Jeffrey Dahmer, il mite ragazzo che mangiava ragazzi

17 Novembre 2022

Jeffrey Dahmer era nato nel 1960 a Milwaukee, una cittadina del Wisconsin, USA. Suo padre, Lionel Harbert, era un professore universitario di Chimica, sua madre – Joyce Annette Flynt – una formatrice di telescriventiste. Cromosomi tedeschi, gallesi, scozzesi, irlandesi. Jeffrey, quando comincia a uccidere, è un timido ragazzone biondo, dall’aspetto decisamente “tedesco”, il caucasico americano prototipo. Classe media, quindi. I genitori cominciano a litigare violentemente quando lui è bambino. La madre soffriva probabilmente di una grave depressione: si imbottiva di psicofarmaci ed era alcolizzata. Il padre comincia a non stare più in casa, e ha una relazione con un’altra donna. Un giorno il piccolo Jeffrey torna a casa, solo, da scuola, e nella casa deserta trova il fratellino piccolo che urla straziante nel lettino e la madre riversa in overdose sul letto: la salva lui chiamando un’ambulanza. 

L’infanzia brutta dei killer

Siamo tutti attratti da chi viola i tabù. Morbid dicono gli inglesi, è morboso, malato questo avvicinarci inorriditi ed eccitati al Male che noi non osiamo compiere. In House of the Dragon siamo sedotti dal fascino incestuoso di Casa Targaryen: fratelli che sposano sorelle che sfornano figli a volte vivi a volte morti e deformi; zii che sposano nipotine; cugini che sposano cugine; cavalcatori di draghi che sfidando le norme religiose dei sacerdoti Septon siedono per secoli sul Trono di Spade. Quando cadono, ecco, lo diciamo, è ovvio, non poteva durare, avevano infranto il tabù fondamentale dell’umanità, l’incesto, da qualche secolo dimostrato dalla scienza biologica: non possiamo mescolare cromosomi simili, ne nasceranno mostri.

Eppure, di mostri ne nascono ancora, anche fuori dall’incesto già punito nella tragedia greca. Il professor Dahmer non era il toro bianco e sacro donato da Poseidone a Minosse di Creta, e la signora Flynt non era Pasifae. E Jeffrey sin da bambino era un tipo strano ma gentile. Il padre lo portava con sé a scovare cadaveri di procioni e topi, per poi dissezionarli, eviscerarli, imbalsamarli nello scantinato che effettivamente la signora Flynt trovava orribile e ripugnante. Ma lui era un prof di Chimica, e stava insegnando le scienze a suo figlio, che ne pareva incantato, ipnotizzato. Il “mostro” è colui che rompe ogni norma e regola e tabù: non uccidere! E uccide; abbi pietà! E non ne ha. Quando Jeffrey diventa adolescente è totalmente privo di metacognizione e coscienza: si ritrova sessualmente attratto da giovanotti palestrati, da torsi statuari e cosce toniche, ma poiché è incapace di relazioni affettive li preferisce dormienti, e via via decisamente morti sul suo letto.

 

 

La premiata ditta Ryan Murphy Productions

Ryan Murphy è oggi lo showrunner, sceneggiatore, regista più infallibile nel mondo delle serie tv su Netflix; ha capito letteralmente tutto quello che serve nella ricetta di un prodotto perfetto: la scelta del soggetto (morboso, torbido, inquietante, inspiegabile), il casting (attori fenomenali messi in ruoli perfetti per loro), regia, montaggio, fotografia, suono, colonna sonora (in Dahmer nientemeno che Nick Cave!) che non sciupano, o sbagliano, un solo secondo delle 7-10 ore a disposizione in una stagione. I suoi ultimi due prodotti di scuderia, Monster: The Jeffrey Dahmer Story e The Watcher, scritte e dirette con Ian Brennan, hanno sfondato tutti i record storici mondiali di ore viste su Netflix.

Nel suo caso – non c’è dubbio – la coincidenza tra maestria artistica e studio di marketing dell’audience non sbaglia mai. Le due produzioni sono 2022, e se a interpretare Dahmer è Evan Peters, che si fa gemello del vero Dahmer non solo nell’aspetto, ma financo nel timbro vocale, nelle esitazioni alcolizzate e timide del serial killer poco consapevole, a interpretare la perfetta mammina di famiglia middle class newyorchese in The Watcher è una ancora stupefacente Naomi Watts, con quel suo mix abituale di ingenuità e determinazione.

The Watcher e Dahmer sono forgiati su “veri fatti accaduti” e questa matrice certo è un moltiplicatore di morbosa attrazione. Dahmer ha una sua parabola e un suo epilogo in qualche modo “morale” (Dahmer, che predava giovanissimi afroamericani omosessuali in un quartiere degradato, viene infine massacrato di sprangate da un afroamericano mentre sconta i suoi infiniti ergastoli); The Watcher no: quell’Osservatore che manda lettere anonime minacciose e angoscianti a chi compra e va a abitare una bella casetta sul Lago Erie, sino a farlo andare fuori di testa, non è mai stato beccato, e nessuno di noi vorrà mai metter piede in una casa tanto ambita e gravata di bad vibrations.

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Capiamo tutto ma non ci spieghiamo niente

Il caso Dahmer esplose quando ormai il suo appartamentino (che esalava tanfo di putrefazione per la collezione di parti umani smembrate, bollite, messe in frigo, moquette e tappeti inzuppati di sangue, bidoni di acetone zeppi di pezzi di cadaveri) viene visitato dalla polizia, fino ad allora clamorosamente indulgente con Dahmer perché così biondo e caucasico, chiamata dalla seconda vittima che era riuscita a scappare per strada e chiedere aiuto. Era il 1991: Dahmer aveva 31 anni, e da un decennio drogava e strangolava le vittime adescate nel dancing bar del quartiere, si masturbava e sodomizzava cadaveri, li affettava e spolpava, conservandone in frigo le viscere e gli organi vitali (nella lista delle parafilie la sua viene definita “splancnofilia”), mangiucchiandone ogni tanto un boccone.

Il suo primo omicidio lo commise a 18 anni, in tutto ne commise 17. Fu catturato, processato e condannato a 957 anni di carcere, poiché nel Wisconsin non c’era la pena capitale. Un secolo di psichiatria e psicanalisi ci spiegano bene l’eziologia della mostruosità di Jeffrey Dahmer. A lui sono stati dedicati svariati film e documentari nel corso di questi 20 anni. E sicuramente Ryan Murphy non ha avuto timore di sfidare e trionfare su tutta questa filmografia.

Il bimbo Jeffrey ci fa una compassione infinita: povero piccino, la madre è pazza e lo molla quando ha 18 anni portandosi via il fratellino prediletto in California; il padre lo lascia due settimane nella casa deserta prima di fargli visita; quel padre che scrisse un libro interessante, proprio dopo la condanna del figlio, in cui con onestà (secondo me: altri lo accusarono di turpe opportunismo) volle fare autocritica sulla sua anaffettività e sui suoi errori genitoriali, per consigliare bene i futuri genitori sui rischi della deriva dei disamati. Jeffrey vuole dominare il corpo che gli piace, e capisce che il modo migliore è drogargli la Coca Cola prima, e strangolarlo dopo. Vuole entrar dentro di loro, accoccolarsi nella poltiglia e confortarsi qualche istante.

Detto questo, capito perché si può diventare un serial killer, rimane la domanda filosofica abissale: ma come è possibile questa opzione, per noi umani? Come è possibile spingere la nostra crudeltà forti di giustificazioni ideologiche, psichiatriche, oltre il limite? E qui nei titoli di testa conta assai vedere che molti episodi sono stati diretti da Jennifer Lynch, la figlia di David, che da ragazza scrisse nel 1990 per il padre uno dei primi spin-off delle prime serie tv contemporanee, Twin Peaks: The Secret Diary of Laura Palmer. Quelle erano le confessioni immaginarie di un personaggio immaginario preso nel gorgo del Male. Di Jeffrey Dahmer abbiamo invece le registrazioni della sua giovane avvocata, e alcune interviste rilasciate in carcere a televisioni americane: le parole dei serial killer ci spiegano qualcosa? Ci aiutano a capire, le parole che Dahmer scrisse al suo giudice?

«Ora è finita. Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato. Non ho voluto mai la libertà. Sinceramente, volevo la pena capitale per me stesso. Qui si è trattato di dire al mondo che ho fatto quello che ho fatto, ma non per ragioni di odio. Non ho odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio o entrambe le cose. Ora credo di essere stato malato. I dottori mi hanno parlato della mia malattia, e ora mi sento in pace. So quanto male ho causato... Grazie a Dio non potrò più fare del male. Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati... Non chiedo attenuanti».

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