Da Jakarta a Borobudur
Uno sciame inimmaginabile di motorette e di automobili si riversa all’improvviso sulla strada che volge in direzione del grande obelisco di 132 metri di altezza che simboleggia l’orgoglio dell’indipendenza dell’Indonesia dal colonialismo olandese e fortemente voluto al primo presidente Akmed Sukarno (1901-1970) nel lontano 1961. Quello sciame ininterrotto ci impedisce di attraversare la strada e di raggiungere in fretta l’immensa Merdeka square, confinandoci su uno dei rari marciapiedi che costeggiano un giardino che ha odore del Tropico. Eppure ci troviamo al centro di una megalopoli, Jakarta, di oltre trenta milioni di abitanti, nella quale, rispetto ad altre capitali dell’Estremo Oriente come Seul, Tokyo, Bangkok, Hanoi ecc., non esiste una sola vestigia dell’antico passato indonesiano e javanese. Al contrario, cercando sulla mappa della città il vecchio e ormai dimenticato nome di Batavia, si verrà scoprendo un passato urbano coloniale conservato come a sorta di piccola isola felice stretta nella morsa del caos della città dove chi si avventura a piedi in qualsiasi direzione, è certamente destinato a soffrire. Batavia, parola dal suono carezzevole, fondata dagli olandesi nel 1619 come avamposto marittimo nel mare di Java, per chi si diletta di esploratori europei, antiche mappe e rotte mercantili. Sconosciuto per la stragrande maggioranza dei turisti stranieri che si avventurano sin qui credendo di ritrovare l’antico e glorioso affaccio sul mare che oggi è più lontano, nascosto dalle vaste strutture portuali. Lungo una banchina è ormeggiata in rada una fila di vecchi velieri decrepiti mentre sul lato opposto, un vecchio seminudo si bagna nelle acque limacciose di un canale. Esiste un luogo, forse uno soltanto, da quelle parti, in grado di rievocare ciò che fu il lungo periodo coloniale durato oltre 300 anni (1602-1945), ed è il “Museo Marittimo”, allestito nello stile tradizionale all’interno di antichi docks costruiti dagli olandesi, articolati in diversi padiglioni con coperture lignee a capanna.

Nei vasti spazi longitudinali dove le tracce di umidità e di incuria sono fin troppo evidenti, la forza evocativa delle antiche navi lignee dalle fogge più disparate in mostra, infonde una sorta di malinconica visione del mare, visibile ormai solo dalla “Marina”, un tozzo edificio olandese in laterizio, stile yacht club dal cui vasto terrazzo panoramico si notano le barche da diporto per i ricchi della megalopoli che volta le spalle al mare orientandosi sullo spazio, il tempo e l’ora dei grandi complessi high-tech, grattacieli avveniristici fino a cinquanta piani, simbolo di potenza delle società multinazionali ma anche del conseguito benessere economico di una ristrettissima fascia di popolazione urbana. Terziario e residenze di lusso si spartiscono lo spazio verticale mentre in basso, sulla terra, nuvole di smog provocate da folle immonde di automobili e ciclomotori e altri mezzi di trasporto collettivi (una testa una moto, due tre quattro persone su una moto, madre, padre e in mezzo due bambini) che sciamano come api, vespe e mosconi impazziti, generano frastuono, ingrigiscono il paesaggio rendendolo impraticabile, talvolta perfino irrespirabile. E ben poco può fare la sontuosa generosa natura tropicale che, ovunque si guardi, genera spire di verde e fogliame rigoglioso, accanto a fiori dai vivaci colori come bouganville, eliconie e altre specie. I tuc tuc e le carrozze con i cavalli si fermano in prossimità dell’ingresso al nucleo urbano di Batavia che ha assunto la funzione di centro storico. Due vie fiancheggiate da alcuni edifici coloniali del XVII e del XIX secolo tra cui un alberghetto dall’aspetto sordido, per via, forse, di un lungo corridoio che finisce con una stretta scala di legno, con un fiumiciattolo in mezzo nel cui alveo spiccano piccole e squallide isole pedonali di cemento e una grande piazza rettangolare lastricata con vecchie pietre levigate grigio scuro. Su di essa si affacciano due edifici diversi l’uno dall’altro, ma in egual modo significativi: il Caffè Batavia e il Museo del Wayang. Il primo è la ricostruzione perfetta di un caffè d’epoca con legno ovunque, arredi eleganti e una quantità sorprendente di fotografie di divi del cinema, di uomini politici, l’orchestrina al piano terra giusto per reinventare un’atmosfera dei tempi andati, mentre il secondo occupa lo spazio di un antico magazzino sorto nel XVII secolo sopra i resti di una chiesa protestante. La piazza, nelle ore pomeridiane di un qualsiasi giorno di festa, si popola di gente fino al punto di straripare. Molti si siedono per terra e mangiano, altri aspettano l’inizio del concerto che avverrà più tardi. Per sfuggire al gran rumore della piazza troviamo un sicuro rifugio proprio nel museo dedicato alle figure del Wayang, il cosiddetto teatro delle ombre ispirato dalle storie del Ramayana, poema epico in sanscrito proveniente dall’antica India. Il museo è di una ricchezza strabiliante, tra figure del teatro delle ombre antiche e moderne a cui sono indissolubilmente legati gli strumenti che compongono l’orchestra di gamelan che fa da sfondo sonoro alle rappresentazioni.


Dopo avere sfidato la follia delle motorette, finalmente raggiungiamo Merdeka square il cui immenso spazio d’asfalto che circonda l’obelisco dell’orgoglio nazionalistico, è occupato da una sfilata di mezzi militari corazzati, anfibi, lanciarazzi di nuova fabbricazione. Un tripudio di forze militari, la vera difesa di un arcipelago di oltre 280 milioni di persone. È la festa ufficiale delle forze armate. Un gruppo di militari in parata inscena un ballo allegro ma nessuno in quel momento sembra interessarsi a loro. Sukarno era un politico assai singolare: nazionalista, socialista e musulmano al tempo stesso, fondò la sua politica sul “Pancasila”, dal sanscrito, che significa cinque principi, sui quali si basò la costituzione della nuova repubblica d’Indonesia, ovvero fede in un unico Dio, giustizia sociale per l’intero popolo indonesiano, democrazia guidata dalla saggezza interiore, umanità giusta e unità dello Stato. I giovani militari presenti alla parata (ma i mezzi sono fermi, parcheggiati in bella mostra), aiutano i bambini a salire sui tank e si fanno fotografare insieme a loro sotto lo sguardo soddisfatto dei genitori. Dalla piazza è ben visibile la cupola della più grande moschea dell’intera Java e il suo alto minareto. Per raggiungerla è necessario aggirare l’intero isolato, costeggiando un canale di acqua putrida, fino alla presenza di un’importante chiesa cattolica costruita nello stile neo-gotico che realmente fronteggia la moschea, un gigantesco complesso comprendente cortili, scuole coraniche, altri edifici secondari e la solenne, immensa navata che si può visitare solamente con l’ausilio di una guida. È l’elogio del metallo; di esso sono fatte le numerose colonne e l’interno della cupola dove la resa del metallo si rivela straordinaria per il sottile, raffinato intreccio decorativo. La presenza ravvicinata dei due edifici sacri, cattolico e musulmano, è la testimonianza concreta di un Islam javanese tollerante, capace di convivere con altri culti sul proprio territorio.

Il centro di Java è anche il suo cuore antico: Surakarta (ribattezzata Solo) e Jogyakarta ci riportano a quella placida e armonica dimensione orizzontale impensabile nella capitale, che osservata dall’alto, presenta una fluida alternanza a macchia di leopardo, di natura e architettura. A Surakarta ogni notte udiamo i suoni provenienti da un luna park le cui luci inondano la pianura. Non ci permettono di prendere sonno, ma chi ha voglia, in fondo, di dormire? La città è giustamente famosa per i suoi batik, frutto secolare del lavoro di abili artigiani concentrati in un quartiere specializzato, posto sul sentiero che conduce al Kraton, ovvero all’antica residenza del Sultano, al pari del nostro palazzo reale. Un complesso di cortili, giardini costruiti intorno a un corpo principale basato sul principio architettonico del porticato ligneo lavorato su una struttura di grande eleganza e insieme leggerezza dove vi è uno spazio dedicato agli strumenti, metallofoni, idiofoni e tamburi del gamelan, e ad una alta torre esagonale che ne è divenuto il simbolo. Un modello che qualche giorno più tardi ritroviamo anche nel Kraton di Jogyakarta. L’intero complesso è nascosto da alte mura imbiancate lungo le quali corrono all’impazzata in flussi continui gli scooter, tra cui numerose Vespe, degli abitanti. Sembra impossibile non possederne almeno una. Impossibile quindi, camminare in qualsiasi direzione senza essere investiti da questa insopportabile presenza che è negazione della calma, del silenzio che luoghi come questi ormai possono soltanto evocare. Nel ritornare sui nostri passi, incontriamo i venditori ambulanti seduti sotto le chiome dei grandi alberi tropicali dalle infinite radici che come escrescenze invadono i pochi marciapiedi. Il luna-park è in disarmo dopo tanti giorni di festa. I trenini e le ruote girano silenziosamente a vuoto. Le bancarelle alimentari hanno lasciato una scia di spazzatura, cibo prediletto degli uccelli.

Da Surakarta a Prambanan, sede di uno dei più imponenti complessi templari induisti dove restiamo una notte per poter visitare con calma i 64 templi portati alla luce soltanto negli anni ’60 del secolo passato, esiste un collegamento di metropolitana esterna che attraversa per circa 60 minuti villaggi e risaie. È sabato e i vagoni sono affollati di gente tra cui moltissimi giovani (l’Indonesia è un paese di giovani) che fanno visita alla grande città che come le altre si sviluppa lungo uno schema di strade parallele prive di piazze e di luoghi pubblici di aggregazione. In Indonesia purtroppo, non esiste quasi nulla di pubblico, neppure i trasporti. Un autista di un pulmino per sei passeggeri, nei pressi di Batavia, ha minacciato di tagliarmi la gola se non lo pagavo in moneta locale fino all’ultimo centesimo, sebbene fosse privo del resto da darci. Inoltre la cifra richiesta era doppia rispetto a quella pagata dagli altri passeggeri. L’essere tra i pochi stranieri in questa parte della città non ci è stato d’aiuto. Nella vasta area intorno al Kraton di Jogyakarta che raggiungiamo con un taxi guidato dal padrone dell’albergo di Prambanan, sembra convergere tutto il traffico cittadino. Sontuosi alberi del Tropico dagli strani frutti a piramide, ne coronano l’ingresso che troviamo chiuso. È lunedì, infatti, palazzi e musei sono chiusi. Con la singolare eccezione di un edificio di non grandi dimensioni, ancora più sorprendente e dal nome evocativo di “Palazzo dell’acqua”. Un luogo di raffinato ozio tra piscine, fontane e angoli appartati, molti dei quali in stato di abbandono, che rammenta certa architettura arabo-andalusa. Non è Jogyakarta ad attirare il maggior numero di turisti stranieri, ma il Borobudur, dove sorge il più imponente tempio buddista di tutto l’Oriente, risalente all’800 d.C. In luoghi come questo, bellezza e grandiosità trascendono il contesto urbano in cui si trovano, trasformandosi in pura attrazione di massa. Si tratta di un unico tempio posto su una collina dalla quale si ammira ciò che resta di un’antica foresta. I visitatori si disperdono come formiche indaffarate nel salire faticosamente gli alti gradini di pietra per raggiungere la cima dove 72 grandiosi Stupa, riuniti intorno ad uno centrale leggermente più grande, custodi severi delle statue del Budda, dominano il paesaggio come molteplici specchi che si riflettono l’uno nell’altro dichiarando che il mondo reale è solo pura apparenza.
In copertina, Borobudur.
