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L'invenzione della Grecia

16 Luglio 2025

Nel 2001 il grecista Diego Lanza, professore all’università di Pavia, pubblicò un saggio intitolato Dimenticare i Greci, che destò non poco stupore. Inserito nella monumentale opera einaudiana I Greci: storia, cultura, arte, società, diretta da Salvatore Settis (vol. 3, pp. 1433-1466), lo scritto di Lanza, con quel titolo volutamente provocatorio e paradossale, si proponeva quale contributo polemico contro gli eccessi del classicismo, contro certi approcci idealizzanti e fuorvianti, che Lanza stigmatizzava ironicamente come “fondamentalismo classicistico”, e che si fondano su una reverenza incondizionata verso la cultura e la lingua della Grecia antica. Chi ha praticato in passato e continua a praticare tale prospettiva tende a rintracciare nell’Ellade del passato valori e ideali sempiterni, impedendo un confronto serio e distaccato – verrebbe da dire ‘storicistico’ – con quella cultura e non cogliendo la sua forte estraneità rispetto ai tempi moderni. Eppure, la mitizzazione della patria greca, declinata come patria dell’Europa o dell’occidente, ha accompagnato per generazioni almeno a partire dal primo Ottocento le riflessioni di filosofi, poeti e letterati, oltre agli studiosi specialisti di antichistica. Gli usi (e gli abusi) della Grecia antica, l’idea rassicurante di una Grecia isolata e culturalmente autarchica, sostanzialmente estranea al resto del mondo mediterraneo e dell’Asia minore di cui non era che una parte, non sono qualcosa di neutrale, ma corrispondono a precise strategie ideologiche, talora anche con ricadute politiche.

A Mauro Bonazzi, studioso di filosofia antica, già professore in Olanda all’università di Utrecht e ora presso l’alma mater di Bologna, si deve una recente ricostruzione, tanto approfondita quanto convincente, dell’uso ideologico della Grecia quale mitizzata culla della civiltà occidentale, come specchio in cui riflettere la nostra immagine di moderni alla ricerca di valori e paradigmi in cui misurare le nostre insufficienze. Il titolo del volume, Il demone della nostalgia. L’invenzione della Grecia da Nietzsche a Arendt (Einaudi, 2025), indica chiaramente l’impostazione del discorso: ripercorrere, attraverso alcune tra le tappe più significative, il modo in cui la modernità si è riflessa nell’antica Grecia costruendo con essa un rapporto esistenziale, teorico e identitario che spesso si è tramutato in una vera e propria ossessione. Il tutto all’insegna della ‘nostalgia’, per l’appunto, termine moderno (ancorché fondato su parole greche come nostos, ‘ritorno’ e algos ‘dolore’) coniato nel Seicento, ma ottima chiave ermeneutica per fare luce sulle teorie di quanti hanno contribuito alla costruzione di una Grecia idealizzata che di volta in volta diviene modello, aspirazione o addirittura feticcio ideologico.

Il percorso che Bonazzi ricostruisce con padronanza delle fonti e precisione espositiva riguarda soprattutto la Germania, perché è nella cultura tedesca che si è alimentato il mito di una ‘affinità elettiva’ tra greci antichi e tedeschi moderni, un’identificazione artificiosa, che trovò la sua espressione più celebre nella frase di Hegel: «Al nome Grecia l’uomo colto in Europa, soprattutto noi tedeschi, si sente a proprio agio come a casa propria». L’ideologia filoellenica ebbe inizio in effetti con gli studi sull’arte antica di Johann Joachim Winckelmann, anche se in quel caso il primato dei Greci era limitato sostanzialmente all’ambito della perfezione estetica e si definiva in una dimensione cosmopolita, senza riconnettersi specificamente con il tema dell’identità nazionale. Cosa che avviene invece nelle teorie neoumanistiche di Wilhelm von Humboldt e di Friedrich August Wolf, professore ad Halle e a Berlino, nonché teorico della Altertumswissenschaft, la ‘scienza dell’antichità’, intesa come disciplina autonoma e metodologicamente agguerrita, affrancatasi per sempre dalla filologia dei testi sacri e dal ruolo sostanzialmente ancillare che aveva avuto fino ad allora nel paesaggio dell’istruzione universitaria. Con Wolf e Humboldt la Grecia diventa davvero la patria ideale con cui confrontarsi per scoprirsene i veri eredi, il modello di civiltà superiore al quale tendere per la rinascita spirituale e intellettuale della Germania. Nascono qui alcune selezioni discriminanti, come per esempio l’esclusione dall’ambito della “cultura classica” di civiltà e lingue dell’antico bacino mediterraneo (quella ebraica, per esempio), non riconosciute come vere Geistkulturen e perciò relegate in un orizzonte e in un ambito disciplinare poco definito, quello dell’orientalistica. Nasce qui la certezza del grande potenziale formativo insito nello studio della lingua e della letteratura greca, cui è correlata l’invenzione del Ginnasio umanistico, teorizzato e avviato da Humboldt nella veste di ministro dell’istruzione del governo prussiano: un modello di scuola superiore centrato sul predominio delle lingue classiche nell’offerta didattica, che si impose via via in tutta Europa. Ancorare il sistema formativo alla civiltà greca antica rispondeva sul piano politico anche a una chiara aspirazione: quella di superare la frammentazione politica del mondo germanico di allora in nome dell’unità culturale e spirituale superiore che faceva della Germania una Kulturnation (in opposizione Staatsnation).

Un capitolo a sé stante di questa vicenda è quello che concerne Friederich Nietzsche, la figura che più radicalmente ha messo in discussione il paradigma del filellenismo tedesco, svelando le mistificazioni del classicismo e smontando l’immagine idealizzata della Grecia antica per valorizzare, di contro, una Grecia arcaica, primitiva, dominata dalle pulsioni, dalla violenza, dall’istinto, in una parola una Grecia ‘dionisiaca’, di cui la modernità europea, anche e soprattutto quella tedesca, è traditrice e non certo erede. Tutto questo è risaputo. Eppure, perfino Nietzsche, a ben guardare, risulta per taluni aspetti prigioniero di certi pregiudizi classicistici. Cos’altro è la distinzione tra ‘dionisiaco barbarico’ e ‘dionisiaco greco’, teorizzata nella Nascita della tragedia, se non mutatis mutandis un’affermazione della superiorità della cultura greca occidentale, capace di creare la tragedia, diversamente dalle civiltà barbare d’oriente? E l’idea che lo spirito tragico dionisiaco, nonostante tutti i socratismi e gli alessandrinismi, sia ricomparso sottotraccia nella musica tedesca (corali luterani) fino a ritrovare nei Musikdramen di Wagner una nuova forma in sintonia con quella antica, non è forse una riaffermazione dell’affinità spirituale tra Greci antichi e tedeschi moderni? Il proclamato avversario di ogni idealizzazione della Grecia classica, suo malgrado non fuoriesce del tutto dal perimetro di quei paradigmi di pensiero fortemente identitari.

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Nel corso del Novecento la rivitalizzazione di questo paradigma di pensiero che potremmo chiamare ‘nostalgico’, si concentra soprattutto sull’interpretazione di Platone, riscoperto e riproposto da molti intellettuali come modello per una rigenerazione spirituale dell’Europa. Una riscoperta che si rivela spesso una distorsione: il grande antichista Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, celebratissimo princeps philologorum, pubblica nel 1919-1920 un’importante monografia su Platone a ridosso del crollo della monarchia prussiana e dell’avvento della Repubblica di Weimar, proponendo una lettura integralmente politica del filosofo ateniese, che acquista senso solo se rispecchiata nella realtà della Germania contemporanea. Le idee di Platone vengono intese innanzi tutto come una risposta alla crisi di Atene e come un tentativo di risolverla che gli ateniesi avevano rifiutato, con la conseguenza che nella città platonica Wilamowitz rintracciava un modello di Stato da contrapporre alla recente democrazia parlamentare e repubblicana. Sulla scia di Wilamowitz l’appropriazione di Platone, letto in chiave prettamente politica, prosegue con il cosiddetto Terzo Umanesimo (quello di Werner Jaeger, che ne fu l’instancabile ideologo e promotore, e di Julius Stenzel), dove Platone è il punto di riferimento principale per la salvaguardia dei valori eterni del classicismo e il teorico di un’idea di Stato da intendere come «unità organica vivente» capace di trasmettere ai suoi membri l’eticità autentica. Pochi anni dopo i nazisti, appropriandosi di questo Platone (e di questa visione della Grecia) potranno presentarsi come i guardiani della Germania e dell’Europa intera, gli unici capaci di proteggere una tradizione che sembrava ormai prossima al collasso. L’affinità tra greci e tedeschi non è più soltanto spirituale, bensì razziale, secondo il postulato per cui i greci del V secolo sarebbero discendenti di popolazione germaniche emigrate secoli prima dal Nord Europa per colonizzare l’area mediterranea. La nostalgia diventa strumento di potere, una raffinata arma politica, di cui si avvale anche un grande pensatore come Heidegger, il quale tende a trasfigurare la Grecia antica in un’esperienza originaria dell’essere, irriducibile al pensiero moderno, una Grecia arcana e prelogica che si oppone alla tecnica e al razionalismo.

Intellettuali di grande spessore quali Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Simone Weil, Erich Auerbach e Rachel Bespaloff, interrogandosi sulla cultura europea a partire dal trauma dell’esilio e della Shoah, hanno sottoposto ad esame critico la grande narrazione della civiltà occidentale incentrata sul filellenismo classicista. Nel loro caso spesso la nostalgia per l’antico diventa una forma di resistenza culturale, di lotta contro l’annientamento. La ricostruzione di Bonazzi si chiude con due figure centrali del pensiero politico contemporaneo: Hannah Arendt e Leo Strauss. Per entrambi la Grecia rimane un orizzonte imprescindibile, ma non più assoluto. È il tempo della «libertà dagli antichi», come dice Arendt, e insieme del ritorno selettivo: la Grecia non è più un mito da adorare, bensì un repertorio di esperienze da esplorare. Ciò non toglie che anche nel pensiero di Arendt agisca sotto traccia l’idealizzazione filoellenica, per esempio per la sua valorizzazione della polis democratica periclea, intesa come riattualizzazione del modello omerico in una dimensione collettiva e non più individuale. La ‘vera’ Grecia per Arendt, quella più autentica e meritevole di essere riscoperta, dopo essere stata libera da ogni incrostazione e pregiudizio, è precisamente quella ‘politica’, la democrazia del V secolo a.C., in cui le parole e i discorsi danno forma alla decisione e all’azione politica.

Il percorso tracciato da Mauro Bonazzi fa ben capire come il passato non sia mai neutro e come ogni sguardo rivolto all’antico sia sempre anche uno specchio del presente. Non è necessario, dunque, “dimenticare” i greci, seguendo ‘indicazione paradossale di Diego Lanza: basta tenere presente che ogni epoca ha inventato un’antichità greca di comodo, a seconda delle proprie aspettative e in funzione di sé stessa e dei suoi bisogni. In fondo, come scrive Nietzsche in Umano troppo umano, i greci non sono altro che «un nitido specchio che riflette sempre qualcosa che non è nello specchio stesso».

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TAGGED: Mauro Bonazzi