Speciale

Scrivere per gli assenti

22 Maggio 2014

Con questo pezzo di Maria Camilla Brunetti apriamo la collaborazione tra Doppiozero e Il Reportage. Oggi a Roma alle 19.00 il nuovo numero verrà presentato alle Officine Fotografiche.

 

 

 

 

Nel 1957 Jacques Fesch è il rampollo di una famiglia alto borghese della regione di Parigi. In quell’anno è giustiziato nel cortile del carcere della Santé, a Parigi. Precisamente Il 1° ottobre 1957, giorno del suo ventisettesimo compleanno. Ghigliottinato. La Francia dovrà aspettare ancora quasi venticinque anni perché, nel 1981, la pena capitale sia definitivamente abolita dal codice penale. Il 10 settembre 1977 Hamida Djandoubi viene giustiziato a Marsiglia. L’ultima esecuzione del Paese. 



In Come un fratello (Traduzione di Marina Karam, Edizioni Clichy) Stéphanie Polack affronta un viaggio senza concessioni nella vicenda privata di una ricca famiglia francese, la sua, riportandone alla luce il rimosso. È guidata dall’immagine di un ragazzo biondo come un arcangelo. Lui è l’innominabile di famiglia, lo scialacquatore, l’assassino di cui nessuno parla. Quel ragazzo è Jacques Fesch. Il bambino viziato che sognava gli orizzonti dei grandi oceani. Il fannullone e il santo. Ha dieci anni Diane, voce narrante e riflesso di Polack, quando da un baule nello scantinato della grande casa di famiglia, affiora da un libro un’immagine. 
La bambina inizia a chiedere, vuole conoscere. Cosa ne è stato di quel ragazzo? Qual è la sua storia? Nessuno parla. Quelle domande non danno seguito a risposte e la folgorazione infantile si muta in ossessione.


È un ragazzo dal viso lungo, dagli occhi chiari, una sorta di arcangelo folgorato, la cui immagine – a dieci anni – mi affascinò all’improvviso. Non posso farci niente, la scoperta di Ja­cques Fesch mi condanna.


È una peregrinazione – un naufragio – in cui l’autrice è accompagnata dallo spettro del giovane Jacques. Per restituire a quel destino un’ipotesi di libertà. Jacques il folle, l’assassino giustiziato, lo zio acquisito che diviene il “fratello sognato”. È lo specchio minacciato di se stessa, un destino in frantumi di vitalità struggente. Per arrivare a lui, l’autrice accetta un corpo a corpo con la storia e con la geografia intima della sua famiglia. La toponomastica di Parigi si fa carne dell’affaire Fesch: Place de la Bourse, Rue de la Victoire, Rue Vivienne, la stazione Richelieu-Drouot, tra il II e l’IX arrondissement. 
Dove si è consumata la vita e la tragedia. La ricostruzione di una memoria.


Tutto è comin­ciato qui. Tutto è geografico e affettivo.


Al 39 di Rue Vivienne, il 25 febbraio 1954 si trovava – come oggi – un ufficio di cambio valute. Quando aggredisce Alexandre Sylberstein, l’agente di cambio, Jacques Fesch ha 24 anni. Vuole regalarsi un veliero e quel desiderio lo esalta, lo squassa come fa il vento. Ha una pistola Dreyse 7.65, rubata dalla casa del padre. Sono le 17.30 e la sua Simca Sport nuova è parcheggiata poco distante, in Rue Saint-Marc. Sylberstein rimane solo ferito nell’aggressione e riesce a lanciare l’allarme. 
Il ragazzo fugge con 330mila franchi, un inseguimento disperato, prima in Rue Richelieu poi in direzione dell’Opera. Sa di non avere scampo. Al 9 di Boulevard des Italiens trova un androne, tenta di nascondersi. A inseguirlo ci sono un paio di agenti di polizia e qualche passante. Nello scontro, Fesch ferisce a morte uno dei poliziotti. Lo arrestano poco dopo, alla fermata della metropolitana di Richelieu-Drouot. È diventato un assassino.


Bisogna averle viste, le foto di Jacques Fesch al momen­to dell’arresto, aver guardato a lungo il suo volto sotto la benda insanguinata.


La famiglia Fesch vive a Saint-Germain-en-Laye, nella regione degli Yvelines a una ventina di kilometri a ovest di Parigi, in una dépendance del castello di Noailles, che spesso aprono per ricevimenti. È in questo luogo che Jacques cresce e che si ammala di quel fervore folle – una rabbia furente – che lo porterà alla rovina. George, il padre di Jacques, è direttore della banca franco-belga, un esteta rigido e apertamente antisemita, che ignora – senza preoccuparsene – il figlio, che umilia la moglie. Anche in sede processuale prenderà categoricamente le distanze dal ragazzo, denigrandolo in pubblico e sottovalutandone la figura. 
Quando Jacques nel 1947 sposerà Pierrette Polack, l’uomo ne sarà inorridito. I Polack per lui non sono altro che ebrei, gentaglia.


Nel 1947 dunque, Jacques Fesch prende a frequentare Rue Racine, l’elegante casa di famiglia dei Polack, i nonni dell’autrice, che così descrive i giovani che la frequentano.


Questa vita facile, viva, languida negli scantinati delle case di periferia come pure nelle cantine pa­rigine, dà ad alcuni il gusto del rischio, per scherzo, la sete del dramma. È tutto così tranquillo. Intrattengono legami innocenti e sensuali con l’idea della catastrofe, di fughe e incidenti. Sono romantici e viziati. Sono incoerenti.


Incarnano una giovinezza dorata che freme, al sicuro dopo gli orrori della Seconda Guerra mondiale. Una giovinezza che ancora non esiste ma che già brucia, che non sa darsi pace e impara presto a maledirsi. A rifiutare il reale, cercando di sondarne l’estremo in gesti folli e infantili. Jacques Fesch. Un figlio di papà, malinconico da morire.


Nel 1954, l’anno della rapina, è ancora sposato con Pierrette. Hanno una figlia, Veronique, anche se non stanno più insieme. Lui, da qualche tempo, ha una relazione con una diciassettenne. In quello stesso anno in Francia esce per Juillard Bonjour tristesse di Francois Sagan.


Dell’affaire Fesch parlano le cronache parigine dell’epoca. Il 10 marzo 1954, a un paio di settimane dalla rapina, è rinchiuso nel carcere della Santé. Qui, negli anni che lo attendono prima dell’esecuzione, il giovane ha una conversione mistica che quasi spaventa dal fervore, e di cui è rimasta documentazione nel carteggio che intrattiene con i familiari. Lettere che Polack indaga nel testo. Poco più di trent’anni dopo inizierà il suo processo di beatificazione da parte della chiesa cattolica.


La condanna a morte è inappellabile e il Presidente René Coty nel 1956, pur riconoscendo l’esemplarità del percorso di conversione del giovane, rifiuterà di concedere la grazia. In una lettera al suo avvocato chiederà di fare sapere a Fesch che deve donare la vita per le vittime del suo crimine. È l’ottobre del 1957 quando il suo corpo decapitato esce dalla Santé. 



 

Il sacrificio della vita, offrire il corpo. Quell’anno viene pubblicato in Francia, prima in forma di saggio sulla Nuovelle Revue Française con il titolo Réflexions sur la guillotine e poi per l’editore Calmann-Levy in forma di libro, Réflexions sur la peine capitale di Albert Camus in cui l’autore si espone in un saggio ferocemente critico sulla legittimità della pena capitale, sulla sua assoluta inefficacia nel prevenire il crimine e sul senso profondo di ciò che in realtà è: una vendetta esemplare dello Stato su colui che si macchia di delitto.


Come un fratello è la storia di un fantasma, privato quanto sociale, e della sua ricerca. È un’indagine sul vincolo di fratellanza e sulla sua irrevocabilità. La voce di Diane cerca quella di Jacques senza sosta, l’attende in una Parigi che diviene mappa e odissea di un tormento sensuale, nella lingua serrata di una sorta di mistica laica. Compone i gesti di una liturgia privata e inaccessibile. 



 

Vorrei provare a restituirlo ai suoi vagabondaggi (...) Riportarlo alla sua umanità di bambino sognatore.

 



Ne abbiamo parlato con Stéphanie Polack 



 

Come un fratello è un viaggio di ossessioni e spettri. La voce di Jacques Fesch – “Zou, le filibustier” – come veniva chiamato in famiglia, accompagna Diane, la narratrice, in questo ignoto che deve essere restituito. Da dove ha inizio questo viaggio?



Dopo la pubblicazione del mio primo romanzo (Route Royale – Éditions Stock) ho scoperto e ho capito di avere lavorato partendo da un inconscio familiare. Questa cosa mi ha scosso, ho trovato interessante riscontrare come le mancanze, le lacune di una genealogia, i suoi fantasmi, le loro “influenze erranti” agissero sui vivi e, a volte, li trasformassero. Così mi sono imbattuta nella storia di questo zio, che non ho conosciuto. Ciò che mi ha colpito è il modo in cui la sua storia – e tutto ciò a cui rimanda – entri in relazione con mie ragioni intime, con una geografia interiore, di fatto con la mia sensibilità: il concetto di “erranza”, la volontà di prendere il largo, la necessità del reato, una qualche forma di liberazione da un giogo (anche se deviante o malata), per riuscire infine a scoprire e ad affermare ciò che si è. L’importanza nei confronti dell’amore che Jacques realizza nel momento in cui conosce la fede e che Diane vive nell’esperienza di transfert conoscendo un uomo. Così ho provato a creare un gioco di specchi e di risonanze tra l’instabilità di Jacques Fesch e quella della narratrice. Di rivelare, di portare alla luce, l’una all’altro.

Più volte nel romanzo si rivolge a Fesch chiamandolo “fratello sognato”. L’indagine sul sentimento di fraternità è una delle ragioni più sofferte del romanzo. Nelle pagine affiora, a più riprese, il destino di Antigone. Come si è avvicinata al verbo, alla parola, di Fesch? In che modo la figura di Antigone trova voce all’interno del romanzo?


Mi piace molto lavorare sul senso del “tu” nel romanzo. Quel modo particolare in cui ci si rivolge a qualcuno nell’invettiva, o nella preghiera. Credo che non si scriva mai se non per rivolgersi agli assenti. La figura di un fratello assente è, senza dubbio, fondamentale nel libro. Quando mi sono avvicinata alle lettere di Jacques Fesch, ho cercato soprattutto di rintracciarvi dei dettagli, a volte prosaici, che potessero testimoniare semplicemente l’uomo che era stato e che avrei così tanto voluto conoscere. I legami di fratellanza che inventiamo credo siano quelli che ci strutturino di più. Mi sento stranamente legata a tutte le persone che con coraggio rompono i codici, le regole, le leggi – spesso a rischio di perdersi. Mi sono avvicinata ad Antigone per la sua volontà di rendere sepoltura a un fratello reietto, contro la legge. Su un altro piano la sua figura mi ha interessato perché lei è un’imago di Cristo. Una figura che provoca scandalo, ma che obbedisce solo alle proprie leggi interiori. È inflessibile, non disciplinata, è resa selvaggia dalla sua ostinazione. Lei ama.

In carcere Jacques Fesch si converte. Parlerà, nelle lettere alla madre di suo padre, di visioni mistiche e amore per la Vergine. È un calvario che fa del suo corpo giustiziato un simulacro del sacrificio dell’uomo. Morire donando la propria vita. Da anni, per il suo caso, è in atto un processo di beatificazione. Ci puoi parlare di questa cosa? Da ciò che ha potuto ricostruire, come si avvicinò alla religione? Come avvenne che la storia di un ragazzo di 27 anni giustiziato per omicidio fosse instradata sulla via della beatificazione? Che ruolo ha avuto, in sede processuale, il fatto che il suo avvocato difensore Paul Baudet fosse un fervente cattolico?


Non capsico nulla di questo processo di beatificazione: l’eroismo delle virtù, etc… Non ci capisco veramente niente. Non capisco cosa significhi morire “donando la vita”. Ho avuto come l’impressione che ci sia stata una forma di riappropriazione propagandistica della vita di Jacques Fesch, anche se non c’è stato un solo momento in cui abbia messo in discussione la profondità della conversione di mio zio. La esprime in lettere talvolta dolorose ai miei occhi, a volte sdolcinate o in forme infantili, altre molto dense, molto forti. È certo che Paul Baudet abbia giocato un ruolo fondamentale in questa conversione: aveva grande influenza su Jacques ed erano legati da affetto profondo. Molto presto Baudet, da ciò che ho potuto leggere dal loro carteggio, prese il destino del ragazzo come un suo scopo personale, per non dire una sua missione. L’ha affermato lui stesso in un’intervista del 1969, “all’epoca la fede aveva preso il sopravvento sulla lotta”.  


Ho avuto l’impressione che la macchina mediatica, quella della giustizia penale, poi la macchina ecclesiastica, abbiano prodotto ognuna a suo modo delle finzioni, tese a privare Jacques della sua verità. La mia ha l’ambizione – forse con una certa dose si arroganza – di restituirgliela.

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