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Conversazione con Andrea Bajani / Chi vuole ancora imparare?

Una prima domanda che ci stiamo ponendo tutti. Chi è l'insegnante oggi e quale è la sua funzione? Nel tuo libro La scuola non serve a niente, tra le metafore centrali c'è quella del rapporto docenti-studenti come un rapporto tra separati in casa...

Degli insegnanti io ho un’esperienza mediata, visto che non insegno, pur portando avanti progetti in cui sono coinvolti gli studenti. Quando lavoro con i loro studenti, gli insegnanti si tengono giustamente in disparte. E quelli che conosco li incontro fuori da scuola, senza ragazzi. Per questo è difficile dire che cosa sia un insegnante senza vederli insieme agli studenti. Perché l’insegnante è prima di tutto una figura relazionale. Senza relazione, mi verrebbe da dire, cade il verbo. Senza qualcuno a cui insegnare, l’insegnante si dissolve. Proprio questo mi sembra, però, un punto centrale e drammatico. Mi sembra che oggi viviamo un’epoca in cui tutte le persone vogliono insegnare e nessuno vuole più imparare. Tutti vogliono parlare e non c’è nessuno che vada a sedersi sulla sedia dell’ascoltatore. Ecco, questa mi sembra la grossa crisi che viviamo, che porta a milioni di soliloquianti randagi per il mondo fisico e digitale. Quando nessuno vuole più imparare, l’insegnante non serve più a niente. Ovviamente tutti questi soliloqui stanno mandando in apnea i cervelli delle persone. Di qui il bisogno lancinante e vitale che si comincia a sentire di qualcuno che abbia voglia di mettersi a insegnare, restituire ossigeno, salvare. 

È interessante che tu, spesso invitato a scuola, sia percepito dagli insegnanti come lo specialista che risolve situazioni compromesse. Questo dice molto sulla concezione che abbiamo della letteratura e sullo status dello scrittore. Viene da pensare che il mondo della cultura goda ancora della riverenza che viene dal fascino che esercita. È quello su cui si costruisce anche la riflessione di Massimo Recalcati sulla scuola e sull'«evaporazione del professore». Il problema degli insegnanti, o almeno della grande parte di essi, è che non hanno più questa possibilità.

Io non so chi ha possibilità. La possibilità penso che una persona se la conceda, prima di tutto. Ogni volta che io entro in una classe c’è qualcosa che mi commuove moltissimo. Il pensiero cioè che a dispetto dell’insensatezza caotica che infuria fuori da scuola, a dispetto delle famiglie disastrate da cui provengono alcuni dei ragazzi, a dispetto della solitudine dilagante, conseguenza di un patrimonio comunitario ormai completamente dilapidato, a dispetto di tutto questo la scuola offre un riparo. Guardo quei ragazzi e penso che quella cosa che gli stiamo offrendo, quella classe, i loro compagni, sia qualcosa di immenso. Ecco, per me questa è la grande possibilità. Per i ragazzi e per chi insegna. 

La tua fiducia nel linguaggio e nel potenziale liberatorio della parola, pensiamo al bel laboratorio con i ragazzi sui neologismi descritto nel libro e a quello che ne segue, è confortante e davvero commovente, per il potenziale utopico che incarna. Cosa sono la «Ludovita» e il «Rinuncianesimo»?

È stato prima di tutto un entusiasmante invito a guardare, un pungolo al pensiero critico. Ho chiesto ai ragazzi di setacciare il mondo alla ricerca di qualcosa – un atteggiamento, un comportamento, un oggetto, persino – che non avevano mai visto e che pensavano avesse bisogno di un nome nuovo. Era un invito, dunque, a non dare per scontato il mondo per come lo conoscevano. Inventariarlo, per poi inventare, che è il normale processo di conoscenza, che l’arte stessa condivide. Il Rinuncianesimo è stata una grande invenzione e un triste inventario: si sono resi conto, partendo dalla loro stessa esperienza, che c’è una tendenza diffusa a rinunciare ancora prima di provare a fare qualcosa. Rinunciare come ideologia, o come religione, da qui il neologismo rinuncianesimo. La loro esperienza li portava a chiedersi “Come mai dovrei andare a scuola se tanto tutti intorno dicono che non troverò comunque lavoro e che dunque sarà uno sforzo inutile?”. La famosa urgenza della domanda ingenua di cui parlava la Szymborska. La Ludovita ne è la causa e la conseguenza insieme. È tutto un gioco, tutto un grottesco e gigantesco pop corn.

La scuola non è più da tanto veicolo di mobilità sociale. Eppure nonostante tutto svolge un'opera fondamentale, di integrazione in termini generali per chi vive in quella “terra selvaggia” che è l'adolescenza, a maggior ragione per soggetti svantaggiati, siano essi autoctoni subalterni o migranti. Continua a essere l'unico posto in cui soggetti di pari età gratuitamente e liberamente possono entrare in contatto con l'alterità e gli altri, in senso concreto. Tu stesso parli dei «Professori della testimonianza», «fuochi che divampano sopra la cattedra»: pensando alla realtà del mondo scuola, che è etimologicamente un “lavoro” prima che “professione” fatta di molteplici soggetti con storie motivazionali differenti, esistono però delle difficoltà rispetto alla possibilità che un compito simile entri strutturalmente nella didattica... 

A me sembra che non sia un problema di didattica. Ma di passioni. Se strutturalmente si riuscisse ad appassionarsi di più, anche la didattica ne gioverebbe. In maniera magari più anarchica, che di certo non fa male alla salute di chi insegna e di chi apprende. Insomma, siamo una società ammalata di depressione. Chi lo dice viene tacciato di allarmismo, chi non lo dice prende psicofarmaci o gocce per dormire. 

Nella tua postura rispetto alla scuola da un lato tu ti percepisci più vicino agli studenti che non ai professori, e, dall'altro il tuo essere adulto con i ragazzi si pone fuori dalla relazione di potere in cui l'insegnante per statuto incarna. È un'impressione corretta?

Sì e no. O meglio, se è quello che voi ricavate dalle mie parole, è un’impressione legittima. In realtà mi sento più vicino agli insegnanti come posizione nella società. Però è vero che dei ragazzi mi piace la vitalità, l’insubordinazione, lo sproposito, il paradosso. C’è da chiedersi come mai poi sparisce. Dove viene stivata. Se trovassimo l’hangar in cui è stoccata tutta la vitalità degli adulti ci sarebbe da far festa. 

Il nodo della valutazione, in senso assoluto e fuori dal mondo scuola, è intricato: intendo dire che anche uno scrittore, un saggista si devono confrontare con editor, redattori, review, spesso si viene “bocciati”, per non dire del lungo tirocinio al parlare in pubblico, che per moltissimi è una vera sofferenza...

Non lo so. Ogni tanto ho l’impressione che il proliferare di didattiche non sia che uno tra i tanti mercati che il mercato ha prodotto. L’ennesimo filone redditizio prodotto dal capitalismo, nonché un buon modo per canalizzare il disastro sociale che ha prodotto tutta questa devastazione antropologica. Non mi si fraintenda: credo che la didattica sia di un’importanza fondamentale, ma non è questo il punto. Il punto è che ci sono state generazioni e generazioni di insegnanti che si sono succedute alla cattedra semplicemente perché pensavano che quella fosse una cosa importante per tutti, noiosi o brillanti che fossero. E generazioni e generazioni di studenti e di famiglie che hanno preso posto tra i banchi semplicemente perché pensavano che quella fosse una cosa importante per tutti. Adesso non lo pensa più nessuno. Punto. 

La scuola non serve a niente, come dice il titolo stesso del libro da te scritto e curato, poiché è anche un'antologia di scritti sulla scuola. Non deve servire se non «a cambiarci la disposizione delle stanze», spostare il modo 'naturale' e 'nativo' che ci portiamo dentro dal privato allo spazio comune. Su questa base molti docenti invocano una scuola senza voti e interrogazioni, liberata dallo schema spiegazione-prestazione-verifica. Ovviamente l'opposizione a proposte simili si basa sul fatto che poi "non li prepariamo all'università" e che venga meno l'autorità del docente. Il sistema delle certificazione delle credenziali su cui si regge il mondo del lavoro salterebbe... C'è una via di uscita?

Bella domanda. Certo. Perché, come dicevo all’inizio di questa conversazione, ce n’è bisogno come dell’aria. Le Università popolari sono sempre più popolate, e i gruppi spontanei di condivisione di conoscenze si moltiplicano. A star soli non si diverte più nessuno, e il cannibalismo non è fatto per noi. O almeno lo spero. Forse la scuola rinascerà come un bisogno, e allora sarà una scuola più forte. E se questa devastazione sarà servita alla creazione di quel bisogno, be’, ne sarà valsa la pena.

 

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