Un libro di Gabriele Gimmelli / Celati, un cineasta delle riserve

25 Febbraio 2022

I tanti ricordi pieni di affetto, ammirazione, riconoscenza, che hanno fatto seguito alla notizia della morte di Gianni Celati hanno mostrato almeno due cose che mi paiono allungare eternamente l’esistenza dello scrittore nativo di Sondrio e che sono, dunque, anche, una sorta di consolazione per chi l’ha conosciuto e ne sente quindi già la mancanza. La prima è che Celati ha rappresentato un’assoluta rarità nel panorama intellettuale italiano (e non solo) per la sua costante capacità di catalizzare gruppi eterogenei e sempre nuovi attorno alle idee, ai progetti di cui era protagonista: pur senza mai l’intenzione di fungere da guida, da capo, pur fuggendo costantemente ogni ruolo di potere, è diventato un riconosciuto maestro, anche se detestava tale ruolo. Questa capacità, che nasceva un po’ dal suo carattere e un po’ dall’impulso generatore di una cultura immensa e totalmente priva di pedanteria, l’ha reso per tanti una presenza familiare, amica, una fonte di ispirazione, fino a diventare un “clown sapiente” (definizione di Ernesto Ferrero), un “luminoso esempio di vita” (Daniele Benati) e, soprattutto, una voce autorevole con cui risulta impossibile evitare di confrontarsi persino per chi non ne condivideva le idee (penso, ad esempio, a quanto scritto da Christian Raimo e Goffredo Fofi).

 

L’altro aspetto è che si è reso subito evidente quello che qualcuno andava dicendo da tempo: Celati ha la grandezza dei classici ed è quindi uno scrittore per il futuro (definizione di Marco Belpoliti), la cui opera è ancora ampiamente da studiare e ci appare quasi inesauribile, tanto è ricca di implicazioni diverse e intersezioni su più livelli con altre discipline, dall’antropologia alla filosofia, dal fumetto alla fotografia, e con variegatissimi protagonisti della cultura di tutte le epoche, da Boiardo a Folengo, da Basaglia a De Martino, da Céline a Joyce, da Ginzburg a Calvino, da Foucault a Lévi Strauss, da Leopardi a Wittgenstein. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, almeno a partire dagli anni Duemila, sono sempre di più gli studiosi da tutto il mondo che ne esaminano l’opera e che si riuniscono periodicamente, a Leicester nel 2007, a Copenaghen nel 2009, a Cork nel 2016, in quello che è stato l’ultimo convegno a cui Celati ha partecipato personalmente, insieme alla moglie Gillian Haley; e poi a Bergamo, Strasburgo e Londra. Tra questi ricercatori, uno dei più attivi e promettenti è sicuramente Gabriele Gimmelli. Il suo Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema (Quodlibet Studio, 2021), è il primo studio sistematico dell’opera di Celati alla luce del suo rapporto con il cinema. Un rapporto di lunga data, che inizia molto prima dell’approdo dello scrittore ferrarese alla regia, con i quattro lungometraggi di cui è autore, usciti tra il 1991 e il 2010 (Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri, Case sparse Visioni di case che crollano e Diol Kadd).

 

In oltre quattrocento pagine, corredate da 94 foto, Gimmelli indaga la presenza del cinema nell’opera multiforme di Celati e ne coglie il valore più profondo, come fil rouge di tutta una carriera, fornendo col suo libro una lettura dell’intero percorso artistico di Celati e sottolineando la coerenza interna e la solidità di pensiero che ne stanno alla base. Il cinema rappresenta infatti per Celati non solo un tentativo, tra i tanti, di andare oltre la letteratura, una delle possibilità per uscire dai limiti che sentiva che la scrittura gli imponeva, ma una passione costante che ne informa l’attività creativa fin dai primordi, tanto nella narrativa quanto nei saggi (di questi ultimi ancora si attende una raccolta completa, ormai indispensabile, magari in forma di secondo Meridiano, come avvenuto per Calvino e altri). Gimmelli studia gli interscambi continui tra il Celati narratore e saggista e il Celati film-maker e sceneggiatore, analizzando i film attraverso i libri e i libri attraverso i film.  Se sono noti l’importanza della slapstick comedy per i primi libri di Celati (su tutti Comiche, 1971; Le avventure di Guizzardi, 1973) e il tentativo, teorizzato più volte dall’autore – per esempio nel saggio Su Beckett, l’interpolazione e il gag (in Finzioni occidentali, 1975) – di mettere in parole le smorfie e le gestualità degli attori della comica muta (Buster Keaton, i fratelli Marx, Charlie Chaplin, Harold Lloyd, Stan Laurel e Oliver Hardy), così come il suo interesse per la bagarre e per il carnevalesco, meno conosciuto è il ruolo di riferimento che questi stessi attori e temi hanno avuto in tutte le fasi dell’opera di Celati e nelle sue prove da regista.

 

Ciò è dimostrato anche dal continuo ritorno delle medesime idee in altri scritti e attività non strettamente letterarie di Celati, come le fotografie di Carlo Gajani in Il chiodo in testa e La bottega dei mimi, oppure la sceneggiatura de La farsa dei tre clandestini e il tentativo di trasformarlo in un film. Così come meno nota è la sua attività di sceneggiatore e il continuo interscambio tra questa e le novelle che scriveva negli stessi anni e che sono poi state raccolte nei libri degli anni Ottanta e oltre. 

Celati non è stato solo uno scrittore cinefilo, ma uno straordinario movie-goer, appassionato di diversi generi e movimenti: dalla comica muta al western e al neorealismo, dal cinema hollywoodiano anni Quaranta e Cinquanta – così presente in La banda dei sospiri (1976) – alla Nouvelle Vague, da Cassavetes a Antonioni a Wenders, da Fellini ai capisaldi del documentario, da Dziga Vertov a Nanook of the North di Robert J. Flaherty, Joris Ivens e Werner Herzog, e curioso persino di serie tv – a quelle citate da Gimmelli nel libro, ovvero The Sopranos e Mad Men, aggiungo quelle di cui Celati mi ha scritto in alcune email, suggerendo di guardarle per poi discuterne insieme, e cioè Fargo, Bloodline, True Detective e House of Cards. Gimmelli nel suo saggio dimostra qualcosa di più, ovvero che il cinema può fungere da lente con cui esaminare l’intera opera di Celati per evidenziarne temi ricorrenti, sfumature e zone inesplorate che gettano nuova luce sulle idee di Celati e sul suo metodo di lavoro come scrittore e come regista (ammesso che le due cose siano separabili).

 

Gianni Celati (a sinistra) durante i sopralluoghi per "Strada provinciale delle anime" (foto di Paolo Muran)

 

Poggiando saldamente il suo studio sulle spalle dei giganti della critica celatiana e aggiungendo la visuale personale data dalla propria specializzazione in storia del cinema, Gimmelli dà forma a un contributo originale che intreccia materiali molteplici: testimonianze dirette di chi ha lavorato con Celati, come Mili Romano, Alberto Sironi e Lamberto Borsetti, film inediti emersi grazie a tali contatti e a un intenso lavoro d’archivio, interviste a Celati, edite e inedite, alla radio, alla televisione, ad amici e studiosi, lettere e cartoline (come quella al fratello Gabriele datata “Capalbio (Grosseto) 20.4.86”), puntuali riferimenti alle opere di Celati, continuamente messe a confronto con le loro prime versioni e redazioni, spesso ritrovate su taccuini o quaderni, il tutto in un proficuo dialogo con la critica vecchia e nuova. Ne viene fuori un libro che appassiona anche il lettore non specialista, per come unisce il rigore filologico, pur lontano da ogni accademismo, alla capacità di Gimmelli di seguire un ritmo che direi investigativo per come fornisce i risultati delle proprie ricerche a poco a poco, generando attesa e suspense nel lettore, che segue l’evolversi delle vicende con crescente curiosità in vista degli esiti finali. 

 

Oltre ai panni dell’investigatore, Gimmelli veste anche quelli dello speleologo, quando tira fuori dagli archivi pubblici o delle persone che intervista pezzi di assoluto pregio, tesori ignoti o mai analizzati prima. È il caso di Sopralluogo per un film sulle tracce di Alice, materiale girato da Celati in Sicilia orientale, sulla spiaggia di Fontane Bianche, al tempo del seminario su Alice disambientata, coinvolgendo studenti e amici che paiono già  i gitanti di Strada provinciale delle anime e che va a unirsi a Il rumore del tempo, il documentario di Mili Romano tratto dal materiale filmato da Celati insieme a un gruppo di giovani, tra cui la stessa Romano, nella Bologna del settembre 1977, nei giorni del “Convegno nazionale contro la repressione”, da dove emerge quello che Gimmelli definisce un “cinema militante d’osservazione”, che anticipa modalità di straniamento e attenzione per il mondo esterno che saranno centrali nei documentari degli anni Novanta e Duemila.

 

Allo stesso tempo, troviamo qui lo slapstick, il nonsense, Lewis Carroll, i riferimenti cinematografici citati in Alice disambientata, i Beatles, la figura di Alice-Mili Romano sempre in fuga, motore dell’azione, veicolo verso l’altrove. È il caso anche del soggetto cinematografico abbozzato da Celati all’inizio degli anni Ottanta e che ha come protagonista un pugile di nome Pascal Baratto (solo in minima parte sovrapponibile con il personaggio che ritroviamo in Quattro novelle sulle apparenze, 1987) che sembra richiamare quei gangster movies già così presenti in Lunario del paradiso (1978). E, ancora di più, è il caso della sceneggiatura inedita di un mai realizzato adattamento di Il grido della civetta di Patricia Highsmith che collega idealmente Celati a Wim Wenders, anche lui tentato dall’adattamento cinematografico dello stesso romanzo e successivamente studiato da Celati nel saggio Quando ho visto “Nel corso del tempo”. Particolarmente entusiasmante è anche l’analisi della sceneggiatura dell’anti-biopic Fausto Coppi di Sironi-Celati, scritta nel 1986 e rifiutata dalla RAI probabilmente per la completa e voluta assenza di pathos. Gimmelli ne studia le ricadute alla luce del saggio di Celati La veduta frontale. Antonioni, l’avventura e l’attesa (1987), dove si teorizza proprio un approccio volutamente privo di climax emotivi che secondo Celati accomunerebbe la fotografia di Luigi Ghirri al cinema di Antonioni. Coppi come eroe perennemente in fuga, come altri personaggi celatiani: Guizzardi delle Avventure, Garibaldi della Banda dei sospiri, Giovanni/Ciofanni di Lunario del Paradiso, Pucci dei Costumi degli italiani (2006-2013). 

 

Uno dei grandi meriti di questo libro è far implodere ed esplodere alcuni luoghi comuni sull’opera di Celati. Spesso la critica, me compreso, si è fatta forse troppo guidare dalle tante interviste che Celati ha rilasciato negli anni, con il rischio di confondere l’autoracconto del proprio cammino di autore, con il cammino stesso. Gimmelli, pur analizzando ampiamente quelle stesse interviste, considerazioni, conversazioni, evita questo errore e ciò gli permette di problematizzare alcuni aspetti a volte dati per scontati. Primo fra tutti, l’idea che l’opera di Celati sia rigidamente scissa in due blocchi, i libri degli anni Settanta e quelli da Narratori delle pianure in poi. È certamente vero che Celati cambia modo di scrivere e che sul finire degli anni Settanta, come afferma lui stesso in una lettera a Giulio Einaudi, stava “cambiando tutto nella sua vita” e quindi prende altre strade, come del resto in altri momenti della sua vita (in questo mi è sempre sembrato paragonabile al suo amatissimo Bob Dylan, capace di cambiare completamente strada ogni volta che aveva raggiunto il culmine, così come viene reso magnificamente in I’m Not There di Todd Haynes, ricorrendo a attori e attrici diversi – per età, sesso, etnia – per interpretarlo nelle varie fasi). Tuttavia, esistono linee di continuità, che la lente del cinema mostra molto chiaramente. 

 

Allo stesso modo, Gimmelli dimostra con abbondanza di prove che i documentari dell’imprevisto, da Strada provinciale a Diol Kadd sono, alla luce di un’attenta disamina dei materiali d’archivio (appunti, taccuini, registrazioni), tutt’altro che improvvisati, e che l’apertura all’imprevedibile, così come l’inclusione di tutto un “disponibile quotidiano” fatto di voci fuori campo e altri materiali normalmente esclusi dal girato, sono abilmente ricostruiti, frutto di un’idea precisa di cinema e metacinema che coincide, peraltro, con straordinaria coerenza, con un’idea altrettanto precisa di letteratura, la cui naturalità è l’approdo finale di un lungo lavoro, non l’immediatezza di un narratore naturale che racconta di getto. Nei documentari di Celati risulta tutto finemente calcolato, l’imprevisto accuratamente messo in scena, l’improvvisazione preparata e ricostruita, lo stesso carattere di dilettantismo e amatorialità è frutto di una ricerca e di un lungo studio e di un’attenta preparazione.

 

Con altrettanto coraggio, Gimmelli, sulla scorta degli studi magistrali di Marina Spunta, riesce a togliere il sodalizio con Ghirri dalla sua dimensione mitologica, sottolineando come le osservazioni di Celati sul lavoro del fotografo reggiano coincidessero con quelle fatte nello stesso periodo sull’opera di Carlo Gajani e fossero dunque specchio di idee di Celati, che venivano sovrapposte al lavoro di Ghirri. Gimmelli osserva la continuità tra prima e seconda/terza fase dell’opera celatiana: Giuliano Scabia già sul Po tra comico-carnevalesco e audiovisivo; Gajani sul Po ancor prima di Luigi Ghirri; Totò che ricompare nelle riflessioni celatiane al tempo dei viaggi in Africa che daranno vita all’ultimo dei documentari realizzati, Diol Kadd, e al libro Avventure in Africa.

Gianni Celati ci ha lasciato tutto questo e tanto altro e numerosi sono gli studiosi intenzionati a continuare ad approfondirne il lavoro, in uno sforzo che non si arresta con l’arrivo alla foce e che prosegue e proseguirà, anche solo per restare in sua compagnia ancora un poco.

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