Corrispondenti esteri

13 Febbraio 2015

Sembra ci sia stato un lento ma continuo slittamento, durante gli ultimi due anni, dal timore che la crisi economica avrebbe condotto a un conflitto diffuso alla netta e reale sensazione che il mondo intero sia ora coinvolto in una guerra combattuta su così tanti fronti da essere paragonata alla Guerra Fredda, se non agli eventi che si susseguirono nella prima parte della seconda guerra mondiale, quando emerse contingente la realtà del conflitto. Tuttavia, anche se le segnalazioni che internet ci riporta rendono sempre più vicine le immagini del conflitto – Ucraina, IS, Siria, Libia, Gaza – come se per Regno Unito, USA e il resto d’Europa, si trattasse dell’effettivo “fronte interno” del ventunesimo secolo, la realtà della guerra stessa non è mai stata percepita tanto lontana.

 

Come potrebbe il mondo dell’arte rispondere a un simile scenario? Questa è una domanda che inevitabilmente richiama all’intimazione del filosofo tedesco Theodor Adorno, sullo “scrivere una poesia dopo Auschwitz”, espressa nel suo saggio del 1962 Engagement oder künstlerische Autonomie (ed eco a Kulturkritik und Gesellschaft, 1949; trad. it. Critica della cultura e società, in Prismi, Einaudi, 1972). Ciò che è spesso trascurato è che più avanti, nello stesso saggio, Adorno scrive che l’arte deve proseguire, anche a dispetto della sua impossibilità, poiché la sua sopravvivenza possa rappresentare un rifiuto di resa al cinismo. “Sebbene questa sofferenza” scrive “richieda di continuare l’esistenza dell’arte mentre è proibita; è adesso virtualmente nella poesia sola che la sofferenza può ancora trovare la sua voce e consolazione, senza esserne immediatamente tradita.” La preferenza di Adorno per l’astrazione, per cui l’opera non può cadere nell’orrore del reale, nel tentativo di interpretare e opporsi attraverso una rappresentazione figurativa dello stesso, non prevedeva la venuta di una forma d’arte direttamente connessa alle relazioni umane (come l’arte relazionale), o l’ibridazione di arte e politica. È come se egli abbia rifiutato certe forme in mancanza di prede, all’ancora irrisolto antagonismo della politica concreta.

 

Valerio Rocco Orlando, Interfaith Diaries, 2014. Production still. Courtesy the artist

 

Per Adorno, in definitiva, il compito della società di fronte alla seconda guerra mondiale non era l’implementazione di un nuovo regime politico, ma la revisione del pensiero stesso, come l’opposizione presente nell’approccio dialettico – attuato attraverso una serie di conflitti – sempre incline a rigenerare il conflitto. È noto come questa posizione portò Adorno a rifiutare il suo sostegno alla rivolta degli studenti tedeschi nel 1969, definendo da allora una linea di demarcazione tra arte e attivismo politico. Ad ogni modo, è opportuno notare che il rifiuto di Adorno a sostenere le tendenze rivoluzionarie degli studenti, era probabilmente una posizione presa con i migliori interessi che un’eventuale rivoluzione avrebbe finalmente avuto luogo. Come scrisse a Herbert Marcuse negli Stati Uniti:

 

Io sono l’ultimo che sottovaluta i meriti del movimento studentesco. Hanno interrotto il facile passaggio a un mondo totalmente controllato. Ma si mischia con un dramma di follia, nella quale il totalitario risiede teleologicamente, e non del tutto semplicemente come una ripercussione (sebbene sia anche questo).

 

Questo dibattito – tra le azioni direttamente politiche e la rappresentazione artistica – sembra diventare prioritario nelle riflessioni degli artisti nell’anniversario dell’inizio della prima guerra mondiale e – quest’anno – della conclusione della seconda, come nello svolgersi dei conflitti in atto. Anche se, piuttosto che teorizzare, spetta agli artisti di provare i confini di un fare arte politico, attraverso la pratica quotidiana.

 

L’artista italiano Valerio Rocco Orlando ha iniziato il suo progetto Interfaith Diaries a maggio 2014, poco prima della sua residenza all’Artport di Tel Aviv. Il progetto documenta attraverso un film le conversazioni con diverse comunità in Israele e in Palestina. Punto di partenza: la collaborazione di Orlando con l’attore – che si riconosce come palestinese – Saleh Bakri. Procedendo attraverso una serie di interviste con persone dai diversi retroterra religiosi, a Tel Aviv Valerio Rocco Orlando si ritrova a considerare l’ipotesi di abbandonare il progetto, dato che l’inizio della guerra di Gaza, rende difficile per uno straniero interpretare l’estremo fervore religioso che sottolinea il crescendo e il proseguire delle tensioni tra gli ebrei e i palestinesi di Israele, per ritornare a completarlo successivamente nel 2015. È bene domandarsi quale sia il valore di un’interazione come questa, e soprattutto nel momento in cui  il mondo dell’arte ha assunto una dimensione globale, con residenze e viaggi di ricerca, divenuti parte centrale di un certo genere di produzione artistica, è inevitabile che la mente indagatoria dell’artista esplorerà terreni stranieri in modo sempre più ambizioso.

 

Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli, hanno recentemente mostrato al Centro d’Arte Contemporanea di Ginevra, per la Biennale dell’Immagine in Movimento, la preview del loro film Frammento 53. Appunti liberiani, girato durante due viaggi di ricerca in Liberia. Il film mostra sette interviste a generali che hanno partecipato alla seconda guerra civile liberiana, in cui raccontano storie di massacri, dove hanno personalmente ucciso decine e persino centinaia di persone. Il film si apre con le immagini di statue di dei della guerra appartenenti a diverse culture storiche, ritraendo la guerra come uno stato ciclico. Nel ventesimo e nel ventunesimo secolo la guerra in Liberia è stata spesso combattuta con mezzi brutali, tra cui il machete è uno dei favoriti, anche perché – come ha spiegato uno dei generali – fa risparmiare sui proiettili. Interviste così franche, di fronte al pubblico prevalentemente occidentale presente alla première, sono un forte monito che la guerra è sempre attuale e ha conseguenze estreme. È chiaro inoltre quanto i generali fossero entusiasti di raccontare le loro storie personali a qualcuno oltre i confini della Liberia; in questo senso un documentario artistico di genere sociale può superare la dimensione del voyeurismo, consentendo una mediazione tra mondi distanti tra loro e una preziosa opportunità per le persone di parlare a un estraneo imparziale.

 

Frammento 53. Appunti liberiani Buchanan, contea di Grand Bassa, Liberia: Federico Lodoli a colloquio con il Gen. Philip Wlue, Fotografia 35mm

 

In questa ottica, e con una posta politica così alta, nel ventunesimo secolo potrebbe avanzarsi l’ipotesi che si sia definito un nuovo paradigma rispetto al quale il pensiero il Adorno non è più adeguato. E tuttavia, allo stesso tempo, è lo specifico dell’arte in quanto campo rimosso dalla realtà concreta che consente all’artista di entrare in situazioni chiuse anche a giornalisti, politici o figure religiose.

 

English version

 

Questo pezzo è uscito in forma abbreviata su Art Review, Nov. 2014

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