati sul pavimento cosparso di aghi di pino. L’aria si riempie d’incenso mentre sull’altare i ritratti dei santi troneggiano come icone assolute. Ve ne sono altre lungo la navata dove si concentra la preghiera dei fedeli: gli uomini bevono mezcal, le donne pepsi cola per scacciare gli spiriti maligni mediante la digestione immediata, nel mentre una vecchia con accanto un bambino, stringe il collo di una gallina prima del sacrificio. Non è difficile cogliere in questo rito che può durare l’intera giornata e che è rigorosamente proibito fotografare, una sorta di sincretismo religioso che mescola la liturgia cattolica con talune antiche credenze maya, suscitando un forte effetto di sovrabbondanza, quasi che la fede abbia bisogno dell’eccesso per arrivare meglio a Dio.

Appena fuori dal centro abitato su un lieve pendio si trova il camposanto, arruffato e caotico dove le tombe si confondono soffocate dalla spazzatura. Sullo sfondo appaiono le rovine di un’antica chiesa a una sola navata invasa dalla vegetazione. Solo l’altare è rimasto miracolosamente quasi intatto.

Sulla medesima traiettoria troviamo il villaggio di Zinacantán, in una valle costellata di grandi serre per la coltivazione dei fiori. Nella chiesa locale dedicata a san Lorenzo, si perpetua il medesimo rito ma con un’esuberanza floreale davvero sorprendente, variante insolita del barocco messicano. Qui non esistono divieti come a San Juan, nessuno infatti bada a noi che accumuliamo immagini di santi, di donne del villaggio che si danno convegno davanti alle statue dei santi, mentre un bambino con devozione accende una moltitudine di candele.

A San Andrés, villaggio noto per i cosiddetti accordi tra l’Ezln e il governo centrale nel 1996, disatteso da quest’ultimo nel 2001, dietro la chiesa c’è una cappella che accoglie i resti di Padre Marcelo Pérez Pérez, sacerdote tzotzil di San Andrés, strenuo difensore dei diritti dei campesinos, amico dei superstiti del massacro di Acteal, ucciso da due sicari in motocicletta il 20 ottobre 2024 all’uscita dalla chiesa di Nuestra Señora de Guadalupe. Due donne vegliano sulla tomba. Nella memoria stanca di immagini dolorose, il nome di Marcelo si sovrappone a quello di Oscar Romero, il vescovo ucciso dagli Squadroni della morte nel 1980. In Messico come nel Salvador, la storia si ripete implacabilmente.

k

Na Bolom

In un angolo remoto del barrio historico di San Cristóbal de Las Casas è situata una residenza signorile (databile intorno al 1890), un ex convento costruito secondo i canoni europei del neoclassicismo post-coloniale dove ancora oggi si respira un’atmosfera di tempi ormai lontani; sorta di casa-albergo-museo scampata, per ora, al furore dei restauri alla moda che fanno lievitare i prezzi dei servizi alberghieri, acquistata nel 1950 da una singolare coppia di europei: l’archeologo ed esploratore danese Frans Blom (1893-1963), e la fotografa svizzera Gertrude Elizabeth Loetscher, meglio conosciuta come Trudi Duby (1901-1993). Un nome: Na Bolom, ovvero “casa del leopardo”, animale sacro nella mitologia maya, ma anche un acronimo del nome del proprietario. Archeologo in molti siti messicani e a Palenque nel Chiapas, Blom documentò le sue scoperte in numerosi volumi, oggi depositati nella vasta e ricca biblioteca di Na Bolom, riconosciuta tra le più importanti del Messico per le discipline archeologiche e etno-antropologiche. Per i due intellettuali europei, essa dovette essere non solo un buen ritiro, ma anche il luogo dove l’accoglienza si fondeva con la cultura e l’esposizione di pezzi rari provenienti dal mondo Maya. Quanto a Gertrude, la sua storia sarebbe degna di un romanzo politico che attraversa oltre mezzo secolo di storia: dalla militanza socialista e successivamente a quella comunista, per cui fu ripudiata dal padre, un ricco bernese, fino alla fuga dalla Germania dove era finita sul libro nero dei nazionalsocialisti. In Italia, a Firenze si unì ai partigiani e dopo la guerra emigrò prima negli Stati uniti poi in Messico dove conobbe Frans Blom, il suo terzo marito.

j

Al Na Bolom si respira ancora l’aria dell’avamposto culturale e sociale che una donna forte, autorevole e sola, tenne in piedi per circa trent’anni dopo la morte del marito archeologo. Tutto in quegli spazi, dove abbiamo avuto modo di vivere per diversi giorni, parla di lei, riportandoci, attraverso le numerose fotografie appese alle pareti, all’esperienza umana nella foresta Lacandona, al confine con il Guatemala, tra gli indios dei quali condivise la vita quotidiana, la cura e i bisogni di un popolo fragile e antichissimo, non ultimo opponendosi tenacemente alla deforestazione voluta dai fazenderos e dalle grandi società, alla fine immortalandolo nei suoi scatti in bianco e nero.

Durante il Levantamiento del 1994, nella fase di riconquista della città da parte delle forze governative, molti zapatisti in fuga cercarono rifugio negli spazi del Na Bolom, ma vennero purtroppo respinti. Gertrude Duby era morta sei giorni prima all’età di novantadue anni. Se soltanto avesse potuto assistere a quell’evento tragico per il popolo di San Cristóbal, avrebbe accolto quegli uomini e quelle donne, così come aveva fatto per una parte importante della sua esistenza.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO