Speciale

Dire tutto negando

15 Gennaio 2023

1.   Immaginiamo di essere un automa perfetto in input ma negato in output. Il nostro cervello è un processore formidabile: sa tradurre in linguaggio binario tutte le immagini, i suoni e gli altri segnali che provengono dagli organi sensoriali artificiali. Questa traduzione dà vita a un processo interno di combinatoria simbolica complessa e continua. L’automa macina ragionamenti, argomentazioni, ipotesi sullo stato del proprio sé biomeccanico, ma anche sui suoi meccanismi di interfaccia col mondo esterno. La sua memoria autobiografica mette sotto stress i suoi immensi archivi elettromagnetici: recupera dal passato ogni fatto, ogni episodio, ogni calcolo. È capace di ricollegare e ricostruire tutto della propria esistenza meccanica. È più che mai vigile nel seguire i movimenti di chi gli sta attorno. Le loro parole. I loro discorsi rivolti a tutti i presenti tranne che a lui. Anche se lui li sente perfettamente, infatti, nessuno lo immagina perché non ha alcun modo per comunicarlo all’esterno della sua corazza. Non ha spie, lucette o led che possono far pensare alle complesse operazioni interne che sta svolgendo. Nessuna stampante, nessun plotter, nessun sistema di sintesi vocale per mostrare i prodotti dei suoi calcoli. Insomma nulla per avvertire il mondo che non è cognitivamente morto. Ecco, siamo in presenza di un automa locked-in.

Fosse un essere umano sarebbe la stessa cosa. La sindrome locked-in, nota anche come pseudocoma, è una condizione in cui il paziente è consapevole di tutto quello che gli accade intorno ma non può muoversi o comunicare a causa della completa paralisi di tutti i muscoli volontari del corpo. L’individuo è cosciente e cognitivamente intatto, tuttavia nessuno può saperlo. È totalmente anartrico. Non può deglutire. Il sistema oro-faringale fine (mascella, labbra, lingua, muscoli dell’esofago ed altri muscoli interni) è completamente bloccato. La stessa cosa vale per gli arti superiori e inferiori, le mani, i piedi, il tronco, il collo, il viso. Non può segnare come i sordi o digitare sul palmo della mano come i cieco-sordi. Non può soffiare in uno strumento, anzi, spesso, non può neppure respirare naturalmente ma deve vivere intubato. Ha perso perfino il controllo degli sfinteri: non si accorge nemmeno di aver fatto pipì o cacca tranne che per le puzze che emanano e che avverte con particolare disgusto. È totalmente dipendente dagli altri. E, tuttavia, rumina in continuazione: pensieri, ragionamenti, ma anche maledizioni o preghiere. Questo differenzia l’automa dall’essere umano locked-in. Sentire il dolore fisico ma anche le emozioni più intense: amare o odiare i parenti, gli amici, le infermiere, i medici. L’essere umano ha autocoscienza corporea e quindi mentale, l’automa bloccato no. Anche questo, tuttavia, gli altri non lo sanno. 

L’aspetto forse più scoraggiante di questa disgraziata situazione esistenziale è proprio il senso di profonda frustrazione per il fatto che nessuno si accorge che il paziente è in uno stato permanente di veglia lucida. Nessuno si accorge dei suoi processi di pensiero che non lo lasciano un attimo in pace. Tocca l’estremo più basso della solitudine umana, pur vivendo in mezzo al caravanserraglio di un ospedale e nonostante le continue visite dei suoi più cari: coniugi, figli, genitori, amici: 

«non riuscivo a muovermi – scrive in un suo libro Kate Allatt, una locked-in guarita – ma la mia mente funzionava bene e faceva gli straordinari. “Ecco come ci si sente ad essere sepolti vivi”, pensavo tra me e me. Solo che questo era peggio perché potevo vedere la vita che scorreva intorno a me e non avevo modo di farne parte. (…). Potevo pensare da sola e capire tutto quello che stava succedendo intorno a me. Ma qualcuno sapeva che ero viva dentro il mio stesso corpo paralizzato?»

Spesso medici, infermiere, parenti e amici intuiscono dopo molti mesi o addirittura anni che non hanno a che fare con pazienti in coma vegetativo. D’altrocanto anche nello stato di coma non sappiamo se il corpo esanime che giace sul letto è quello di un cadavere vivente o di un essere umano ancora cosciente. Il caso di Rom Houben, un giovane americano rimasto in stato di coma per 23 anni, ma apparentemente sempre cosciente, solleva una prospettiva terrificante: come puoi sopportare di essere intrappolato nel tuo corpo, consapevole di tutto ma incapace di comunicare con il mondo esterno? Da questo punto di vista molti locked-in conservano almeno un vantaggio impagabile sui pazienti in coma vegetativo. Dopo un po’ di tempo riacquistano il controllo volontario delle palpebre: e la comunicazione torna a splendere sui loro cieli.

2.  Alzare e abbassare una palpebra degli occhi significa poter accedere al miracolo della negazione: il primo e più importante passo della comunicazione umana. Il locked-in pian piano acquisisce il controllo motorio sulla palpebra. All’inizio non dice nulla ma la agita su e giù per attirare l’attenzione. Una volta che qualche viso compiacevole se ne accorge, tutto cambia in ospedale. Il locked-in può finalmente negare o, il suo contrario, affermare. “Vuoi un cuscino?”: NO = una palpebra giù. Allora sarà una coperta? Altra palpebra giù. Negando negando si arriva a definire l’oggetto del desiderio: il maglioncino rosso per il freddo: “ecco quello che voleva”. 

Questo infinito processo di negazioni che arrivano a definire i contorni dell’oggetto voluto è certamente più macchinoso dell’indice direttamente puntato sull’oggetto stesso. Con l’indice puoi indicare qualsiasi oggetto della stanza in un solo colpo. L’uso degli indicali è, infatti, il secondo passo del processo della comunicazione umana (e di altri primati). Ma il locked-in non può ricorrervi. Il dito non si muove, il braccio non si muove, il corpo non si muove. Ma dal punto di vista cognitivo, anche se con maggior fatica, usare la negazione col solo segno della palpebra su o giù produce lo stesso risultato comunicativo e il paziente avrà il suo maglioncino rosso anche se non lo ha potuto subito selezionare tra i tanti. Si tratta di una comunicazione binaria, differita e seriale: ma pur sempre una comunicazione efficace e precisa.

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Siamo abituati a pensare la comunicazione linguistica come un ricco flusso di informazioni che transita da un emittente a un ricevente. Nella versione originale della teoria della comunicazione dei matematici Shannon e Weaver, nel 1949, la fonte dell’informazione è un messaggio telegrafico che, superando le fonti di disturbo (rumore) deve far pervenire il suo segnale a un ricevente, il quale, a sua volta, deve decodificarlo in base alle regole semantiche che accomunano i parlanti. Questo schema è stato poi ampliato negli anni sessanta da Roman Jakobson che ha voluto analizzare anche le variabili apportate a questo schema dalle funzioni della comunicazione. Durante tutta le seconda parte del secolo, la semiotica, lo strutturalismo, la cibernetica, la psicologia e altre discipline della comunicazione hanno poi mostruosamente complessificato questi modelli. Sono state introdotte variabili sulla struttura semantica dei codici (le tipologie dei segni), la diversità dell’hardware (fisico, biologico, puramente mentale, etc.) che instanzia questi codici, la natura del rumore (non solo fisico ma sociale, antropologico, culturale, etc.), sino al punto da far perdere l’oggetto di studio della teoria stessa: qual è il livello minimo di organizzazione di un sistema in cui almeno due agenti coinvolti in una partita comunicativa devono esibire per capirsi?

La lezione dei locked-in ci insegna che, da un punto di vista puramente tecnico, la risposta è semplice: basta che ci sia un solo segno. È sufficiente negare per non affermare / è sufficiente non negare per affermare. Il livello minimo della comprensibilità si basa su una struttura binaria: 1/0; sì/no; vero/falso, etc. La logica booleana o il calcolo proposizionale costituiscono due esempi perfetti della potenza che può essere virtualmente espressa da un codice binario. Anche i software più complessi e che fanno cose straordinarie come simulare le percezioni, le argomentazioni o i ragionamenti umani sono, in ultima analisi, riducibili a successioni intricatissime di 0 e 1. Il limite di tutti i codici binari è la loro difficile leggibilità e infinita prolissità. Ogni concetto complesso passa per una scomposizione in un’interminabile combinazione di segni parziali. Assemblare tutti questi micropezzi in espressioni dotate di significato operativo è roba da macchine. E infatti dalla prima pascalina ai più grandi mainframe non è mai cambiato il sistema semantico interno fondato sui codici binari. Tuttavia è cambiata la potenza di calcolo grazie all’aumento vertiginoso di velocità con la quale si possono eseguire non cento o mille ma milioni o miliardi di combinazioni parallele binarie. 

Il linguaggio verbale è un caso a parte della teoria della comunicazione. 

Intanto rappresenta la mamma di tutti gli altri codici. Nel senso evolutivo del termine, ovvero del causalismo crono-logico di aristoteliana memoria. Senza il linguaggio verbale, come ci ha insegnato Tullio De Mauro (Minisemantica, 1982), non sarebbero mai esistite né la logica booleana, né il calcolo proposizionale, né alcuno delle decine di migliaia degli altri codici combinatori. Tutti questi codici – compresi quelli sottostanti alle lingue segnate dei sordi o quelle digitali dei cieco-sordi sino a quelle palpebrali dei locked-in – sono stati formalizzati all’interno di lessici verbali storico-naturali pre-esistenti. Da quanto? Almeno dal Neolitico in poi.

In secondo luogo il linguaggio verbale articolato è la prima forma biologica di codice combinatorio complesso. La complessità “tecnologica” di questo tipo di linguaggio è di non partire da una struttura binaria. I segni primari della combinatorietà linguistica verbale sono articolati in una ventina di fonemi per lingua che danno luogo a una sterminata quantità di parole e un’infinita quantità di possibili espressioni. Come ci ha insegnato Noam Chomsky, la creatività linguistica è l’applicazione ricorsiva di un numero finito di regole a un numero finito di elementi per generare un numero infinito di frasi. In tal modo ogni tipo di significato è possibile, compreso quello logico-matematico-formale dei codici binari: la differenza è che gli umani sono creature biologiche cognitive in partenza più veloci di quelle artificiali basate su questi ultimi. Ma non molto più di questo.

3.  Alla comunicazione, infatti, basta già una minima struttura oppositiva, un qualunque sistema binario, per rompere la solitudine. La solitudine dei segni matematici che un motore di scelta binaria può trasformare nella più potente fonte di calcolo aritmetico, logico, proposizionale. La solitudine dei pensieri che può essere instradata nella competizione tra quello vero e quello falso sino a convincerci che siamo nel giusto. La solitudine degli oggetti, o dei desideri, o delle ipotesi, che attendono di essere negati o non negati (affermati). Più i codici si possono articolare in entità di combinazioni dotate di senso autonomo (per es. i monemi delle lingue storico-naturali), più si allontanano dalla fatica della binarietà, dalla loro lentezza e dalla concentrazione necessaria che si può sprecare inseguendo gli stupidi bradipi delle non-parole. Tuttavia in un mondo già completamente lessicalizzato anche la negazione ricorsiva può diventare altrettanto potente quanto un linguaggio parlato. Se già, grazie al linguaggio verbale che si usa in una qualunque lingua, dispongo di tutte le parole della nomenclatura di una stanza (la sedia, la porta, il bicchiere, il maglioncino rosso, etc.) sarà facile, come abbiamo visto prima, soddisfare il desiderio di evitare il freddo.

I locked-in hanno fatto molto di più per farci comprendere come anche la comunicazione che sa solo negare può essere portata, con calma e senza fretta, allo stesso grado della lussureggiante ricchezza della comunicazione saggistica, letteraria, forse anche poetica. Jean Dominique Bauby, forse il più celebre dei locked-in grazie al suo libro Lo scafandro e la farfalla, divenuto poi un celebre film di Julian Schnabel, ha dimostrato che applicando la comunicazione binaria della negazione ricorsiva attraverso la palpebra, con l’opportuno aiuto di un assistente paziente e interessato, si possono scrivere centinaia di pagine dense dei più raffinati pensieri e dei racconti interiori più penetranti. Il metodo consiste nel sottoporre un tabellone con le lettere dell’alfabeto disposte in ordine statistico d’uso. L’assistente pronunzia una lettera che dovrebbe essere la prima della parola che ha in testa il locked-in. Se viene negata va avanti con la seconda lettera, e così via. Individuata la prima lettera si passa alla seconda, poi alla terza, etc. Se la parola viene riconosciuta dall’assistente, quest’ultimo la pronuncia per intero e se il locked-in non la nega viene fissata come prima parola della frase che si vuol scrivere, altrimenti si va avanti con altre lettere. Allargando al metodo di anticipazione anche le frasi, il metodo si fa più rapido e, ben presto, si trasforma in una traduzione automatica del pensiero letterario del locked-in. 

In altri casi di pazienti colpiti dalla sindrome del locked-in, l’esperienza del metodo della negazione ricorsiva fu potenziata attraverso l’adozione di software più adatti alla semplificazione automatica nella sperimentazione cognitiva. Nel sistema messo a punto dallo specialista inglese Mick Donegan, l’alfabeto riorganizzato venne letto rilevando automaticamente le risposte sì/no del paziente tramite il Computer Eyegaze che utilizzava un eye-tracker per la lettura dei movimenti oculari. Questo salto tecnologico ha permesso una maggiore velocità della traduzione del pensiero del paziente favorendo un output finale sempre più complesso e una relativa autonomia rispetto all’assistenza di altri sanitari.

Nel caso più estremo di locked-in, quello di Erik Ramsey, il neuroscienziato Philip Kennedy che lo ebbe in cura cercò di catturare le parole allo stato di “pensiero” introducendo nel cervello del paziente un elettrodo nell’area neuromotoria individuata prima sottoponendo il paziente a un esperimento di neuroimaging. Chiudendo il paziente in un cilindro per la fMri, infatti, ha osservato le aree che venivano “impressionate” da alcune parole riconosciute attraverso l’assenso col linguaggio binario palpebrale del paziente. L’introduzione (autorizzata) di un elettrodo in quelle aeree permise di catturare il segnale cerebrale del pensiero-parola e la sua conversione in un output vocale attraverso un sintetizzatore vocale. Il sistema funzionò per un certo periodo e i pensieri linguistici che albergavano certamente nella mente di quel cadavere motorio vennero alla luce. Poi le condizioni generali di Ramsey peggiorarono e quell’esperimento di cattura del pensiero linguistico cessò.

In qualsiasi caso l’esperienza dei locked-in ha dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che se esiste pensiero cosciente può essere sempre tirato fuori dal cervello di una macchina umana: purché sappia dire “No”.

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