Coltivare l'anima nella supersocietà

7 Aprile 2024

Inizia oggi, con Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, una rubrica bimestrale di conversazioni psicosociali: Giaccardi è una sociologa italiana che ha approfondito tematiche quali la spiritualità contemporanea, la religiosità diffusa e il ruolo dei media nella trasmissione dei valori culturali e religiosi. Si è occupata anche di dinamiche sociali legate alle nuove tecnologie e alla digitalizzazione, esplorando come queste influenzino le relazioni umane e la formazione delle identità individuali e collettive. Magatti è un sociologo italiano, editorialista del Corriere della Sera, che si è occupato di cultura, religione, famiglia, lavoro.

Conosco Chiara Giaccardi e Mauro Magatti da più di vent'anni, sin dai tempi in cui ero loro studente agli albori di questo nuovo secolo. All'epoca, la riflessione sociologica ruotava attorno alla crescente riflessività del sé e a come ciò stesse trasformando il nostro modo di vedere il mondo. Negli ultimi anni, Giaccardi e Magatti hanno focalizzato i loro sforzi sui concetti di generatività e libertà. Nel 2023 hanno pubblicato un libro di grande rilevanza dal titolo Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà? (Il Mulino), e da qualche settimana hanno dato alle stampe il loro ultimo lavoro, Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo (Il Mulino).

Oggi, Giaccardi e Magatti sono i sociologi italiani cattolici e progressisti più importanti e visibili (anche a livello internazionale). Il loro approccio sociologico, fortemente influenzato dalla psicoanalisi, mi ha catturato fin dal primo incontro ed è per questo che li ho scelti come primi ospiti per questa serie. Li ho intervistati con l'obiettivo di non solo aiutarci a comprendere cosa sia la supersocietà, ma anche se e come sia possibile coltivare l'anima in questo nuovo contesto.

La sociologia è la scienza che studia i fatti sociali considerati nelle loro caratteristiche costanti e nei loro processi. Chiara, Mauro: in che epoca viviamo?

Viviamo in uno spazio inedito, in cui si moltiplicano i rischi ma anche le possibilità di riprendere in mano e ricostruire il nostro destino, per la prima volta, su scala planetaria. E questo richiede di cambiare paradigma, per apprendere ad abitare la complessità come il nuovo tempo esige.

Gli ultimi trent’anni – quelli della globalizzazione lineare – hanno fatto segnare un enorme balzo in avanti. Siamo di più, viviamo di più, viviamo meglio. Ma adesso tutto questo richiede un nuovo “salto quantico”: abbiamo urgente bisogno di un pensiero – e quindi di forme di vita – che siano all’altezza delle sfide che abbiamo davanti.  E che derivano dai successi che abbiamo raggiunto fino a qui. 

Il XXI secolo è destinato a vedere cambiamenti grandiosi. Non necessariamente per il meglio. Finita quella stagione – che Bauman aveva sociologicamente definito liquida – siamo entrati nella supersocietà, termine che vuole dare concretezza all’idea di “complessità”.

Prima di concentrarci sulla supersocietà, potreste chiarire cosa si intende per società e dare una panoramica su cosa sia (o sia stata) la globalizzazione?

Quello che sosteniamo è che la parola società, sorta tra settecento e ottocento in rapporto alla rivoluzione industriale, ai fenomeni di urbanizzazione e all’emergere delle democrazie moderne, non è più sufficiente. Pur nella varietà delle interpretazioni, ‘società’ indicava l’insieme dell’organizzazione sociale all’interno degli Stati nazionali europei, che tendevano a creare contesti relativamente omogenei. Anche nelle interpretazioni più raffinate, come quella di Simmel – che si riferiva all’insieme aperto e dinamico delle forme della relazionalità umana – l’oggetto del discorso riguardava il piano dei rapporti tra umani.

La globalizzazione ci ha fatto fare un grande salto. In primo luogo perché si è venuto a creare, per la prima volta nella storia, un tecno-sistema planetario che permette scambi, mobilità, interazioni impensabili fino a una generazione fa.

In secondo luogo, perché l’enorme crescita economica che si è realizzata nei decenni a cavallo del secolo (quando il Pil del mondo è raddoppiato in vent’anni) ha reso manifeste le implicazioni problematiche dal punto di vista della biosfera. Che, come ben sappiamo, è unica sul pianeta terra – al di là dei sogni di fuga su Marte che un magnate come Jeff Bezos ha proposto (e non solo come boutade).

Infine, è questa terza dimensione che noi riteniamo debba essere considerata, si è radicalmente trasformata la noosfera, cioè la sfera in cui vengono prodotti significati, discorsi, simboli: sia in rapporto allo sviluppo degli apparati mediali, sia in rapporto alla mobilità umana nelle sue diverse forme. 

A differenza della ‘globalizzazione’, che indicava una tendenza, la ‘supersocietà’ indica una condizione, dai molti tratti inediti, all’interno del quale si svolgono la vita sociale, economica e politica oggi. Una condizione in cui biosfera, tecnosfera e noosfera sono intrecciate e inseparabili, ma dove la tecnosfera rischia di colonizzare le altre due, magari nel nome della ‘sostenibilità’. Come tale, la supersocietà è aperta a esiti molto diversi.

Quali?

Una prima ipotesi, che purtroppo appare oggi quanto mai plausibile, è costituita dal conflitto. Dopo il trentennio della globalizzazione siamo entrati in un lungo periodo di rafforzamento dei confini, scontri di potere tra ‘sovranità’ e guerra come strumento geopolitico di ridefinizione degli equilibri tra potenze su scala planetaria.  Lo “spirito di vendetta” di cui scriveva Nietzsche in Così parlò Zarathustra diventa così un modo di pensare legittimo e socialmente accettato. “Lo spirito di vendetta consiste nel fatto che se io soffro, devo far soffrire altri per alleviare la mia sofferenza”. (B. Stiegler, Pensare, curare, Milano, Meltemi 2024, p. 43 corsivo nel testo). La vendetta diventa un pharmakon espiatorio che trasforma la sofferenza in odio e risentimento.

Una seconda possibilità riguarda invece la verticalizzazione della vita sociale. I sistemi sono troppo grandi e troppo complessi per essere affidati ai processi democratici. Questo è quello che pensano i tanti autocrati che abitano il pianeta, ma tutto sommato anche i tecnocrati che immaginano di affidare all’intelligenza artificiale le questioni che ci assillano, o alla ‘governamentalità algoritmica’ la gestione della complessità.

Questi due scenari non sono però gli unici: c’è la possibilità, infatti, che la supersocietà ospiti forme umane ancora più avanzate (per dirla con Whitehead, non solo per sopravvivere, ma per vivere meglio), caratterizzate da una crescente consapevolezza del vincolo ambientale, una capacità di cura delle relazioni sociali e della vita in genere, un atteggiamento di tolleranza per la diversità. 

Ma tutto questo non può venire senza un nuovo spirito, un Geist all’altezza dei tempi, che deve essere coltivato.

Geist è una parola tedesca che può essere tradotta in italiano come "spirito" o "mente". Tuttavia, il suo significato va oltre il semplice concetto di mente o spirito individuale e può anche implicare un senso di cultura, coscienza collettiva o spirito del tempo

Nella prospettiva di Jung, l'archetipo del Sé, che rappresenta l'immagine totale e unificata dell'individuo, è strettamente collegato al concetto di Geist. Jung credeva che il compito principale dell'individuo fosse quello di realizzare e integrare il Sé, un processo che porta alla realizzazione dell'intera persona e alla connessione con l'inconscio collettivo, o Geist.

Quindi, mentre per Hegel e altri filosofi tedeschi il concetto di Geist riguardava più ampiamente l'evoluzione della cultura e della storia umana, per Jung aveva anche una dimensione più individuale e psicologica, in cui il Sé individuale si collega all'inconscio collettivo.

Come si fa a coltivare l’anima oggi, in quella che chiamate supersocietà cioè una società post-liquida dove aumentano i disturbi dell’umore, che si caratterizza per la sua interdipendenza tecno-economica su scala globale, per il nesso inestricabile tra azione umana e biosfera e per l’assorbimento sempre più spinto della soggettività nel processo di autoproduzione sociale? 

I problemi non mancano. I decenni di globalizzazione neoliberista e la forte spinta verso l’individualizzazione delle vite di tutti hanno sfibrato il tessuto sociale e umano. Il peso della libertà sciolta da legami e limiti e ridotta a possibilità di scelta tra il maggior numero di opzioni immaginabili – grande mito che ha alimentato le ultime generazioni – rende l’uomo, chiuso nel delirio di onnipotenza, perennemente insoddisfatto, vittima di infiniti bisogni, incapace di attivare desideri. Questo è vero per tutti (bastino i dati relativi alla depressione, alla crisi del desiderio – anche sessuale, al consumo di psicofarmaci), ma ancor più drammatico quando diventa “pallore esistenziale” nelle giovani generazioni.

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L’uomo moderno ha scommesso sulla progressiva e totale emancipazione da ogni forma di contatto che la realtà che lo circonda. Eppure perfino la fisica e la biologia concordano oggi su un punto: la vita si dà nella relazione. O meglio ancora, è relazione. Tutto ciò che vive, a partire dalla cellula, scambia con l’esterno, e mantiene un legame con le particelle con cui c’è stato contatto (secondo la fisica quantistica).  E questo vale anche, e a maggior ragione, per quella forma di vita così particolare che è l’umano.  Ma tutto questo non riesce a filtrare nella nostra vita sociale. L’individualismo è un’ideologia dura a morire, anche se è del tutto smentito dalle conoscenze di cui oggi disponiamo.

Concordo pienamente: la vita è relazione! Questo concetto è stato intuito dal sociologo catalano Manuel Castells, che alla fine del secolo scorso sottolineò che le reti costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società, dando così il titolo alla sua opera più importante: Network Society (1991). Nella psicologia analitica, l'essere in relazione e l'integrazione degli opposti, che conducono alla trasformazione, sono concetti fondamentali. Senza relazione, senza incontro, non c'è possibilità di cambiamento…

L’idea che “tutto è connesso” faceva parte dell’idea di “cosmo”, come unità variegata e complessa di dimensioni biologiche, fisiche, sociali, spirituali. La filosofia lo ha sempre sostenuto: da Eraclito, per il quale “la sapienza è agire dando ascolto alla natura”, a Bergson, che sosteneva che “Tutti gli esseri viventi si tengono uniti, e tutti cedono alla stessa formidabile spinta”, solo per citare due tra i tanti.

Con la modernità, come ha scritto Ivan Illich, siamo passati dall’idea di cosmo a quella di mondo, totalmente nelle mani dell’uomo. Nascono e si affermano ideali come la sovranità e l’individualismo, che diventano pilastri dello sviluppo dell’Occidente. Un processo che ha portato tante conquiste, ma che ora ci sta facendo pagare il conto, con un bilancio molto diverso da quello promesso. Sulla critica all’idea di sovranità sono esemplari le parole di Hannah Arendt, per la quale l’identificazione della libertà come sovranità, che è sempre stata presa per scontata nel pensiero politico ma anche filosofico, è un errore fondamentale: l’idea di autosufficienza, di controllo e di dominio è in contrasto con la condizione di pluralità, necessaria per l’azione e per la democrazia: “Nessun uomo può essere sovrano perché non un uomo, ma gli uomini abitano la terra”.

Eppure, negli ultimi decenni, abbiamo assistito all'ascesa dell'individualismo esasperato, dove il concetto di individuo, l'"io", sembra prevalere sugli altri e sulla comunità. Pertanto, coltivare l'anima in una società che come avete sottolineato "non genera un processo uniforme, ma piuttosto un'interazione non lineare che, mentre spinge verso una maggiore complessità, accresce le disuguaglianze e apre nuovi confini" (2023), sembra apparentemente impossibile.

L’individualismo, che si lega strettamente a questa idea di sovranità, è ugualmente criticabile. Prima di tutto perché, come sosteneva tra gli altri lo stesso Illich, il tratto essenziale dell’individuo sovrano, base di tutto il pensiero democratico moderno, è il suo carattere possessivo. La stessa libertà diventa un possesso, che si manifesta come liberazione da ogni rapporto con altri che non sia economico. E poi, lo abbiamo scritto in Supersocietà e lo ribadiamo qui, l’individuo è un’astrazione: nel senso letterale, una separazione, un tirar fuori dal tessuto delle connessioni, dei legami, delle condizioni che consentono a ciascuno di potersi riconoscere come una unicità. La relazione ci precede, ci aiuta a prendere forma, costituisce il vincolo e la risorsa per immaginare il futuro. E questa verità, ci teniamo a sottolinearlo, è fisica e biologica ben prima che etica: tutto ciò che vive è in relazione, scambia con l’esterno, mantiene un legame con le particelle con cui c’è stato contatto (secondo la fisica quantistica). 

La relazione non è perciò un dover essere da perseguire contro il nostro interesse individuale per diventare “buoni”, ma la condizione stessa del nostro esistere individuale, che vogliamo riconoscerlo o no. E non riconoscerlo, come è sotto i nostri occhi – dai disastri ambientali e alle guerre –, è deleterio per tutti. 

Forse stiamo arrivando a comprenderlo, ma riuscire a trarne le conseguenze è improrogabile.

Dopo aver dedicato considerevoli energie all'approfondimento del concetto di generatività, avete recentemente rivolto la vostra attenzione al tema della libertà, come dimostra il sottotitolo del vostro ultimo libro, che si interroga se abbia ancora senso scommettere sulla libertà. In un'epoca in cui la parola "libertà" è spesso abusata, soprattutto nell'Occidente neo-decadente e sprecone, rischia di perdere il suo significato autentico. Ci chiediamo allora: cosa è la libertà? E cosa rappresenta per voi il concetto di libertà? 

Libertà significa l’urgenza di passare da un capitalismo della crescita – che presenta peraltro costi personali, sociali, ambientali sempre più insostenibili – a un capitalismo “sostenibile”. Ma un’affermazione di questo tipo rischia di costituire un ossimoro, un insieme di belle speranze impossibili da realizzare.

Se consideriamo quanto è successo con il Covid – un grande trauma collettivo in cui è stato evidente il legame che ci unisce a livello planetario, ma che non ha cambiato di fatto la nostra società – si può essere scettici sul fatto che il mondo contemporaneo sia effettivamente in grado di autocorrezione. Sono tante le crisi che ci stanno colpendo e che solleciterebbero un cambiamento – che non potrà che essere progressivo e faticoso. La speranza è che alla fine prevalga quella “nuova intelligenza”, di cui molti vedono la necessità. Anche perché a medio lungo termine non c’è in realtà alternativa. Ma questo passaggio è tutt’altro che scontato.

Soprattutto se si rimane prigionieri di una logica razionalistica. Non sarà la ragione da sola a sollecitare le trasformazioni di cui abbiamo bisogno. 

E cosa è necessario affinché ciò possa accadere?

Serve una nuova cornice spirituale che ci accompagni dentro la nuova era. 

«Lo spirito umano potrà dominare le proprie realizzazioni?» si chiedeva già nel secolo scorso Paul Valéry. E così concludeva: “Se avessimo più spirito e se questo avesse più spazio e più potere effettivo nelle cose di questo mondo, il mondo avrebbe più possibilità di risanarsi, e più prontamente” (In morte di una civiltà, Aragno, 2018, p. 93, corsivo nel testo). 

Nel saggio "La crisi della mente" (1919), il poeta Paul Valéry esprimeva una profonda disillusione rispetto alla Prima Guerra Mondiale, riconoscendo la fragilità e conseguente mortalità delle civiltà moderne, affermando che "Noi, civiltà moderne, abbiamo imparato a riconoscere di essere mortali come le altre. [...] Sentiamo che una civiltà è fragile come una vita." In una singola frase, Valéry accenna alla potenziale traslazione del potere intellettuale verso l'America o altri continenti, segnalando un cambiamento rispetto alla centralità storica dell'Europa. Anche Yeats, nel suo saggio "La crisi della mente" (1919), riflette sulla fase post Prima Guerra Mondiale, esplorando lo stato del mondo e la condizione umana durante un periodo tumultuoso. Oggi, a distanza di un secolo, ci troviamo di nuovo in un'epoca tumultuosa. Voi l'avete definita l'"epoca degli shock". Cosa fare quindi? Rassegnarsi o provare a cambiare le cose?

L’individualismo degli ultimi 50 anni ha frammentato il mondo, ha disgregato il tessuto sociale, e ha consumato l’ambiente. Ha fatto crescere l’entropia, quella dinamica di disgregazione che scompone e omologa, in ogni ambito: basti pensare non solo alla perdita di biodiversità, ma anche alla riduzione dell’opinione pubblica a fazioni polarizzate, a sterile belligeranza. 

“Quel che si ripete in noi non appartiene mai allo spirito”, scriveva Paul Valéry. Coltivare lo spirito nella Supersocietà è contrastare i processi di disgregazione e omologazione, è liberazione dalla tirannia del dato di fatto che impedisce di aprire una possibilità di avvenire inedito nel divenire già scritto delle cose. È riaccendere la scintilla vitale che il tecnocapitalismo soffoca, riscoprendo che “il desiderio è strutturalmente accordato all’infinito” (Stiegler, cit. p. 105).

Coltivare lo spirito, quindi coltivare l'anima, come antidoto? Cioè individuazione!

L’omologazione è perdita di individuazione che diventa anche perdita di partecipazione. Viceversa, “la creatività simbolica è la condizione dell’individuazione” (id., p. 122) e anche della partecipazione alla dimensione collettiva e alla contribuzione all’orizzonte transindividuale dei significati e dei simboli. 

Riconoscere la natura relazionale dei processi vitali può allora indicare una via da percorrere per contenere le derive entropiche: non si tratta di “fare relazione”. Le relazioni ci sono già. Siamo già tutti interdipendenti – o, come preferiamo dire, ‘interindipendenti’: tra noi, con l’ambiente, con le generazioni che ci hanno preceduto e quelle a cui lasceremo il mondo. Si tratta di riconoscerlo, abbandonare l’ego-latria che ci rende soli e vulnerabili a tutte le forme di ingegneria sociale rese sempre più pervasive ed efficaci dalla digitalizzazione e dal governo degli algoritmi, per cominciare a prendersi cura di questa rete di connessioni in cui siamo, e che siamo. 

Mi sembra di capire che suggeriate come "cura" l'avvento di una vita vissuta in modo creativo e simbolico, che si apre a una nuova "azione etica".

La cura non è la buona azione, ma una postura esistenziale di coinvolgimento e prossimità, ben diversa dal distacco dello sguardo scientifico o dell’analisi statistica della realtà. Guardare il mondo da accanto, da una prospettiva di coinvolgimento, nella consapevolezza che tutto in qualche modo ci riguarda, apre il nostro sguardo a ciò che altrimenti non riusciamo più a vedere; ci rimette in movimento, attiva una dinamica trasformativa al tempo stesso di noi e della realtà; e nella relazione si moltiplica la capacità di cambiamento e orientamento dei processi. 

Quindi non suggerite "una cura", ma piuttosto di "prendersi cura"?

Nella cura, intesa nel senso pieno che il termine greco epimeleia custodisce, la dimensione esistenziale, quella epistemologica e quella politica sono intrecciate, e l’intreccio è potente. Anche qui bisogna uscire dai moralismi e dalle ideologie e rigenerare le nostre categorie e il nostro sguardo. 

Per questo crediamo che sia più che mai necessario prendersi cura del pensiero, e, dopo la fase di grande astrazione a scopo di controllo e dominio, rimetterlo in sintonia con la vita. 

E la vita quando è viva genera – lo hanno detto da sempre i poeti, Goethe tra i tanti. Generare non ha solo un significato biologico: la sua radice greca, gignomai, rimanda allo stesso tempo alle idee di essere, far essere e diventare. Ciò che facciamo esistere (e far esistere qualcosa che ancora non c’è, piuttosto che scegliere tra ciò che c’è già, è la forma più alta di libertà) ci fa esistere e contribuisce al divenire. Il principio generativo è il modo di esprimere e rendere comunicabile questa dinamica intrinseca alla vita. Una dinamica che riconosce l’unità nella molteplicità, la continuità nel cambiamento, la libertà nel legame.

Nella logica del principio generativo una società desiderabile è quella in cui è la libertà ciò che circola tra noi. Il vero dono che possiamo scambiarci per prenderci cura di un mondo che va in pezzi è la libertà.

Riferimenti

C. Giaccardi, M. Magatti, Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà?, Bologna, Il Mulino, 2023.

C. Giaccardi, M. Magatti, Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo, Bologna, Il Mulino, 2024.

B. Stiegler, Amare, amarsi, amarci, Milano, Mimesis, 2014 

B. Stiegler, Pensare, curare, Milano, Meltemi 2024

P. Valéry, In morte di una civiltà, Torino, Aragno, 1918.

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