Comunicare la scienza: dialogo con David Quammen

3 Maggio 2023

Dialogo con David Quammen

Abbiamo incontrato David Quammen, collegato in diretta zoom, lo scorso 13 Aprile 2023, nell’ambito di un seminario organizzato dal CiSS, Centro Internazionale di Studi Semiotici “Umberto Eco” dell’Università di Urbino, dedicato ai “Generi della Scienza. Comunicazione. Divulgazione. Racconto”. Tra gli altri, hanno partecipato: il fisico Vincenzo Barone, Francesca Romana Capone (di cui al suo “L’universo letterario del probabile”, qui recensito), Diego Garbati in qualità di Capo Progetto Scienza di Rai Scuola, i chimici e scrittori Samantha Bruzzone e Marco Malvaldi, Gianfranco Marrone e Tiziana Migliore, rispettivamente direttore e responsabile scientifico del CiSS, Lella Mazzoli, direttrice dell’istituto per la Formazione al Giornalismo dell’Università di Urbino, oltre agli autori di questa intervista, Marco Motta, curatore e conduttore di Radio3 Scienza, e Pino Donghi, curatore del seminario.

Nel congedarsi dai lettori, a pagina 410 delle 411 dell’edizione italiana di Breathless, il Senza respiro pubblicato da Adelphi, l’ultimo suo bellissimo libro, dedicato alla “corsa della scienza per sconfiggere un virus letale”, si legge un omaggio imprevisto a William Faulkner: ce ne spiega il motivo e il significato?

Come scrivo, proprio alla fine di Senza respiro, ammiro infinitamente il lavoro dei virologi e degli evoluzionisti molecolari, sicché la mia formazione accademica è prevalentemente letteraria: da tempo lo penso come il mio personale principio d’indeterminazione, acquisito da William Faulkner invece che da Werner Heisenberg. Principio e consapevolezza, allora ancora ingenui, che ho incontrato giovanissimo studente, al secondo anno delle superiori, leggendo i testi di questo monumentale autore. Il ricordo della prima lettura di L’urlo e il furore è per me ancora vivido. Si tratta del quarto, tra i romanzi di Faulkner, moderno, sperimentale, straniante e a tratti confuso nell’esperienza del lettore che si trova a seguirne la vicenda nelle quattro sezioni/giornate a partire dalle percezioni di diverse voci. La prima giornata, in particolare, è raccontata da Benjy Compson, il figlio mentalmente instabile della famiglia Compson, protagonista del racconto. Un essere umano sensibilissimo, assai espressivo a suo modo, ancorché in maniera aliena rispetto a chi gli sta intorno e per chi legge, un “carattere” che nel linguaggio di un tempo, che ora sentiamo come inaccettabile, si sarebbe detto ritardato, “lo scemo del villaggio”. Eppure, se torniamo al titolo, L’urlo e il furore, non possiamo dimenticare la citazione dal Macbeth: “Domani, e domani e domani, s’insinua col suo piccolo passo, un giorno dopo l’altro, fino all’ultima sillaba del tempo segnato; e tutti i nostri ieri avranno servito a rischiarare agli stolti il loro viaggio alla polvere della morte. E spegniti, spegniti, corta candela! La vita non è che un’ombra in cammino, un pietoso guitto che sulla scena si pavoneggia e si sbraccia quell’ora, e dopo non se ne parla più: una favola contata da un idiota – tutta rumore e furia che non significa nulla”. Il racconto di un’idiota, pieno di “sound and fury”, di urla e furore che non significano nulla. E l’ironia, in Faulkner, è che il fatto che il racconto sia affidato a questo “idiot” significa invece moltissimo, altro che nothing. La stessa storia, nel romanzo, sarà poi raccontata da un altro personaggio, da una diversa prospettiva. Ed è la stessa scelta stilistica che Faulkner utilizzerà in Assalonne Assalonne!, un romanzo ancor più complesso, scritto una dozzina di anni dopo, assemblato intorno a diversi punti di vista, tutti centrati sul racconto della vicenda di Thomas Sutpen, nato in povertà ma che vuole costruire un impero da lasciare ai suoi discendenti, la cui vicenda è filtrata da resoconti, testimonianze, prospettive che non vanno necessariamente d’accordo e anzi si contraddicono l’un l’altra, lasciandoci nel dubbio sulla verità del personaggio e della sua vicenda. Lunga premessa, mi scuso, ma è per rispondere a una domanda per me cruciale: Faulkner mi ha fatto capire, fin dai quei miei primissimi anni di formazione, che la verità è difficile da affermare, anzi, direi di più, è la stessa parola verità, “truth” in inglese, ad essere sospetta per il suo connotato assertivo, assoluto: per questa ragione io preferisco parlare di “la realtà della situazione”, “la percezione accurata della realtà”, perché quando invece si usa la parola “verità” è conseguente il compiacimento di essere nel giusto, mentre quello che mi ha insegnato la lettura dei testi di Faulkner, più di sessant’anni fa, è che la “vera verità”, se vogliamo dirla così, o “la realtà della situazione”, può essere solo il risultato dell’accostamento di più punti di vista, diversi al punto anche di contraddirsi, e che pure bisogna considerare tutti, tenendoli sempre ben presenti. Alla vostra domanda, che attraversa il senso di tutta la mia vita, rispondo che Faulkner guida il mio modo di pensare e certamente quello di scrivere di scienza. “Prendiamo l’esempio della pandemia – scrivo alla fine di Senza respiro – Abbiamo bisogno di ascoltare molte voci, e abbiamo bisogno di aiutarci l’un l’altro a capire”.

Faulkner, quindi, come ispirazione fondamentale. Sicché, nei suoi testi, nell’intreccio narrativo, sembrano ritrovarsi anche altri modelli. A volte l’impressione è quella di essere nelle prime pagine di alcuni romanzi di science-fiction molto famosi come il Congo di Michael Crichton, o Sfera o il più famoso Jurassic Park; ma, cambiando mezzo, l’alternarsi di luoghi, tempi, personaggi, situazioni, che il lettore più abituato sa bene convergeranno poi in un’unica storia, rimanda anche al cinema di Spielberg, alle sequenze iniziali di Incontri ravvicinati del terzo tipo, per stare alla science-fiction!

Beh, prima di tutto grazie, i paragoni sono lusinghieri! E anche se, devo confessare, Crichton non è il mio scrittore preferito, semmai Chandler. Mi fa molto piacere, parlando di generi, confermare che scrivendo Senza respiro, speravo fosse letto come un poliziesco, un mistery alla maniera di Chandler, appunto, o di John Le Carré, non a caso all’inizio della mia carriera, ho scritto quattro racconti di fiction di cui due polizieschi: immagino di essermi allenato a quella tecnica di racconto, a quel tipo di scrittura che porta il lettore a voler girare la pagina per sapere cosa sta succedendo, a provare l’ansia dei protagonisti e infine a vivere la sorpresa quando la vicenda si risolve nella comprensione, spesso contro intuitiva. Ma non è il solo genere. Chi conosce il mio lavoro e il mio approccio alle storie di scienza sa bene che il “genere di viaggio” è stato ed è per me fonte di evidente ispirazione. Se devo indicare il mio piccolo pantheon, direi, Alfred Russel Wallace, Henry Walter Bates, Alexander von Humboldt e certo il Darwin del Beagle. Ogni volta che ho pensato di voler raccontare una storia di scienza mi sono detto, prima di tutto, “go there!”, vai lì, vai dove le cose stanno accadendo, sia pur in una caverna buia piena di pipistrelli: Spillover è un inno al motto “go there!”. Poi, curiosamente, è quello che invece non ho potuto fare con Senza respiro, perché come per tutti, a seguito della pandemia, mi era impedito viaggiare. E allora l’ho fatto da qui, dalla stanza in cui mi trovo e dalla quale vi rispondo, sono rimasto chiuso in casa due anni, realizzando con il pc, grazie al quale oggi stiamo parlando, 95 interviste: ho viaggiato grazie alla piattaforma Zoom. E quindi, genere di viaggio e poliziesco, certo. E però vorrei sottolineare un ulteriore aspetto, forse il principale. Quando si scrive di scienza si scrive di alcune persone che la scienza la fanno per altre persone che sono interessate a leggere della loro attività, del perché lo fanno, di chi sono: il nostro pubblico è la gente comune e la scienza è un’impresa umana, fatta da persone. Non si tratta solo di straordinaria intelligenza, di brillantezza nelle scoperte, fare scienza coinvolge anche passioni umane come l’ambizione, la competizione, la gelosia, magari qualche poco edificante carrierismo. È lo stesso se racconti di una campionessa di scacchi, di un ballerino, di qualche eroe sportivo: si tratta sempre di persone, come quelle che s’incontrano nei laboratori scientifici, e al lettore o allo spettatore piace si raccontino storie che riguardano le persone, storie eroiche ed edificanti ma anche quelle meno valorose o poco ammirevoli. La scienza è fatta di storie, di tante storie che accadono nella “Storia”: è la prospettiva della Storia che ci ricorda come alcuni si sono sollevati sulle spalle di altri che li hanno preceduti. Tra qualche giorno (registriamo il 13 Aprile 2023) si ricorderà il 70° anniversario dalla pubblicazione di Watson e Crick sulla scoperta della struttura del DNA: che ruolo ebbero in quella scoperta alcune figure come Rosalind Franklin, come avrebbero potuto arrivare alla soluzione senza le precedenti osservazioni di Erwin Chargaff? Per raccontare la scienza devi conoscere la Storia e le storie delle persone.

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Siamo noi, in questo caso, a ringraziare. E però con un’aggiunta, una riflessione che vorremmo quasi proporle in forma di appello. Spesso ci capita di sperimentare una forma di reticenza da parte degli scienziati a raccontare la loro storia, le storie di ricerca nelle quali sono coinvolti. Forse sono dubbiosi dell’approccio sociologico, forse sospettosi verso lo storytelling, per lo meno di alcune sue declinazioni. Come si fa a convincere lo scienziato a raccontare quello che fa, quelle storie di cui ci ha appena parlato?

A volte gli scienziati manifestano una forma di resistenza, è vero e lo capisco. Loro parlano di dati e analisi, noi parliamo per metafore. Gli scienziati non amano la metafora, quella cosa che sta per un’altra. Dati e analisi: per lo scienziato è irrinunciabile parlare con accuratezza e precisione. Quando presentano un paper, offrono dati e interpretazioni di quei dati, indicano regole, eccezioni a quelle regole, e anche eccezioni alle eccezioni che valgono solo sotto specifiche circostanze, magari aggiungendo alla fine del paper l’ulteriore indicazione di alcune limitazioni dello studio condotto. Il tutto conferma, ovviamente nella stragrande maggioranza dei casi, una virtuosità, un tratto di fondamentale onestà. Sicché, quando invece si deve parlare a un pubblico più generale, diverso dai colleghi che leggeranno il paper, pur mantenendo l’accuratezza, su quella non può esserci discussione, bisogna cedere sul lato della precisione. Lo scienziato che non capisce la ragione per cui, dovendo o volendo divulgare i risultati dei suoi studi, deve mantenere l’accuratezza mentre arretra sul lato della precisione, è meglio che di scienza al grande pubblico non scriva, non parli, non comunichi: troppi casi, troppe eccezioni, troppe specifiche, condannano il lettore all’incomprensione.

E questo è un punto. Ma siccome ho insistito sul carattere virtuoso, vorrei anche segnalare un’altra difficoltà, se così la si può intendere. Oggi la scienza è un’impresa collettiva, qualsiasi ricerca, insieme ai suoi risultati, sono il frutto di un lavoro di gruppo, e non sono pochi gli scienziati che si rifiutano di rispondere per non attribuirsi un merito e crediti che non gli appartengono in proprio. Lasciatemi ricordare una recente esperienza personale, proprio mentre scrivevo Senza respiro. A un certo punto del mio lavoro avevo chiesto un’intervista a Andrew Rambaut, eminente biologo dell’evoluzione, in quel momento a Edimburgo, fondatore e guida di un sito internet chiamato Virological. La sua équipe è composta da una banda di giovani con spiccate competenze bioinformatiche, e la sua risposta è stata, “non intervisti me, parli con due mie postdoc: per quello di cui ha bisogno è meglio che parli con Verity Hill e Áine O’Toole!”. Ed è quello che ho fatto, raccogliendo informazioni preziosissime, di cui nel libro parlo diffusamente. Poi sono tornato da Rambaut chiedendogli di nuovo l’intervista. “Ha sentito le mie due collaboratrici?”, mi ha chiesto di nuovo, e dopo la mia risposta affermativa, ha finalmente accettato di rispondere. Può sembrare inusuale e invece, mi piace sottolinearlo, rappresenta una preoccupazione piuttosto comune tra i veri scienziati: riconoscere il credito a tutti quelli che svolgono un ruolo nella ricerca, che siano anche un tecnico o un giovane undergraduate.

Parlava di metafore, e della difficoltà per molti scienziati di accettarne l’uso quando si parla di cose scientifiche. Proprio in Senza respiro lei usa un'immagine, i "Dark angels of evolution" che ci è sembrata particolarmente felice per far comprendere appieno il ruolo evolutivo, anche a vantaggio di noi esseri umani, giocato dai virus.

Lusingato, anche in questo caso, e vi ringrazio. Non c’è dubbio che i virus abbiano contribuito e contribuiscano in maniera fondamentale alla storia evolutiva degli organismi e che abbiano svolto un ruolo importante e positivo anche nella nostra personale evoluzione di specie. Non si tratta semplicemente, infatti, di vettori di malattie di cui giustamente aver timore e contro i quali dobbiamo combattere. I virus sono i più grandi depositi di informazione genetica sul pianeta, e una delle cose che fanno, con grande efficienza, è quella di spostare pezzi d’informazione genetica da una creatura a un’altra. Si tratta di un fenomeno abbastanza contro intuitivo, di cui ho cercato di dar conto nel mio L’albero intricato, si tratta della cosiddetta “eredità infettiva” (Parte Quinta di L’albero intricato, Adelphi, 2020), il trasferimento genico orizzontale, HGT (horizontal gene transfer): per esempio da un batterio a un insetto, con quest’ultimo che usa il gene batterico come difesa chimica contro qualche aggressore. È grazie a uno di questi trasferimenti che la nostra specie può contare su un processo di gestazione positivo: la membrana tra placenta e feto attraverso la quale arrivano nutrienti e vengono espulsi i rifiuti metabolici è il risultato evolutivamente non progettato del trasferimento di un gene virale nel genoma umano. Dalla membrana del virus, e in questo caso in senso più che positivo, è derivata una cosa utile al genere umano.

Non crede che l’esperienza, per altro non conclusa con Sars-CoV-2, tutt’altro che alle nostre spalle, possa essere anche una straordinaria occasione per capire come lavora la scienza? Un esponente della politica, in Italia, nei primi giorni di pandemia dichiarò che dalla scienza si aspettava certezze, risposte chiare e inequivocabili. L'incertezza ha caratterizzato molte questioni legate al virus in questi anni, a cominciare dalla domanda più fondamentale: da dove diavolo è saltato fuori questo virus? È una domanda sensata? C’è un modo di rispondere utile a far capire il progresso delle conoscenze?

Beh, ci vorrebbe un altro intero seminario e magari una buona bottiglia della vostra grappa per tentare una risposta adeguata. Scherzi a parte. Risponderei partendo da due considerazioni, ambedue significative e per le quali va cercato lo sviluppo logico che eventualmente le lega. Da una parte ci sono una quantità veramente imponente di dati a supporto di un’origine naturale del virus, così com’è successo moltissime volte nel passato, dati e considerazione generale che, di per sé, risponderebbero alla domanda più fondamentale; d’altra parte, se ne fa largo un’altra: come mai, nonostante la mole di prove, ripeto molto, molto consistenti, che confermano il passaggio naturale – quello tipico, per dire, da pipistrello a mammifero intermedio a noi – la bilancia del convincimento nella pubblica opinione pende decisamente verso la “fuga dal laboratorio”? Perché è più facile, o così sembra, pensare che ci sia stata la mano dell’uomo piuttosto che il caso, quello stesso che ha prodotto l’albero intricato. Proprio perché fondamentali, sono il tema e le domande sulle quali sto lavorando ora, e mi pare sia cruciale: ci può aiutare a capire come lavora la scienza e come pensa la società. Noi sappiamo che il procedere della ricerca scientifica si basa su esperimenti, osservazioni, dati, ipotesi, contraddizioni, nuovi dati, nuove ipotesi e così via: la scienza può promettere una fiducia incrementale sui risultati e le loro interpretazioni, mai una certezza assoluta. Si guarda e si avanza “in vista della certezza”, consapevoli che è un orizzonte che si sposta sempre in avanti. La scienza ci può garantire un grado di fiducia sempre più grande in vista della comprensione più accurata del mondo fisico e certamente, per rispondere a questa vostra ultima domanda, Sars-Cov-2 può essere un fondamentale caso di scuola: non perdere l’occasione mi pare una responsabilità collettiva.

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