Che cosa imparare dal percorso del 'lider Maximo'? / Ciao Fidel. Né lacrime, né festeggiamenti

29 Novembre 2016

La morte di Fidel provoca come effetto immediato una caricatura della «divina commedia»: risa e pianti si susseguono quasi sullo stesso volto. Al di là del manicheismo che ha sempre accompagnato il regno troppo lungo di Fidel Castro, esiste in America Latina un altro punto di vista sulla morte del «lider Maximo», perché capire – non dispiaccia al ministro francese Manuel Valls – non è giustificare.

 

Cos’è allora che la sinistra latino-americana può capire e imparare dal percorso di Fidel?

 

Qualche fatto, per cominciare. Bisogna ricordare che la rivoluzione castrista è stata la prima e l’unica a non farsi schiacciare dagli Stati Uniti. Oggi abbiamo dimenticato l’innumerevole lista di democrazie progressiste massacrate durante trent’anni dall’amministrazione americana, come è stato il caso dell’Argentina, peraltro con l’aiuto «tecnico» e economico della Francia democratica che ha inviato i suoi specialisti della lotta contro-insurrezionale. Dagli anni 1960-70, l’Ecole des amériques, a Panama, è stata un luogo di passaggio obbligato degli ufficiali latino-americani formati da consiglieri americani (e francesi) ai metodi di repressione e di guerra sovversiva. Aussaresses, il «boia di Algeri», vi insegnò come «ben torturare».

Ma non si può nemmeno dimenticare che i cinquant’anni dell’era castrista sono stati anche quelli dell’autoritarismo, della repressione contro i dissidenti e gli omosessuali (anche se non è paragonabile alla repressione sovietica), di un egualitarismo salariale concretamente realizzato nella condivisione della povertà (pur sempre una condivisione...) e del dominio della mediocrazia burocratica che in ogni quartiere, all’interno dei CDR (Comitati di Difesa della Rivoluzione), organizzava la vita per mezzo della delazione e della sorveglianza.

 

L’esperienza cubana nella sua molteplicità non può essere in nessun caso oggetto di un’analisi che giudichi in termini di pro e di contro. Non si può capire questo doppio volto del castrismo, e il suo statuto così particolare nell’America Latina, senza ricordare che durante tutto il XX secolo i tentativi democratici si sono sistematicamente chiusi con massacri ogni volta più tragici per i popoli che osavano affermare la loro sovranità nei confronti della disciplina e dell’ordine nordamericani.

 

Chi potrebbe affermare oggi che un’altra alternativa si poteva forse trovare? Era possibile rovesciare la dittatura di Batista e mettere in atto un programma politico e sociale progressista senza l’autoritarismo di Fidel?

 

Si dice che forse tra i suoi sodali altre idee furono abbandonate e soffocate: Camilo Cien Fuegos morto «troppo presto», il Che abbandonato nella giungla boliviana o, più di recente, i comandanti Arnoldo Ochoa e Antonio de la Guardia, sopravvissuti dell’ala guevarista, fucilati nel 1989 per coprire gli accordi di Fidel con la mafia della cocaina. Queste altre vie possibili avrebbero forse permesso di evitare l’autoritarismo e al contempo la destabilizzazione e la repressione statunitense? Io stesso, per quanto guevarista, molto critico nei confronti del regime castrista, ne dubito...

 

Il contesto storico è cambiato. Ed è un compito difficile comprendere a fondo, cioè nell’interiorità, un periodo storico che si è chiuso da più di due decenni ormai. In compenso è possibile capire che né le lacrime né i festeggiamenti sono oggi appropriati. Ciò che dobbiamo pensare oggi è come ci sarebbe possibile, nel nostro contesto, lottare contro il nuovo ordine repressivo mondiale – quello che oggi, anche democraticamente, fa soffrire i popoli e mette in pericolo la vita stessa sul nostro pianeta – senza cadere in una contrapposizione tipo «Cuba sì, Cuba no». Oggi più che mai, con la sinistra alternativa latino-americana, dobbiamo pensare e assumere una conflittualità multipla e dinamica, che resta il modo migliore di evitare di cadere nella trappola di uno scontro fatale per le nostre democrazie.

Nel momento in cui scompare Fidel Castro, come non pensare alle due grandi figure della liberazione latino-americana contro il colonialismo spagnolo, genocida dei popoli indios? Il primo era Simón Bolívar (ammirato da Castro) che si augurava di diventare dopo l’indipendenza imperatore. L’altro, José de San Martín, figlio di un’india, spiegò dopo la vittoria che «la sciabola del liberatore diventa quella del tiranno se il primo non si ritira in tempo». San Martín si è autoesiliato in Francia, dove ha passato il resto della sua vita in un esilio studioso e saggio.

 

Noi, gli ex guerriglieri che continuiamo con altri metodi la ricerca di giustizia sociale e ecologica, diciamo semplicemente e senza rimpianti «ciao Fidel».

 

Questo articolo, pubblicato su “Le Monde”, ci è stato gentilmente concesso da Miguel Benasayag, che ringraziamo. Traduzione di Luigi Grazioli.

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