Che cosa ho imparato da Arnaldo Momigliano

27 Gennaio 2023

Negli anni che ho trascorso come studente alla Scuola Normale di Pisa ho avuto degli insegnanti straordinari. Li elenco in ordine alfabetico: Augusto Campana, Delio Cantimori, Arsenio Frugoni, Arnaldo Momigliano. Erano persone molto diverse tra loro, così come molto diversi erano i temi di cui si occupavano. Momigliano, di cui parlerò qui, è uno dei maggiori storici del ‘900. Una riflessione complessiva sulla sua vastissima, multiforme opera sarebbe impossibile, per ragioni oggettive (lo spazio limitato) e soggettive (i limiti delle mie conoscenze). Le sue monografie, e i saggi raccolti nei dieci Contributi alla storia degli studi classici e del mondo antico, pubblicati dalle edizioni di Storia e Letteratura in quattordici tomi, tra il 1955 e il 2012 (più di settemila pagine complessive), sono un oceano in cui si perderebbero anche lettori meno incompetenti del sottoscritto. Mi concentrerò quindi su quello che ho imparato, e continuo ad imparare, da Arnaldo Momigliano. 

1.Comincerò con qualche brevissimo cenno biografico.
Momigliano nacque nel 1908 a Caraglio, in provincia di Cuneo, in una famiglia di ebrei osservanti. Frequentò da studente l’Università di Torino, dove si laureò; nel 1933 ricoprì l’incarico di storia greca, reso vacante dal rifiuto del suo maestro, Gaetano De Sanctis, di giurare fedeltà al fascismo; nel 1936 vinse il concorso per la cattedra di storia romana. Nel 1938 le leggi razziali fasciste posero fine alla sua rapidissima carriera accademica. Nel 1939 cominciò l’esilio in Inghilterra. I suoi genitori, rimasti in Italia, furono deportati ad Auschwitz, dove furono uccisi nel 1943. Momigliano insegnò a Oxford, a Cambridge, all’University College di Londra. Nel dopoguerra riprese i contatti con l’Italia; nel 1964 cominciò a insegnare alla Scuola Normale di Pisa; nel 1975 all’Università di Chicago. Morì a Londra nel 1987. 

2. Il mio primo incontro con Momigliano risale al 1961, anno in cui presentò alla Scuola Normale il saggio “Linee per una valutazione di Fabio Pittore”, pubblicato di lì a poco negli atti dell’Accademia dei Lincei. Di Fabio Pittore, annalista romano, autore di un’opera in lingua greca sulla storia di Roma, ignoravo tutto. Di Momigliano sapevo che aveva conosciuto mio padre, Leone Ginzburg (più giovane di un anno) all’Università di Torino. Carlo Dionisotti, nel suo ricordo di Arnaldo Momigliano, scrisse:
“Fra i nostri compagni d'università e di facoltà, nei tardi anni venti, uno solo, Leone Ginzburg, era stato paragonabile a Momigliano per la precoce maturità e autorità intellettuale. […] Davanti a lui era spalancata, non soltanto socchiusa, la porta di una carriera universitaria. Ma nel gennaio 1934 Ginzburg rifiutò il giuramento richiesto anche ai liberi docenti e rinunciò a quella carriera. Il seguito, fino alla morte in carcere nel febbraio del 1944 a Roma, è noto». 

Nella generosa disponibilità con cui Momigliano mi aveva accolto, studente non ancora laureato, riconosco il suo legame con la “cara memoria” di mio padre, al quale aveva dedicato un saggio su Friedrich Creuzer e la storiografia greca apparso nel 1946. Nel corso degli anni il mio rapporto con Momigliano si sviluppò in maniera autonoma, fino a tramutarsi, nell’ovvia asimmetria che lo caratterizzò fino alla fine, in una vera amicizia. Nel 1985 trascorsi alcuni mesi a Chicago, dove Momigliano insegnava per sei mesi all’anno. Ogni mattina andavo a trovarlo al Faculty Club, dove risiedeva, e passavo alcune ore facendo colazione con lui. Al mio amico Pier Cesare Bori scrissi, il 19 novembre 1985, da Chicago: “Vedo molta gente (…) nessuno molto intensamente tranne Momigliano (quel vecchio mi ha stregato).”Momigliano morì due anni dopo. Di quegli incontri serbo un ricordo incancellabile. 

3.Ma che cosa ho imparato da Momigliano? Mi sono posto molte volte questa domanda, e ogni volta mi sono dato una risposta diversa. Cercherò di ricostruire una traiettoria che comincia alla fine degli anni ’70. A quel tempo avevo letto vari saggi suoi, oltre allo straordinario libro Saggezza straniera (l’edizione inglese, Alien Wisdom, uscì nel 1975): e tuttavia non li trovo menzionati nei miei lavori, neppure dove – per ragioni che dirò – avrei dovuto farlo, come nel saggio “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, apparso nel 1979 nella raccolta Crisi della ragione. Il mio amico Giulio Lepschy, notissimo linguista, mi raccontò che Momigliano (suo suocero) gli aveva detto che “Spie” l’aveva disorientato: non sapeva come collocarlo. Una reazione che parve, sia a Lepschy sia a me, assolutamente inconsueta (ma devo ammettere che mi fece piacere).
In quel saggio sostenevo che alla fine dell’800 era emersa una prospettiva conoscitiva imperniata su particolari spesso marginali, identificati come indizi rivelatori (spie). Illustravo questo “paradigma indiziario” attraverso tre figure, due reali e una fittizia: il grande conoscitore Giovanni Morelli; Sigmund Freud, che aveva dichiarato il suo debito nei confronti di Morelli; Sherlock Holmes. Ma ipotizzavo (avventurandomi in un esperimento di storia congetturale) che le radici di questo paradigma indiziario potessero essere rintracciate in un passato remotissimo, tra i cacciatori del neolitico, poi via via rielaborato attraverso una traiettoria che cercavo di ricostruire per sommi capi. 

“Spie” ebbe un successo inatteso: fu (ed è ancora) ampiamente discusso, e tradotto in molte lingue. Tra parentesi: decisi immediatamente di astenermi dall’utilizzare il termine “paradigma indiziario”, per evitare di farmi imprigionare in uno slogan. Retrospettivamente, penso di aver cominciato a mettere in discussione “Spie”, senza rendermene conto, quando lessi il saggio di Momigliano “La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White”, apparso in inglese due anni dopo, nel 1981, e poi incluso in traduzione italiana nella raccolta Sui fondamenti della storia antica. Solo leggendo quel saggio mi resi conto, con colpevole ritardo, della diffusione di un atteggiamento scettico, ispirato al post-modernismo, di cui Hayden White era il principale rappresentante. Nel suo libro Metahistory White aveva sostenuto che tra la narrazione di finzione e la narrazione storica non esiste una differenza rigorosa: entrambe si basano sulle figure della retorica. Momigliano obiettò: “Non mi sento in alcun modo di contestare l’uso di categorie retoriche nell’analisi dei narratori di storia”, ma “agli storici si chiede di essere scopritori della verità (…) Alle loro storie si chiede di essere storie vere”, basate sulla dimostrazione e sulle prove. Dunque, “si deve dimostrare che la storia vera è in accordo con i dati, mentre le storie false si dimostrano in contrasto con essi (…) Ranke [il grande storico ottocentesco] era interessato, come ogni storico è sempre stato, a prove nuove e sicure”. Di qui la conclusione: “ciò che infine ha distinto (but what has come to distinguish) la scrittura storica da ogni altro tipo di letteratura è il fatto che essa è, nel suo complesso, sottoposta al controllo dei dati”.

Ma se il controllo dei dati che contraddistingue la scrittura della storia è stato una conquista, è lecito affermare che gli storici sono stati “sempre” interessati alle prove? Questa contraddizione mi sfuggì quando lessi per la prima volta quelle pagine su Hayden White. Oggi sono colpito dal fatto che in esse Momigliano non abbia menzionato “Storia antica e antiquaria”: il suo saggio più famoso, pubblicato nel 1950 e ripetutamente discusso fino ad oggi. Ad esso vennero dedicati due convegni, che si tennero a Londra, all’Istituto Warburg, nel 1991, e a Los Angeles, presso la Clark Library, nel 2002. Eppure la traiettoria che portò Momigliano a scrivere quel saggio rimane un enigma, su cui gli studiosi si sono interrogati più volte senza arrivare a una risposta convincente. 

Riassumere quelle pagine densissime sarebbe impossibile. Mi limiterò a isolare tre punti. Momigliano sostenne 1) che la tradizione antiquaria, imperniata sull’esame di testimonianze non letterarie – oggetti, iscrizioni, documenti d’archivio – permise di ricostruire fatti, ignorati dagli storici, legati alla vita quotidiana, alle istituzioni, alla religione, all’economia; 2) che questa distinzione tra fonti primarie e fonti secondarie contribuì in maniera decisiva alla confutazione del pirronismo storico, ossia dello scetticismo emerso nel ‘600 e ‘700 nei confronti delle narrazioni degli storici antichi (e della storiografia in generale); 2) che la tradizione antiquaria, per molto tempo derisa o dimenticata, ha dato un contributo insostituibile alla storiografia come oggi la concepiamo. Nelle sue Sather Lectures, apparse postume, Momigliano citò la Storia dell’arte greca di Winckelmann e il Declino e caduta dell’impero romano di Gibbon come esempi della combinazione tra filosofia e antiquaria. Ma nel saggio “Storia antica e antiquaria” aveva sottolineato che quella combinazione “diventò lo scopo che si proponevano molti dei migliori storici del secolo XIX. È ancora lo scopo che molti di noi si propongono”.

Solo recentemente mi sono reso conto che sull’attualità della tradizione antiquaria aveva insistito rapidamente anche Marc Bloch, nelle riflessioni incompiute sul metodo storico apparse dopo la sua morte col titolo Apologia della storia, o mestiere dello storico: un testo che Momigliano, quando pubblicò il suo saggio, non poteva conoscere (anche se anche in seguito, curiosamente, si astenne dal commentare questa convergenza). Dai due massimi storici del ‘900 ci è arrivato un messaggio analogo, su cui dobbiamo continuare a riflettere. 

4. Ho letto e riletto “Storia antica e antiquaria” moltissime volte. L’importanza decisiva delle prove – l’arma usata dagli antiquari per confutare il pirronismo storico – era, ed è per me, anche grazie a Momigliano, fuori discussione. Trovo perciò incomprensibile che nel saggio “Spie” l’euforia provocata dalla scoperta dell’importanza degli indizi mi abbia indotto a trascurare le prove, ossia lo strumento che permette di distinguere tra indizi veri e indizi falsi. In un seminario che si tenne a Lille nel 2004, venticinque anni dopo la pubblicazione di “Spie”, sottolineai che quel silenzio sulle prove mi pareva, retrospettivamente, grave. Nel frattempo erano successe moltissime cose, che hanno modificato profondamente il mestiere dello storico. Qui non parlerò di Internet (tema su cui sono intervenuto molte volte). Ritorno invece al neo-scetticismo proposto da Hayden White. 

In un saggio intitolato “Prove e possibilità”, pubblicato come postfazione a Il ritorno di Martin Guerre di Natalie Davis, che uscì nel 1984 nella serie einaudiana “microstorie” diretta da Giovanni Levi e dal sottoscritto, cercai di aprire un nuovo fronte di discussione. Contro le tendenze relativistiche che “tendono ad annullare di fatto ogni distinzione tra narrazioni fantastiche e narrazioni con pretese di verità (…)” sottolineai che “una maggiore consapevolezza della dimensione narrativa non implica un’attenuazione delle possibilità conoscitive della storiografia ma, al contrario, una loro intensificazione”. 

Su questa linea ho lavorato per decenni, soprattutto a partire dal momento in cui, nel 1988, cominciai a insegnare a UCLA. Quasi subito mi resi conto che gli studenti più brillanti erano affascinati dalle posizioni neo-scettiche avanzate da Hayden White: combatterle mi parve un compito ineludibile. Nel 1990 White stesso venne on campus e fece una conferenza in cui ripropose le sue tesi. Quando finì mi alzai per criticarlo; seguì un vero e proprio scontro, civile nel tono ma molto duro nella sostanza. 

Quella lunga discussione ebbe un seguito. Saul Friedländer – il maggiore storico vivente della Shoah – che insegnava a UCLA ed era tra il pubblico, decise di organizzare un convegno, che ebbe luogo l’anno dopo, in cui vennero discusse le posizioni di Hayden White. Ad esso parteciparono molti storici, tra cui Hayden White e il sottoscritto. Il mio contributo, dedicato a Primo Levi – “Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà” – partiva ancora una volta da Momigliano, anche se sviluppava la sua critica in una direzione molto diversa. Al centro della mia confutazione c’era l’imbarazzo di White di fronte alla negazione dello sterminio degli ebrei formulata da Robert Faurisson. White la giudicava “moralmente offensiva e intellettualmente sconcertante” ma non definibile come “menzogna”. Una testimonianza eloquente delle implicazioni morali e politiche, nonché cognitive, delle tesi neo-scettiche.

5. Sulla discussione tra Hayden White e il sottoscritto esiste una vasta bibliografia. La posta in gioco era, né più né meno, la verità – senza virgolette. Ricordo che decenni fa, in un convegno a Yale, pronunciai queste parole facendo il gesto consueto nelle università americane: i presenti scoppiarono a ridere. Oggi, di fronte al dilagare delle fake news, forse riderebbero un po’ meno. In effetti credo che le considerazioni, apparentemente sofisticate, dei teorici del neo-scetticismo abbiano contributo a indebolire la capacità di contrastare le fake news. Un’intervista a Hayden White, apparsa sul Manifesto, e oggi consultabile in rete, mi permetterà di chiarire questo punto (mi scuso per questa brevissima digressione di carattere personale). 

L’intervistatore chiese a White: 

“Coloro che condividono le sue teorie le attribuiscono il merito di avere sostenuto il passaggio dell’interesse analitico dal referente della ricerca storica – dunque dal “cosa” – al “come”; nonché quello di aver finalmente riconosciuto la differenza che corre tra il prodotto della “costruzione” del passato operata dagli storici e il passato stesso. Coloro che la criticano – tra cui molti storici ‘di professione’, per esempio Carlo Ginzburg – considerano questo passaggio troppo radicale, e si chiedono: ‘come è possibile fare storia senza il ricorso a una verità storica?’”.

Hayden White rispose: 

“Proprio Ginzburg, un uomo molto colto, che ha una concezione della verità storica profondamente biblica e che si appella alla verità storica, ha scritto cose di pura fantasia, come Il formaggio e i vermi, un libro che nega ogni aspetto di finzione e che si presenta come un testo storico ma che è, in realtà, una storia fantastica, costruita sulla base di due sole pagine di documenti dell’Inquisizione".

Gli atti dei due processi dell’Inquisizione contro Menocchio, pubblicati da Andrea Del Col, occupano 216 pagine a stampa.

6. Come si sarà capito, non ho mai condiviso la stima che Momigliano aveva per il suo amico Hayden White. Ma la polemica di cui sto parlando aveva una dimensione oggettiva, che rendeva irrilevante qualsiasi elemento di carattere personale. All’inizio degli anni ‘90 l’intreccio tra queste due dimensioni, personale e oggettiva, mi afferrò in un contesto imprevedibile, e doloroso.

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Partirò ancora una volta da Momigliano e dal suo saggio su White. Dopo aver accennato, in termini elogiativi a The Shape of Time di Peter Munz, Momigliano scrisse: 

“A differenza di Munz, io non sono disgustato dal confronto che ciò suggerisce col lavoro quotidiano di un poliziotto (o di un giudice). Entrambi devono dare un senso a certi avvenimenti dopo essersi accertati che gli avvenimenti abbiano avuto luogo. Ma la loro attività è limitata a poche categorie di avvenimenti entro limiti cronologici definiti e raramente presenta interesse per chi ne è fuori”.

Quando lessi questa frase non potevo immaginare che alla convergenza (circoscritta ma innegabile) tra giudice e storico, sottolineata da Momigliano, avrei dedicato un libro: l’unico, tra quelli che ho scritto, dettato da un fine pratico preciso. Nel 1988 Adriano Sofri, uno dei miei amici più cari, venne accusato da Leonardo Marino, un ex-militante di Lotta Continua (il gruppo extraparlamentare di sinistra di cui Sofri era stato leader) di avere ordinato l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, compiuto da ignoti nel 1972. Adriano Sofri venne processato in prima istanza a Milano, insieme ad altri ex-militanti di Lotta Continua nel 1990, e condannato a ventidue anni di carcere. Dell’innocenza di Adriano Sofri ero assolutamente certo. L’impulso a intervenire per difenderlo mi venne da una lettera, pubblicata sul giornale La Repubblica, in cui un gruppo di suoi (e miei) amici, tra cui un altro amico, Adriano Prosperi, definiva “un processo di streghe” quello che si era appena celebrato a Milano. Per chi aveva passato molti anni a studiare processi di streghe il passo successivo era scontato. Mi immersi immediatamente in una lettura ravvicinata degli atti del processo di prima istanza (3000 pagine dattiloscritte). Il libro che uscì da Einaudi pochi mesi dopo, nel 1991, alla vigilia del processo di appello – Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri – si apriva con una precisazione: 

“Scrivo, nell’imminenza di questo processo, spinto dall’angoscia per la condanna che ha colpito ingiustamente un mio amico, e dal desiderio di convincere altri della sua innocenza”. (Altri, cioè la giuria del processo d’appello, e più in generale l’opinione pubblica). E continuavo: 

“Ma la forma di queste pagine (lontana, come si vedrà, da quella della testimonianza) ha tutt’altra origine (…) Gli atti del processo milanese e dell’istruttoria che l’ha preceduto mi hanno posto ripetutamente di fronte ai rapporti, intricati e ambigui, tra il giudice e lo storico. Da anni, ormai, giro attorno a questo tema. (…) Un confronto più approfondito mi è sembrato a questo punto inevitabile”. 

Tutto ciò spiega perché in Il giudice e lo storico la lettura minuta degli atti del processo, volta a dimostrare l’inesistenza di qualunque prova contro Adriano Sofri, s’intrecci a una serie di considerazioni metodologiche, in cui il rinvio ai saggi di Momigliano emerge ripetutamente. E nel rifiuto, dichiarato in apertura, di far valere le mie convinzioni personali per concentrarmi esclusivamente sulla discussione delle prove (e della loro inesistenza) avverto oggi l’eco di un passo del saggio di Momigliano su Hayden White: 

“Ma dovrò stare attento a tenere separati i miei pensieri privati dalle prove di cui faccio uso”. 

7. L’effetto che volevo ottenere dimostrando l’assenza di qualunque prova a carico del mio amico non si verificò. Dopo una serie di processi (tra cui un’assoluzione) la condanna a 22 anni venne confermata. Adriano Sofri ne trascorse 9 in carcere, dove rischiò di morire, e 7 in regime di semi-libertà. 

Da un punto di vista pratico Il giudice e lo storico fu dunque un fallimento. Diversa, e del tutto inattesa, la sua ricezione, testimoniata da traduzioni in varie lingue (la più recente, in russo, accompagnata da una nuova postfazione, è uscita un anno fa). Che l’analisi ravvicinata di un caso, legato a un passato che si allontana sempre più, possa coinvolgere lettori e lettrici di paesi lontanissimi, non finisce di sorprendermi. 

Qui tocco un tema – quello del caso come genere letterario – che ha segnato fin dall’inizio la mia traiettoria di ricerca. Mi sono chiesto se anche in quest’ambito io abbia rielaborato l’insegnamento di Momigliano: e ho riletto (pensando all’importanza del “caso” nella medicina greca) il suo densissimo saggio “La storia tra medicina e retorica”, uscito nel 1985. In esso si elencano tre elementi di convergenza tra storiografia erodotea e medicina ippocratica: la descrizione (istoria); l’osservazione minuziosa di sequenze di eventi; la ricerca di cause naturali. Del “caso” non si parla. Per quanto riguarda la retorica, Momigliano sottolinea che i retori antichi si limitavano a discutere il modo in cui gli storici presentavano narrazioni che consideravano vere: di questioni legate alla verità non si occupavano. Su questo punto, Momigliano riprendeva implicitamente la critica che aveva formulato qualche anno prima nei confronti della tesi di Hayden White (menzionato alla fine del saggio). 

8. Al principio degli anni ’90 venni invitato a Gerusalemme per inaugurare le “Menachem Stern Lectures”. Decisi immediatamente che nelle mie conferenze avrei discusso il neo-scetticismo dilagante. Ma da dove cominciare? E qui ebbi una specie di folgorazione. Di colpo mi resi conto che la tesi di Hayden White, secondo cui le narrazioni di finzione e le narrazioni storiografiche sono accomunate dall’uso della retorica, trascurava un dato macroscopico: l’esistenza di due tradizioni retoriche contrapposte. In quella che fa capo a Aristotele, poi continuata da Quintiliano, e ripresa da Lorenzo Valla, le prove hanno un’importanza centrale. Nella tradizione anti-aristotelica proposta da Nietzsche, e proseguita dai suoi epigoni, retorica e prove si escludono. Che nessuno (nemmeno Momigliano!) avesse pensato di confutare la tesi di White ricordando la sezione della Retorica in cui Aristotele discute i vari tipi di prove, mi sembrò, e mi sembra, incomprensibile.

Esposi quest’argomentazione in un saggio pubblicato in italiano nel 1994 – “Aristotele, la storia, la prova” – e poi in inglese nel 2000, nella raccolta delle mie “Menachem Stern Lectures”, intitolata, un po’ provocatoriamente, History, Rhetoric and Proof. I temi in essa affrontati erano molto vari: dallo scritto di Valla sulla falsa Donazione di Costantino allo spazio bianco dell’Educazione sentimentale di Flaubert analizzato da Proust in un saggio famoso. Di qui la duplice dedica, ad Arnaldo Momigliano e Italo Calvino. 

9. Distinguere tra le due tradizioni retoriche significava invadere il campo nemico per impadronirsi della sua arma principale: una mossa ispirata (per parafrasare una pagina famosa di Antonio Gramsci) alla guerra di movimento. Decisi di sviluppare questa strategia riflettendo sulle implicazioni cognitive delle narrazioni: un elemento ben presente a Italo Calvino, ma ignorato dalle tesi neo-scettiche, che insistono in maniera acritica sull’impossibilità di distinguere tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche. In un saggio intitolato “Descrizione e citazione”, incluso nel libro Il filo e le tracce. Vero falso finto (2006), scrissi:

“Un’affermazione falsa, un’affermazione vera e un’affermazione inventata non presentano, dal punto di vista formale, alcuna differenza. [Seguivano alcuni esempi, che qui tralascio]. Affermare che una narrazione storica somiglia a una narrazione inventata è ovvio. Mi pare più interessante chiedersi perché percepiamo come reali gli eventi raccontati in un libro di storia.” 

A questo punto mi concentrai sulla parola enargeia: un termine chiave della retorica greca, che oggi tradurremmo “vividezza”, e che Quintiliano aveva tradotto con l’espressione evidentia in narratione. Su questa strada paragonai “il gesto dell’oratore che indicava un oggetto invisibile, rendendolo quasi palpabile – enarges – a chi l’ascoltava, grazie al potere quasi magico della parola” allo storico “che riusciva a comunicare ai lettori la propria esperienza, – diretta, in quanto testimone, o indiretta – mettendo sotto i loro occhi una realtà invisibile. Enargeia era uno strumento per comunicare l’autopsia, ossia la visione immediata, per virtù di stile”. 

“Per virtù di stile”: e la prova? si chiederà qualcuno. E l’antiquaria, riscoperta da Momigliano nel suo grande saggio? 

In realtà, seguendo la pista dello stile e delle implicazioni cognitive della narrazione, scopersi che la periodizzazione proposta da Momigliano, sulla base della risposta degli antiquari al pirronismo storico, deve essere anticipata di un secolo. Il discorso di La Mothe le Vayer, Du peu de certitude qu’il y a dans l’histoire (Sulla scarsa certezza della storia), fu pubblicato nel 1668. Ma fin dal 1548 il filologo e antiquario udinese Francesco Robortello aveva menzionato, in un breve scritto sulla storiografia (De historica facultate disputatio), le argomentazioni di Sesto Empirico, “autore greco che ha esposto tutte le idee dei pirronisti”. Dopo aver identificato il fine della storia con la narrazione, precisando che lo storico è colui “che narra e spiega”, Robortello aveva respinto le critiche alla storia formulate da Sesto Empirico citando Tucidide, storico e antiquario:

“Ci sia d’esempio Tucidide, che nel sesto libro spiega in maniera particolareggiata e veridica le antichità delle città e delle popolazioni di tutta la Sicilia. E poiché per conoscere queste antichità sono utilissimi sia i resti degli edifici vetusti sia le epigrafi incise nel marmo, nell’oro, nel bronzo e nell’argento, è necessario che egli tenga conto anche di queste. Ancora Tucidide (c’è forse bisogno di cercare un’autorità diversa da quella di uno storico così illustre?) dimostra [probat], sulla base di un’epigrafe incisa in un marmo posto nell’Acropoli perché fosse di ammonimento ai posteri, qualcosa che molti avevano negato e cioè che essa si riferiva a Ippia, tiranno di Atene, che aveva avuto cinque figli”. 

Quando lessi questa pagina straordinaria Momigliano non c’era più. Potevo soltanto dedicargli il saggio in cui la commentavo.

10. Mi rendo conto che quello che sto cercando di analizzare è un caso legato a un fenomeno che mi appassiona da molto tempo: la ricezione. Senza gli scritti di Momigliano – le sue idee, le sue analisi, la documentazione che ha accumulato – una buona parte delle ricerche che ho condotto per anni sarebbero state impossibili. Ma il modo in cui i risultati precedenti condizionano gli sviluppi successivi (compresa un’eventuale riformulazione, parziale o totale) è spesso tutt’altro che chiaro. Tra gli elementi che influiscono in maniera imprevedibile sulla traiettoria, e sui risultati, c’è la criptomemoria, ossia la memoria inconsapevole: un fenomeno poco esplorato, su cui ho cominciato a riflettere. Farò un esempio, di cui mi sono reso conto da pochissimo tempo, tratto dal saggio, che ho citato ripetutamente, di Momigliano su Hayden White.

“Quel che è vero per me è vero per ogni altro storico, passato o presente”: quest’affermazione apparentemente non faceva che ribadire l’oggettività della verità storica, che Momigliano contrapponeva al relativismo di White. Ma proviamo a guardare il contesto in cui veniva formulata. Momigliano parlava di una ricerca in cui era impegnato in quel momento – “la caratterizzazione del cosiddetto ellenismo ebraico” – e ne sottolineava gli elementi personali:

“Io stesso sono ebreo, e so per esperienza quale prezzo gli ebrei abbiano dovuto e debbano pagare per rimanere ebrei. Non è per scopi accademici che raccolgo i fatti quando cerco di capire che cosa abbia indotto gli ebrei a rifiutare l’assimilazione con le civiltà circostanti. Ma potrei scegliere di rispondere a questa domanda in termini religiosi e morali. Se invece cerco di chiarirmi le idee su questo argomento in termini storici”, continuava Momigliano, è necessario l’esame di documenti specifici. 

In una delle numerose riletture di questo saggio (non saprei dire quale) avevo sottolineato a matita questo passo sul mio esemplare della raccolta einaudiana dei saggi di Momigliano, Sui fondamenti della storia antica. Oggi, rileggendo quella pagina, ho messo in rapporto il passo che avevo sottolineato con la frase “Quel che è vero per me è vero per ogni altro storico, passato o presente”, e di colpo ho pensato, per contrasto: Verus Israel. Fino a che punto (mi sono chiesto) la verità, intesa come nozione perenne, è compatibile con la pretesa del cristianesimo di essere “il vero Israele”, ossia di riformulare la verità del giudaismo in una verità superiore? 

Sulla pretesa del cristianesimo di essere l’inveramento del giudaismo ho cominciato a riflettere molti anni fa, forse sollecitato inconsapevolmente anche da quella pagina di Momigliano: e sono arrivato alla conclusione che, al di là del contenuto, la forma di questa pretesa ha generato una nozione di prospettiva storica sconosciuta agli antichi greci. In un saggio intitolato “Distanza e prospettiva. Due metafore” (1998) scrissi:

“Un cristiano come Agostino, riflettendo sul rapporto fatale tra cristiani ed ebrei, tra Nuovo e Vecchio Testamento, poté formulare l’idea che, attraverso il concetto hegeliano di Aufhebung, diventò un elemento cruciale della coscienza storica: e cioè che il passato dev’essere compreso sia nei propri termini sia in quanto anello di una catena che in ultima analisi arriva fino a noi. In quest’ambivalenza propongo di vedere una versione secolarizzata dell’ambivalenza cristiana verso gli ebrei (…) In altri termini: le parole verus Israel, ‘il vero Israele’, in quanto autodefinizione del cristianesimo, sono state il luogo di nascita di una concezione di verità storica che è ancora – uso una definizione volutamente onnicomprensiva – la nostra”. 

E concludevo: “Questa scoperta mi ha messo molto a disagio: un sentimento che sarà forse condiviso da altri, ebrei e non”. Il motivo è chiaro. L’idea di prospettiva storica e l’antigiudaismo cristiano hanno la stessa, ambivalente radice. 

11. Mi pareva di aver fatto una scoperta importante, e inquietante (l’unica idea che abbia mai avuto, come mi è capitato di dire). Nel corso degli anni ho cercato di analizzare gli anelli della traiettoria che mi aveva abbagliato – Paolo di Tarso, Agostino, Hegel – in alcuni saggi, ora inclusi nel volume La lettera uccide pubblicato da Adelphi. Ma le osservazioni formulate da Guy Stroumsa (per iscritto) e da Bruno Karsenti (a voce) mi hanno indotto ad approfondire la questione. E di colpo ho capito che nell’idea di prospettiva storica che proponevo qualcosa mancava: l’antiquaria. Ancora una volta dovevo fare i conti con Momigliano. La “combinazione tra storia filosofica e metodo antiquario di ricerca” proposta alla fine del suo grande saggio, è più che mai attuale – a patto di mettere, al centro della storia filosofica, la versione secolarizzata proposta da Hegel, e sviluppata dai suoi continuatori, dell’ambivalenza cristiana verso gli ebrei. 

Come avrebbe reagito Momigliano a questa rilettura della sua conclusione? Me lo sono chiesto molte volte. Probabilmente l’avrebbe respinta. Le sue critiche mi mancano molto. 

11. Ma fino a che punto la “combinazione tra storia filosofica e metodo antiquario di ricerca” è traducibile in altre culture? Si tratta di una domanda che scaturisce dal mondo globalizzato in cui viviamo – un mondo in cui la centralità della tradizione intellettuale europea, diffusa per secoli dalla colonizzazione, non può, diversamente dal passato, essere data per scontata. 

Ritengo che la risposta debba distinguere tra “storia filosofica” e “metodo antiquario di ricerca”. Comincio dal secondo. Recentemente, in un saggio intitolato “Storia dell’arte, da vicino e da lontano”, ho sostenuto che un’ipotetica storia globale dell’arte potrebbe utilizzare come strumento la connoisseurship, il metodo del conoscitore: una figura radicata in una tradizione antiquaria documentata non solo in Europa ma in Cina, in Giappone, in India. La “storia delle cose” (non l’attribuzionismo, che ha senso solo in determinati contesti) è traducibile in culture tra loro lontanissime. 

È possibile estendere quest’affermazione all’idea di prospettiva storica che propongo di mettere al centro della “storia filosofica” in cui Momigliano si riconosceva? Forse sì, nella misura in cui quell’idea fa parte delle categorie analitiche elaborate dalla cultura europea, che l’espansione coloniale ha diffuso in altri continenti. L’efficacia della traslitterazione nell’alfabeto latino di lingue non europee è un esempio eloquente di quest’intreccio tra violenza e efficacia conoscitiva. 

Tutto ciò mi ha portato lontano da Momigliano – ma solo apparentemente. Ho imparato la lettura lenta (con cui Nietzsche identificava la filologia) dai seminari di Delio Cantimori. Dagli scritti di Momigliano, letti e riletti nel corso dei decenni, ho imparato che bisogna saper guardare in direzioni imprevedibili: magari formulando domande che ci sovrastano, e alle quali non sapremo rispondere. Prendo ad esempio il saggio “Da G. G. Zerffi a Ssu-ma Chien”, in cui Momigliano s’interrogò sul modo in cui la storiografia occidentale venne trasmessa alla Cina e al Giappone da un esule ungherese naturalizzato britannico, Gustavus George Zerffi (originariamente Hirsch), in un libro intitolato The Science of History, pubblicato a Londra nel 1879 in trecento copie. “Cento copie vennero inviate in Giappone,” scrisse Momigliano “una passò al British Museum, dove rimase intonsa fino all’intervento del sottoscritto nel luglio 1964”. Un particolare minimo, all’interno di un saggio anomalo, che comunica un tratto tipico di Momigliano: un impulso irresistibile alla ricerca. 

Presento qui una versione leggermente modificata del testo letto il 17 novembre 2022 alla Biblioteca Classense di Ravenna, all’interno del ciclo Maieutiké. Ringrazio Kyong Ryong Lee e Simona Cerutti per le loro preziose critiche.

A. Momigliano, “Linee per una valutazione di Fabio Pittore” (1960), poi in Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, I, Roma 1966, pp. 55-68. 

C. Dionisotti, Ricordo di Arnaldo Momigliano, Bologna 1989, pp. 17-18.

A. Momigliano, “Friedrich Creuzer and Greek  Historiography”, ristampato in Contributo alla storia degli studi classici, Roma [1955], 1979, pp. 233-248.

P. C. Bori, CV, 1937-2012, Bologna 2012, p. 111.

C. Ginzburg, “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Torino 1979, pp. 59-106 (poi in Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino 1986, pp. 158-209).

A. Momigliano, The Rhetoric of History and the History of Rhetoric: On Hayden White's Tropes (1981), poi in Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1984, pp. 49-59 (tr. it. Sui fondamenti della storia antica, Torino 1984, pp. 465-476). Per una versione diversa, di poco precedente, si veda “Studi biblici e studi classici. Semplici riflessioni sul metodo storico”, in Id., Pagine ebraiche, a cura di S. Berti, Roma 2016, pp. 5-12. 

C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano 2006, pp. 8-9. 

A. Momigliano, Sui fondamenti, pp. 466-468. 

A. Momigliano, “Storia antica e antiquaria”, in Sui fondamenti della storia antica, pp. 3-45. Per una anticipazione di poco precedente si veda [Antiquari e storici dell’antichità], Decimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, a cura di R. Di Donato, Roma 2012, pp. 285-290. 

Ancient History and the Antiquarian. Essays in Memory of Arnaldo Momigliano, ed. by M. R. Crawford and C. R. Ligota, London 1995; Momigliano and Antiquarianism. Foundations of the Modern Cultural Sciences, ed. by P. N. Miller, Toronto 2006. 

A. Momigliano, The Classical Foundations of Modern Historiography, with a Foreword by R. Di Donato, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1990, p. 75. 

A. Momigliano, “Storia antica e antiquaria”, p. 39.

Cfr. di chi scrive, “Rivelazioni involontarie. Leggere la storia contropelo”, in La lettera uccide, Milano 2021, pp. 25-44.

C. Ginzburg, “Refléxions sur une hypothèse vingt-cinq ans après” in L’interprétation des indices. Enquête sur le paradigme indiciaire avec Carlo Ginzburg, a cura di D. Thouard, Villeneuve d’Ascq 2007, pp. 37-47. 

Vedi per esempio “Conversare con Orion” in La lettera uccide, pp. 135-141.

C. Ginzburg, “Prove e possibilità. Postfazione a Natalie Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, 1984” in Id., Il filo e le tracce, pp. 295-315, in particolare p. 310. 

S. Friedländer, Where Memory Leads, New York 2016, pp. 243-244. 

Pubblicato nel 1992 e ristampato in Il filo e le tracce, pp. 205-224, in particolare p. 220. 

Cfr. A. Barberi, Clio verwunde(r)t: Hayden White, Carlo Ginzburg und das Sprachproblem der Geschichte, Wien 2000. 

G. Battiston, “Hayden White: il passato messo in scena” (Minima & Moralia, 20 marzo 2018).

Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione (1583-1599), a cura di A. Del Col, Pordenone 1990.

A. Momigliano, Sui fondamenti della storia antica, pp. 473-74. E vedi il mio commento in Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Macerata 2022, p. 68-70. 

C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino 1991, p. VIII (poi ristampato con aggiunte: Milano 2006; Macerata 2020).

A. Momigliano, “Retorica della storia”, Sui fondamenti della storia antica, p. 470. 

C. Ginzburg, “Il caso e i casi. A proposito di Nondimanco”, in Doppiozero, 12 aprile 2019.

A. Momigliano, “History between Medicine and Rhetoric”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia, serie III, vol. 15, n. 3 (1985), pp. 767-780, in particolare pp. 767, 771-772 (Id., “La storia tra medicina e retorica”, Tra storia e storicismo, Pisa 1985, pp. 11-24). 

C. Ginzburg, “Aristotele, la storia, la prova” Quaderni storici 85 (1994), pp. 5-17. (History, Rhetoric and Proof, The Menachem Stern Lectures.1999; Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano 2000; Macerata 2022).

C. Ginzburg, “Descrizione e citazione”, in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano 2006, p. 18-19. 

29 “Descrizione e citazione”, Il filo e le tracce, p. 27. Anthony Grafton, un anno dopo la pubblicazione del mio saggio, di cui evidentemente ignorava l’esistenza, segnalò l’importanza della pagina di Robortello senza però metterla in rapporto con la sua lettura degli scritti di Sesto Empirico, e quindi con l’argomentazione avanzata nel saggio “Ancient History and the Antiquarian” da Momigliano (di cui Grafton era stato allievo): cfr. What was History? The Art of History in Early Modern Europe, Cambridge 2007, pp. 23-24.

A. Momigliano, “La retorica della storia”, Sui fondamenti della storia antica, p. 470. E cfr. Id., Pagine ebraiche, introduzione e a cura di S. Berti, Roma 2016; G. G. Stroumsa, “Momigliano and the History of Religions”, in Momigliano and Antiquarianism. Foundations of the Modern Cultural Sciences, a cura di P. N. Miller, Toronto Buffalo London 2006, pp. 286-311.

C. Ginzburg, “Distanza e prospettiva. Due metafore”, in Occhiacci di legno. Dieci riflessioni sulla distanza, Macerata 2019, pp. 203-226, in particolare pp. 215, 225.

C. Ginzburg, “La lettera uccide. Su alcune implicazioni di 2 Cor. 3, 6”; “Le nostre parole, e le loro. Una riflessione sul mestiere dello storico, oggi”; “Svelare la rivelazione. Una traccia”, in La lettera uccide, pp. 45-68; 69-85; 221-236.

G. G. Stroumsa, “The Hidden Face of History: Carlo Ginzburg on Religion”, in Id., Religion as Intellectual Challenge in the Long Twentieth Century. Selected Essays, 2021, pp. 161-178. Bruno Karsenti è intervenuto su questo tema durante l’incontro sui lavori di chi scrive tenutosi a Cerisy nel settembre 2022.

“Svelare la rivelazione”, in La lettera uccide, pp. 229-230. 

Cfr. C. Ginzburg, “Storia dell’arte, da vicino e da lontano”, Mitteilungen des Kunsthistorisches Institutes in Florenz, LXI (2019), pp. 275-285.

Si veda, di chi scrive, “Etnofilologia. Due studi di caso”, in La lettera uccide, pp. 117-133. E vedi, più in generale, il libro molto stimolante di P. Vesperini, Que faire du passé? Réflexions sur la ‘cancel culture’”, Paris 2022. 

A. Momigliano, “Da G. G. Zerffi a Ssu-ma Chien” [1964], in Terzo contributo, I, pp. 215-227, in particolare p. 216. 

 

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