Nelle pianure verso la foce del Po

19 Luglio 2022

Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati (Rubbettino, 2022) è la terza prova narrativa di Sandro Abruzzese, dopo Mezzogiorno padano (Manifestolibri, 2015) e CasaperCasa (Rubbettino, 2018). È uscito nella collana “Che ci faccio qui”, diretta dall’antropologo Vito Teti, la prefazione è di Angelo Ferracuti, le foto di Marco Belli. Si tratta del racconto di una serie di viaggi compiuti dall’autore nell’arco di oltre due anni nelle pianure verso la foce del fiume Po, in quello spazio che appare infinito, tra l’Adige a nord e il Reno a sud e tra Ferrara e il Polesine, nei posti distrutti dall’alluvione del 1951 e dall’esodo che ne seguì. Da questi luoghi diasporici, di cui solitamente si dice che "non c’è niente: niente da vedere” partono le fughe esplorative di Abruzzese, a volte insieme all’amico fotografo Marco Belli, a volte ognuno per la sua strada.

I viaggi vengono interrotti dalle limitazioni agli spostamenti imposte dalla pandemia e allora il racconto prende un’altra piega, sorprendendo tanto il lettore quanto il narratore-viaggiatore e diventando altro, pur proseguendo coerentemente nel procedimento di osservazione e ri-flessione sul circostante. Un libro difficile da definire perché tanti libri insieme: diario-reportage, cronaca, resoconto di viaggio, testimonianza dalla quarantena, a tratti persino prosimetro e romanzo epistolare di lettere-impossibili a figure-chiave della cultura italiana (Antonio Cederna, Giorgio Bassani) e dell’immaginario poetico e affettivo dell’autore. Si tratta di una raccolta di riflessioni di natura etica (e politica) generate dall’intensa osservazione dello spazio esterno e dall’assenza dello stesso, quando il mondo esterno viene negato dalla clausura imposta per evitare il contagio. Niente da vedere è però, soprattutto, un atto politico di diserzione, di insubordinazione e cercherò di spiegare perché.

La prima cosa che mi sembra di dover vedere, ovvero notare, in questo Niente da vedere è la dedica a Domenico Carrara, poeta avellinese di Grottaminarda il cui corpo è stato ritrovato senza vita, nel gennaio del 2021, a soli 34 anni, in un dirupo tra i boschi della Val Camonica, vicino a Bienno, nel bresciano, dove lavorava come collaboratore scolastico in un istituto comprensivo. Le sue poesie (si veda la bellissima raccolta postuma Nel ripetersi delle cose, edita da Homoscrivens a pochi mesi dalla morte dell’autore) sono di rara forza, eppure dimesse, anti-retoriche. Nei suoi testi, l’unico progetto politico possibile rimane quello del sottrarsi, del vivere dai margini, del non collaborare. L’unica parola possibile quella che non squadri da ogni lato, ma che sia proprio per questo sfida al potere. L’unica resistenza, la diserzione. La lezione di Carrara ci sembra ancora più attuale in questi tempi di guerra:

Benedetta l’inazione
se fare è distruggere
benedetti i disertori
di ogni epoca e luogo
i vigliacchi che rifiutano
d’imbracciare un fucile.
Benedetta è una parola,
che muove poco, nulla,
e non s’impone, non sfila,
non cerca alcun riflettore.
E chi sfida questo potere
che avvelena gli sguardi,
i traguardi calati dall’alto,
l’odio per chi è nato altro.

Abruzzese, legato a Carrara dalla comune provenienza oltre che da una forte amicizia, riporta le parole del poeta in uno dei capitoli finali, intitolato Angelo custode, cioè in una delle lettere immaginarie e mai spedite che chiudono Niente da vedere. Sono parole che risuonano potentissime e il legame con Carrara fornisce, credo, il senso dell’intero racconto di Abruzzese, la sua più intima ragione di partenza: l’amore per i luoghi, per i luoghi marginali, abbandonati, per i luoghi della provincia, per le storie minori, nasce, in Carrara come in Abruzzese, da una frattura, da una mancanza, quella delle terre d’origine distrutte dal terremoto in Irpinia, da una ricostruzione mai avvenuta, a causa della speculazione edilizia, della dissipazione dei fondi pubblici, della lottizzazione degli spazi, dell’accumularsi di clientele e corruzione.

La riflessione di Niente da vedere nasce da un’assenza, da una scomparsa, ed è per questo che per Abruzzese conoscere diventa sempre ri-conoscere, la conoscenza diventa ri-conoscenza. È in questo quadro che tutto nel libro si tiene e il viaggio lungo le vallate verso la foce del Po diventa un racconto corale, a cui contribuiscono tanto i vivi quanto i morti, una polifonia affettiva composta da una serie di incontri, reali o immaginari, frutto del caso e della fantasia, in cui la cronologia è sfumata, anche se il tempo è chiaramente il nostro tempo.

Abruzzese, migrante interno, protagonista di quel moto senza sosta che è lo svuotamento perpetuo dei tanti meridioni d’Italia, la fuga dei giovani dalle loro terre di nascita, ritrova dunque nel Polesine il segno di luoghi noti e ugualmente abbandonati, per terremoti naturali o sociali, alluvioni e altre distruzioni. È su questo riconoscimento che Abruzzese individua una stretta affinità tra l’Irpinia dopo la devastazione dei terremoti del 1962 e del 1980 e il Polesine distrutto dall’alluvione del 1951.

Sono terre su cui all’azione annientatrice di una natura leopardiana, indifferente alle sorti dell’umanità, si è aggiunta la disumana violenza di un terremoto sociale, come a Papozze, paese di superstiti di un’alluvione mai superata, che ne ha accelerato il declino, la sparizione di contadini, bovari, osti, mercanti, barcaioli. Un esodo contadino e padano causato da una catastrofe naturale abbattutasi, come per l’Irpinia, soprattutto sugli ultimi. Papozze svuotato somiglia a tanti paesi dell’Italia interna e meridionale: 

A Papozze percorrendo l’argine. Dall’alto dell’argine. La piazza del Municipio avvolta nel tramonto luminoso dell’autunno, al suo centro una fontana sgangherata, dai marmi divelti, che arriva, come un lungo solco, fino all’edificio principale. È un paese squadrato, si direbbe senza memoria né storia. E invece questa piazza, i caseggiati laterali, ricordano agli abitanti che sono dei superstiti. L’alluvione non è più rientrata, si è fatta paese e ossa, psiche e inconscio, ecco perché a volte in questi luoghi le persone e le cose, le piazze, gli edifici, hanno l’aria di sopravvissuti. A Papozze vivono millecinquecento persone ma una volta erano cinquemila. La metà della popolazione partì dopo la rotta del ’51. […] Per Papozze quell’alluvione è la fine del paese. È difficile immaginare il mondo di Papozze. In quella che era una strada di passaggio, di viandanti, ambulanti e braccianti, oggi non restano nemmeno le case. 

La pianura osservata e descritta da Abruzzese è tuttavia anche uno spazio aperto, in divenire, che ridiscute, come si dice in vari passaggi del libro. Un luogo isolato in cui non si è mai soli, come ricordano i rifiuti ai bordi della strada, i frammenti di plastica sparsi nella vegetazione, pure se si è, come dice un cartello a Boccasette, a cinquemila chilometri dal Polo Nord e dall’equatore. La pianura più ricca d’Europa eppure abbandonata, ai margini dello sviluppo che la circonda e che la inquina. Ecco, dunque, il doppio filone che innerva tutto il libro di Abruzzese: una sensibilità dei luoghi su cui si innesta un’altrettanto spiccata sensibilità politica. È su queste due direttive, quella dell’osservazione e quella politica, che si svolge l’itinerario poetico ed etico, oltre che geografico, di Niente da vedere.

Abruzzese si richiama idealmente a chi questo stesso viaggio l’ha già compiuto. Molti dei luoghi percorsi sono infatti gli stessi di Verso la foce di Gianni Celati, verso cui l’autore esplicita il suo debito, concettuale oltre che di scelte linguistiche e stilistiche, già in esergo, con una citazione della Notizia che apriva il libro di Celati e che rivela l’importanza dell’attenzione per il paesaggio, nei suoi dettagli più apparentemente insignificanti o ritenuti banali, seguendo la lezione di Luigi Ghirri: “l’osservazione del mondo esterno ci rende meno apatici”, ci riconnette cioè con noi stessi e con gli altri.

L’influenza di Celati è del resto evidente nell’approccio adottato dai due viandanti, Abruzzese e Belli, al momento di cominciare il loro viaggio. Il proposito dichiarato è quello di non partire troppo preparati, per evitare che l’osservazione risulti intrappolata nelle ragioni della ragione, che lo sguardo sul mondo venga offuscato dalla spiegazione del mondo. Sono viaggi, quelli di Abruzzese e Belli, che hanno come presupposto fondamentale proprio il tentativo di liberarsi da schemi interpretativi preconfezionati che tendono inevitabilmente ad applicarsi alla realtà, predeterminandola e modificando così aprioristicamente la visione.

Nuovamente, una diserzione, dunque: questi vagabondaggi nel Polesine saranno scorribande contro il delirio di saputezza, contro le interpretazioni onnicomprensive del mondo, contro il mondo a una dimensione. Il libro procede infatti per ripensamenti, pause, palinodie, fallimenti, spaesamenti. Si vedano i capitoli “Precisazioni”, in cui si sente l’eco di Bassani nel considerare la città di Ferrara a tratti specchio della sua campagna circostante; “Revisioni”, in cui sembra emergere invece il Celati di altre esplorazioni, quelle africane e di un’altra coppia, in parte comica, con l’antropologo Jean Talon, come a liberarsi progressivamente dell’ingombro dell’io, a mano a mano che ci si avvicina alla foce. Il modo di procedere, tanto dell’itinerario quanto nei ragionamenti della voce narrante, è fatto di continui ripensamenti e divagazioni. 

Fin dal titolo, Niente da vedere omaggia quel concetto di “qualsiasità” formulato da Cesare Zavattini, su cui già avevano ragionato Celati e Ghirri: ogni luogo è un mondo, ogni luogo è il mondo e, per questo, qualsiasi luogo è degno di essere osservato. Nessun luogo è allora privo di importanza, anche se non c’è niente da vedere. Tuttavia, osserva Abruzzese, una peculiarità della pianura rispetto ad altri luoghi qualsiasi forse c’è e consiste nel fatto che questi luoghi permettono più facilmente di perdersi, di smarrirsi. È uno spazio, si dice, in cui risulta impossibile nascondersi, in cui l’orizzonte è infinito e non c’è mai una visione d’insieme. Nelle pianure, luogo universale, non ci si può celare, né vedere più lontano. Sono luoghi, ci dice il premio Nobel Iosif Brodskij, anch’esso riportato in esergo, che proteggono il cuore dal falso.

Niente da vedere si inserisce dunque in una genealogia molto precisa di viaggi nella zona del Po alla ricerca del niente di speciale. Si potrebbe allora vedere la coppia Abruzzese-Belli come erede di altre coppie di scrittori e fotografi che hanno percorso quegli stessi luoghi col medesimo fine: Zavattini e il fotografo William Zanca nel 1963 (Fiume Po, Ferro edizioni, 1966) e, appunto, Celati e Ghirri negli anni 1980. Lo stesso titolo sembra richiamare per opposizione il ghirriano Niente di antico sotto il sole, fondamentale raccolta di saggi e interviste del fotografo, recentemente ripubblicata da Quodlibet. Anche la mappa, qui disegnata a mano, che precede l’inizio del racconto e contiene i nomi dei paesi attraversati da Abruzzese, è un richiamo a Celati, che l’aveva inserita al principio di Narratori delle pianure (modalità ripresa da ultimo anche da Marco Belpoliti nel suo Pianura, Einaudi, 2021). 

Forse ancora da Celati deriva la scelta di dare al viaggio una componente affettiva, riconoscibile già nelle prime righe: le esplorazioni cominciano e ricominciano ogni volta da Gavello, paese adottivo di Marco Belli e le varie peregrinazioni narrate via via costituiscono un viaggio che, anche quando solitario, è in realtà con amici, famigliari ed altri viandanti, e tutto si configura come un incontro continuo. La descrizione del mondo esterno si fonde allora con i racconti trovati per strada, con le tante storie minori che ci dicono molto sul mondo attuale, insieme provinciale e universale: l’ossuta cinese proprietaria di un bar a Gavello; Sofia, l’inventrice del cinematografo di Polesella che manifesta la sua predilezione per lo scrittore Ugo Cornia, ma che adora anche Francesco Guccini, da lei intervistato e con cui ha pranzato una volta a Pavana; l’amico regista Giulio Costa con cui Abruzzese passa da Bondeno (zone del padre di Celati) per andare a Luzzara (paese di Zavattini), e con cui il narratore si trova a litigare furiosamente per i propri giudizi sprezzanti su quelli che secondo Costa sono i capisaldi della cultura emiliana e delle pianure: da Bernardo Bertolucci a Liliana Cavani, da Silvio D’Arzo a Malerba, fino a Antonio Delfini.

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C’è poi Pasquale, piastrellista di Crotone che arrotonda sistemando e rivendendo lavatrici, incontrato dal narratore a Crespino, che racconta di essere uno di sette fratelli (come i fratelli Cervi) tutti migranti interni. E altri incontri ancora: l’ingegner Manacorda, che denuncia la chiusura di una fabbrica di cerchioni a Ruina, con i trecento posti di lavoro delocalizzati in Cina; l’attivista Francesco; la vicesindaca di Polesella, Consuelo, che cita con orgoglio i 35 anni sindaci donna della zona e il problema ribaltato delle “quote azzurre”; Monica e Sandro, animatori della rivista REM (Ricerca Esperienza Memoria); l’editore Paolo e Cristiano, cantante del gruppo folk “L’istrice” che cita Svevo e Blake e parla del Polesine come di un’eterna palude che tutto nasconde, dove le persone non amano svelarsi, hanno poche pretese e solo così sanno essere “leggere nel fango”. Abruzzese si fa guidare da Foucault e Lefebvre lungo il Reno, da Wittgenstein a Santa Maria Maddalena, da Benjamin a Ferrara, ma anche dal suo alunno Baldoni, guida almeno altrettanto salda, tra Molinella e Codifiume.

Spesso è dunque il discorso politico ad essere affidato alla voce di chi si incontra lungo la via, come nell’invettiva del poeta e insegnante tarantino Stefano (Modeo, autore di La terra del rimorso, ItalicPequod, 2018) a Tresigallo, città corporativa fatta ricostruire negli anni ’30 del Novecento da Edmondo Rossoni come sommo esempio di urbanistica razionalista:

Stefano oggi parla di fabbriche d’acciaio, morti sul lavoro, operai e del mare Ionio. Parla di poeti-operai, di cambiare tutto, di studiare e scrivere per fare qualcosa di giusto, a Taranto come a Milano.
Qui c’erano i contadini, rispondo per aggiungere altre ingiustizie ai nostri discorsi. In queste terre depresse, i braccianti vagavano con i badili in cerca di lavoro. 

E infine gli affetti familiari, che tornano spesso nel racconto: Rita, che dona all’autore l’agenda verde acqua su cui prende appunti delle sue esplorazioni e la piccola Pia nella casa di via della Luna, a Ferrara. Così come compaiono Cecilia, compagna di Marco Belli e la loro figlia Emma, dal nome anarchico, scelto in onore di Emma Goldman.

Ecco, Ferrara. La città pentagona cui Abruzzese fa ritorno dopo ogni peregrinazione nelle pianure. Lasciarla momentaneamente, varcando il confine delle mura erculee e rossettiane provoca nell’autore una sensazione di sollievo. Uscire dalla città diventa infatti una fuga dall’imposto paradigma del cosiddetto decoro, contrapposto al cosiddetto degrado, la lotta di classe sostituita da quella tra i turisti, fonte di guadagno e segnale di salute della città e i senzatetto, che invece devono sparire. Un’ideologia dell’apparenza che si concretizza, osserva Abruzzese, nella privatizzazione dello spazio pubblico, con dehors e tavolini ovunque.

Le scorribande di Abruzzese e Belli sono allora ancora una volta atti politici di diserzione e disubbidienza, nel tentativo di sottrarsi al tempo pianificato per andare incontro a tutto ciò che non ha a che vedere con il consumo, la vendita, la propaganda e la cosmesi degli spazi urbani. Si tratta di fughe volutamente prive di destinazione, tempo rubato agli impegni, in cui i viandanti, sfidando la stanchezza dei doveri quotidiani, cercano soprattutto di liberare l’immaginario. Il movimento del corpo permette infatti di uscire dall’irrealtà dell’iper realtà pubblicitaria:

È come se il paesaggio liberasse dall’immaginario precedente, dai problemi della città, dalle immagini e le parole irreali della tv, di internet, e delle réclame. Tutto ciò accade muovendo il corpo, sfuggendo alle funzioni a cui siamo preposti quotidianamente. Queste fughe e descrizioni sono dunque un atto politico di insubordinazione.

Le descrizioni, le osservazioni, gli incontri e le riflessioni di cui è fatto il libro sono continuamente puntellate da titoli e brani di articoli di cronache dei quotidiani locali, sapientemente inserite da Abruzzese nel racconto, producendo un effetto di straniamento rispetto a ciò che viene osservato. I giornali locali fanno come da musichetta di sottofondo, controcanto di chi non sa vedere, con il loro catalogo di casi esemplari o eccezionali da paese, in un’ansiosa e frettolosa, eppure svogliata ricerca di qualcosa da dire, in questi luoghi della pianura dove non c’è niente da dire, oltre che niente da vedere.

Una continua consegna di medaglie a improvvisati eroi della provincia che si combina con la quotidiana diffusione di paure indotte di furti e ammazzamenti in una perpetua caccia al vincente e al mostro, che non fa che riproporre e rinsaldare vecchie gerarchie e rapporti di potere. Ma qui, nella provincia, non c’è niente da vedere (e quindi niente da dire) solo se non si hanno gli strumenti per percepire l’unicità e l’importanza di tutti i luoghi minori, marginali e periferici, che il libro di Abruzzese ci aiuta invece a riabitare, reincantare. E la pianura stessa diventa antidoto a tutto quello che i giornali sembrano rincorrere:

Bagnino salva prontamente nuotatore in preda a malore. […] È un’attività mimetica, si parte alla ricerca di primati, sogni di gloria e ovviamente potenza: è il provincialismo del potere, che però sorge e parte dall’esclusione […] le cronache polesane abilitano i medesimi campioni sportivi e le miss, i produttori, i cantanti e i bravi ragazzi da primato. Si conserva l’impressione che l’Italia tutta sia vittima di un unico, funambolico immaginario folkloristico a cui lentamente soggiacere. Nei giornali, nell’informazione, nella ricerca spasmodica di qualcosa di grande da mostrare, si rispecchiano indimenticate subordinazioni. E tuttavia questi paesi di pianura sembrano il contrario di tanti altri luoghi italiani arroccati, murati e incastellati tra colline o montagne. La sensazione è che niente sia immutabile: la pianura è aperta. Altri sono i luoghi impenetrabili, afflitti da una diversa angustia, in cui la materia plasma i rapporti, e il corpo delle città e dei paesi, perpetuando avidi privilegi fin nei simboli, riproducono idee e pratiche quasi inconsce, ma sempre di granitica conservazione, sudditanza o familismo. La pianura invece dispiega continue vie di fuga, lei ridiscute.

È così che il paesaggio si fa via via metamorfosi del pensiero, tanto che la Romea, strada statale che collega Ravenna a Mestre costeggiando il mar Adriatico, appare all’autore come un confessionale, luogo dei segreti e dei rifiuti, degli scarti e dei resti, tra cui si riconoscono i due viandanti, il fotografo e il narratore e dove si realizza la sola rivoluzione politica possibile: è sulla Romea, infatti, che i due viandanti concludono che, una volta rimasti privi di coscienza di classe, non resta che quella dei luoghi.

In questa trasformazione, in questa funzione mitopoietica del paesaggio, Boccasette sembra Sumer, una novella Mesopotamia, luogo da cui tutto inizia (come qualsiasi luogo), anche se posta sul 45esimo parallelo (probabilmente presente all’autore il lavoro cinematografico di Davide Ferrario) e dove l’immagine felliniana della banda che attraversa il paese sembra festeggiare la liberazione dalle reti cartografiche in cui si è intrappolato il mondo, per liberarsi dai confini. Essere fedeli al principio zavattiniano della qualsiasità, dell’importanza di ciascun luogo, pare dire l’autore, è anche eliminare i confini decisi arbitrariamente dall’uomo, essere cittadini del mondo: “dire che nessuno è straniero un po’ ovunque, o che lo siamo tutti, anche in nessun posto”.

L’itinerario si chiude simbolicamente a Medicina, nel bolognese, zona politicamente rossa diventata, allo scoppiare della pandemia, zona rossa sanitaria. La diffusione del virus costringe tutti in casa e sembra interrompere le esplorazioni e con quelle l’incontro con il paesaggio e dunque il racconto. E invece il viaggio continua da fermo e il libro prosegue con due sezioni sorprendenti, Pastorali dalla quarantena e Fuori-luogo in cui tutti i fili si riannodano nella mente del narratore durante il periodo di clausura forzata e dell’isolamento.

Qui Abruzzese, mentre osserva dalla finestra i tetti ferraresi e canticchia tra sé la canzone di Vasco Brondi “La terra, l’Emilia, la luna” continua a scrivere dei luoghi sconfinati delle pianure ma anche di paesaggi immaginari e di scuola e di didattica a distanza. Oppure ragiona sull’Italia repubblicana nei suoi misteri e oscurità che fanno emergere una diversa topografia, lontano da quella della mappa delle pianure disegnata al principio: Portella della Ginestra, piazza Fontana, piazza della Loggia, via Fani, Capaci, via D’Amelio, l’idroscalo di Ostia. Emergono i nomi di chi ha provato a resistere: Pio La Torre, Rosario Livatino, Carlo Alberto dalla Chiesa.

E se si procede col pensiero ad anni più recenti, la situazione non migliora: al narratore viene in mente la Genova del G8 nei caldi giorni di luglio 2001, la scuola Diaz, il corpo di Federico Aldrovandi massacrato diciottenne, proprio a Ferrara, da quattro poliziotti. E ancora i raid razzisti a Macerata, Luca Traini che spara per strada agli africani che incontra e i luoghi-simbolo dello sfruttamento e del caporalato, da Riace a Castel Volturno. Emerge un campionario di ingiustizie quotidiane e crimini dell’umanità contro l’umanità: violenza sulle donne, morti di amianto, morti sul lavoro, morti causati dal crollo del ponte di Genova, dall’Ilva di Taranto, cadaveri alla deriva nel Mediterraneo o sulle coste greche e turche con i vestiti zuppi di carburante e salsedine.

È in questa parte del libro che compaiono le foto di Marco Belli scattate in alcuni dei luoghi percorsi e le lettere-impossibili a personaggi pubblici e segrete lettere familiari: a Antonio Cederna, come per aggiornarne la battaglia, ancora intatta nell’Italia odierna, a Giorgio Bassani, per informarlo della destra tornata al potere a Ferrara e dei mutamenti sociali del Delta. E poi le lettere agli amici Vito Teti e Domenico Carrara, alla moglie Rita e ai genitori lontani. Ripensare alle pianure, ai luoghi periferici, provinciali è riconciliarsi col mondo esterno, con gli altri e con se stessi. Nessuna storia si ferma finché c’è la possibilità di immaginare e quel paesaggio prima attraversato e poi immaginato si conferma sempre di più luogo della resistenza e della diserzione:

Dimentichi della rotta, dimentichi di qualsiasi odio: dell’odio etnico, dell’odio per le minoranze e il molteplice, dei network dell’odio. Soprattutto lontani dal cinismo dei politicanti bambini, giovani maschi priapisti.
Delta del Po come piccola lotta iconoclasta, produzione propria di immagini, artigianato visivo. Realtà per riconciliarsi, fuori dal centro, per essere, come nel suono, dissolti, finalmente senza più margini né grandezze.
E cercare, contro la velocità asfissiante, chi non ha pretese, poiché un mondo veloce esilia ovunque, e sradica da qualsiasi patria. È un mondo senza verità né giustizia. Non vi è, nella velocità, alcuna conoscenza, specie per chi vive in un paese fatto di sole parole.
Luoghi inermi, lontani e privi di potere, oppure inebriati e ricolmi di illusioni, comunque non assoggettarvisi, unica restante integrità possibile
(…)
Il fatto è che senza gli altri, senza il mondo dei fuori luogo, corroso di certezze, precario, restano patetici tentativi, indegni di disperazione. Un mondo in rotta, invece, da riparare, come l’Italia vista da Polesine.

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