William Atkins: il mondo esiliato da se stesso
Che significa esilio? Cosa ci rivela del mondo e del destino umano la condizione di coloro che devono lasciare la casa, gli affetti, la terra natale? E viceversa, una volta partiti gli esuli, che identità viene ad assumere invece chi è rimasto in patria? Mi pongo questi interrogativi mentre osservo un dipinto a olio, realizzato da Rembrandt nel 1630, e attualmente conservato al Rijksmuseum di Amsterdam. Si tratta di un’opera che raffigura il profeta Geremia, intento a meditare sulle rovine di Gerusalemme, distrutte dal re babilonese Nabucodonosor. Ispirato al libro biblico delle Lamentazioni, il quadro ci mostra un vegliardo imponente, addobbato con vesti sontuose, mentre se ne sta seduto, o meglio accasciato di sbieco, alla base di un’enorme colonna. Con la mano sinistra il vecchio sorregge la testa canuta e barbuta, mentre la destra rimane nascosta fra le pieghe di un ampio manto azzurro.
Malgrado lo sfarzo degli abiti, i piedi sono nudi, da uomo umiliato, da creatura dei dolori: sembra azzoppato, perché di piede in realtà se ne vede uno solo, il sinistro, in parte oscurato da ombre cupe, in parte rischiarato da bagliori minacciosi. Lo sguardo del profeta è chino verso il basso: non osserva noi bensì un punto impreciso, inafferrabile, come se stesse contemplando il vuoto, il nulla. Con una differenza però: l’occhio sinistro rimane in ombra, quasi fosse cieco, mentre il destro brilla di una strana luce fosca e disperata, forse perché tutta la parte destra del corpo e dell’ampia fronte è illuminata dai fulgori di un incendio immane: sono le fiamme che stanno divorando Gerusalemme, annientata dagli invasori babilonesi. In mezzo ai fuochi e ai fumi, quasi indistinguibile, s’intravede giù in basso un’ombra che fugge coprendosi gli occhi: è l’ultimo re di Gerusalemme, Sedechia, accecato dal sovrano babilonese Nabucodonosor. Le sue insegne regali, ormai inutili, giacciono ora su un masso, proprio accanto a Geremia: perché, secondo lo storico di origine ebraica Giuseppe Flavio (del I secolo d. C.), tali paramenti sfarzosi furono donati a Geremia da Nabucodonosor stesso, in segno di rispetto: una corona maestosa, il cui oro e il cui argento sfavillano adesso, con tragica ironia, allo sfolgorio del fuoco; poi uno sfarzoso manto ricamato, ora gettato su un sasso; quindi una brocca rituale; infine un’enorme Bibbia grigiastra, piegata sotto il peso del gomito sinistro di Geremia: in quella Bibbia – teniamolo presente – sta per essere inserito uno scritto fatidico per il momento assente: il libro delle Lamentazioni, il tragico testo che, secondo la tradizione, verrà scritto da Geremia, dopo aver pianto la distruzione di Gerusalemme.
Ma ora il profeta non sta scrivendo ancora: medita in silenzio sulla fine della città di Dio, che si sta disfacendo in basso e in lontananza, tra braci e faville. Geremia è rimasto solo, quasi fosse l’unico sopravvissuto: ma non è esattamente così. Gli abitanti di Gerusalemme infatti non sono stati tutti uccisi, bensì inviati in esilio: i superstiti Nabucodonosor li ha deportati a Babilonia. E così, nella città annichilita, sembra sopravvivere adesso un unico abitante: è appunto Geremia, rimasto a contemplare la desolazione e a descrivere in un libro futuro la catastrofe di un popolo sconfitto. Sopravvissuto in patria, è anche lui paradossalmente un esiliato: poiché sono partiti tutti, poiché ora tutto tace, e ogni lingua è spenta, anche chi rimane nella terra natale si è trasformato in un esule pure lui. Non ha più nulla, è ridotto alla condizione di profugo stanziale. Pare disperato, Geremia? Sembra divorato da un’angoscia senza nome? Se guardiamo l’occhio sinistro, sprofondato nelle tenebre, verrebbe sicuramente da rispondere di sì. Ma se scrutiamo con più attenzione la pupilla destra, scorgiamo invece in essa non solo angoscia, ma pure uno sfavillio, un bagliore, un’energia carica di determinatezza. Geremia infatti è un profeta: intuisce, sente, sa, che il Signore non abbandona per sempre i suoi figli. Percepisce che al lungo, dolente tempo dell’esilio, seguirà poi quello del ritorno: i giorni agognati in cui il Signore ricondurrà finalmente a Gerusalemme gli esuli di Babilonia. E infatti così si conclude il libro delle Lamentazioni: «Facci tornare a te, o Signore, e noi torneremo! Ridonaci dei giorni come quelli di un tempo!». L’occhio brillante di Geremia ci fa sapere, ci fa intrasentire che, di là dalla presente desolazione, ricomparirà in avvenire il tempo della gioia, la fine del lungo esilio…
Ma se io ora mi sono dilungato nella descrizione di questa sconvolgente e lacrimevole opera di Rembrandt è perché cercavo una via per districarmi dalle inquietudini emerse in me dopo aver letto un resoconto a sua volta enigmatico e fascinoso. Mi sono infatti imbattuto nel Geremia di Rembrandt mentre mi chiedevo come mai mi avesse tanto turbato un libro apparentemente facile da apprezzare e da comprendere: Tre isole. Storie di mare, esilio e dissidenza, pubblicato nel 2022 dallo scrittore britannico William Atkins, e ora edito in Italia da Iperborea. Avevamo già felicemente scoperto Atkins due anni fa, quando Adelphi aveva proposto il suo libro precedente: Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti: straordinario racconto di peregrinazioni da lui compiute nelle regioni più desolate e neglette del mondo attuale. E ora ecco che il nostro autore ci propone questo nuovo, sorprendente viaggio non solo in tre isole remote, ma anche in un tempo ormai piuttosto lontano: la fine dell’Ottocento, quando vigeva una terribile usanza punitiva: il cosiddetto “esilio imperiale”. Quello stesso tipo di esilio – per intenderci – adottato dal re Nabucodonosor quando volle deportare a Babilonia i superstiti di Gerusalemme. Per la verità, Atkins non ci parla mai di Geremia e della Gerusalemme in fiamme. Fa però spesso riferimento a un altro famoso esule del mondo antico, da lui esplicitamente adottato come «spirito guida» dei suoi nuovi viaggi: il poeta Publio Ovidio Nasone, dapprima felice cantore della mondanità romana, poi caduto in disgrazia ed esiliato dall’imperatore Augusto a Tomi, sulle rive desolate del Mar Nero, dove poi morirà: «Io che qui giaccio cantore di teneri amori, / il poeta Ovidio, perii per il mio genio. / Ma a te che passi, chiunque tu sia che hai amato, / non rincresca dire: dolce riposo abbiano le ossa di Ovidio».

Secondo Atkins, infatti, è Ovidio il poeta esemplare che ha patito, compreso, e poi declamato nelle elegie dei Tristia (“Tristezze”) le lacerazioni del confino in terra straniera, il lamento di chi, nella deportazione, è stato come strappato da se stesso. E anime lacerate, anche se indomite, sono quelle dei tre eccezionali personaggi di cui – in modo molto preciso, documentato, e narrativamente coinvolgente – Atkins ricostruisce il dolente destino. Dapprima incontriamo l’anarchica, turbolenta, perennemente ribelle Louise Michel, una delle figure di spicco a capo della Comune di Parigi nel 1870, poi deportata per sette anni dalle autorità francesi nella colonia penale della Nuova Caledonia, a nord-est dell’Australia. Quindi fa la sua comparsa il re degli Zulu Dinuzulu kaChetshwayo, ultimo sovrano di una potente dinastia sconfitta dai coloni inglesi, che nel 1890 lo esiliarono, sempre per sette anni, in mezzo all’Atlantico, in quella deprimente isola di Sant’Elena, dove finì i suoi giorni il più celebre di tutti gli esiliati: Napoleone. Ed ecco infine l’ebreo ucraino Lev Šternberg, accanito dissidente zarista, e proprio per questo destinato nel 1889 a trascorrere otto anni nella tremenda, lontanissima, gelida isola di Sachalin, oltre il limite ultimo della Siberia.
Nessuno di questi tre protagonisti del libro di Atkins ebbe mai sentore l’uno dell’altro: è il nostro scrittore inglese a ricostruire le similitudini delle loro vicende biografiche. Tutti e tre convinti oppositori delle autorità a cui non volevano sottomettersi, furono colpiti da una medesima punizione allora molto in voga fra le potenze imperiali: il lungo isolamento in una terra difficile e remota, dove avrebbero dovuto ravvedersi, per poi rientrare pentiti in patria. Ravvedimento che in realtà non ci fu mai per nessuno dei tre: Louise Michel rimase un’orgogliosa, convinta anarchica e, tornata in Francia, riprese le sue attività di sovversiva militante, fino alla morte, avvenuta a 75 anni, nel 1905 a Marsiglia, dopo un ennesimo tour di comizi e infuocate conferenze. Il re Dimuzulu, per quanto ormai privato delle sue terre, rivendicò e mantenne fino alla fine tutta la sua dignità di sovrano zulu, per poi spegnersi nel 1913 in Transvaal, all’età di 45 anni. Lev Šternberg scoprì in esilio la dignità e la ricchezza dei Nivch, la popolazione locale: ne studiò scientificamente la lingua e le usanze, tanto da porre le basi della nuova etnografia russa. Non solo: dopo la scarcerazione, divenne direttore sia del Museo ebraico sia del Museo di Antropologia a San Pietroburgo, senza mai cessare per questo di sentirsi un oppositore indomito dello zar, e poi, con più cautela, del nuovo potere sovietico. Fino a quando, nel 1927, si spense a 66 anni.
Sia chiaro: di questi tre tormentati personaggi Atkins non ci propone delle biografie romanzate. Ricostruisce invece le loro vite avventurose, prima, durante e dopo l’esilio, basandosi solo su documenti accertati, sui libri che storici contemporanei o pubblicisti dell’epoca hanno dedicato all’argomento. Ma lo fa mantenendo sempre un affabile stile narrativo, che rende piacevole la lettura. Non solo. Essendo un viaggiatore e un giornalista per vocazione, Atkins non poteva accontentarsi di una mera ricerca d’archivio. È anche andato di persona a visitare i tre luoghi dell’esilio: Nuova Caledonia, Sant’Elena, Sachalin. Tre isole perse fuori da ogni rotta turistica, lande desolate, impervie, neglette, raggiungibili solo grazie a lunghe e spesso ardimentose peripezie. Così, la storia dei tre dissidenti s’intreccia con il racconto delle proprie esplorazioni, compiute oltre un secolo dopo il loro esilio. Perché lo ha fatto? Perché era convinto che quei luoghi conservassero un’anima, un frammento, un residuo, sia pur minimo, lasciato dai tre deportati che laggiù avevano trascorso in solitudine tanti anni. E quindi, andando di persona, avrebbe potuto avvicinarsi un poco di più alla comprensione del loro destino. Ecco ad esempio che cosa Atkins trova a Sachalin, quando insieme a tre guide locali raggiunge con estrema fatica il villaggio semidistrutto di Viachtu, dove Lev Šternberg avrebbe condotto le sue ricerche etnografiche sul popolo Nivch:
«“Niente!” ripeté Miromanov, camminando avanti e indietro nell’erba alta, mentre Vladimir e Orbet fumavano vicino alla barca». Come dire: “qui non c’è niente da vedere, e tu, inglese, ci hai fatto fare invano la fatica tremenda di questo stupido viaggio!”. Ma Atkins non è convinto, si guarda meglio attorno e scopre che c’è invece qualcosa: il «quasi niente». Ecco infatti cosa scopre da osservare: «il profilo sporgente di fondamenta coperte d’erba lunga e morta; la buca di un pozzo soffocata dagli arbusti; qualche trave; cespugli di mirtillo, abeti rachitici, una specie di rovo in fiore… ma per il resto soltanto il confine buio del bosco sul limitare della pianura a nord, e l’acqua dell’estuario che scorreva come il deflusso di un forno fusorio. “Una tomba solitaria e abbandonata nella taiga deserta”: così Šternberg definì questo posto. “Il cielo incombeva basso sulla tundra innevata, circondata da una nebbia densa, e più in là, mi sembrava, c’era la fine del mondo”». Dunque solo disfacimento e desolazione? No, perché in quel mondo abbandonato – nota Atkins – il nostro esule scoprì l’esistenza del misterioso popolo Nivch, studiando il quale pose le basi per la nuova etnologia russa e trovò per se stesso la via del riscatto spirituale.
«Quasi niente» è anche quello che Atkins trova a Sant’Elena, sulle tracce del re Dimuzulu, deportato sull’isola con la famiglia e una minuscola corte: «Nel prato trovai una piccola tomba doppia con una sola, bassa lapide e due vasi di vetro con dentro gambi di fiori rinsecchiti. Nella tomba riposano uNomfino, una bambina di quattro mesi morta di polmonite nel 1891, un anno dopo l’arrivo degli zulu sull’isola, e uMohlazana, un bambino di tre anni morto di enterite nel 1894. In basso, sulla lapide, ci sono due piccole scritte: “Figli di Dimuzulu”, e “Sia fatta la Tua volontà”». Ma uno straziante «quasi niente» è pure il messaggio che il povero re Dimuzulu scrisse a un avvocato, quando, dopo l’esilio a Sant’Elena, venne relegato dagli inglesi in una fattoria del Transvaal, lontano dal suo popolo e dalle sue terre: «La mia pena non ha eguali – scrive – cominciò a tormentarmi quand’ero bambino e mio padre fu portato via dai bianchi e ancora mi tormenta. Ciò che mi angoscia è che mi hanno ucciso, eppure sono ancora vivo. Morire davvero non sarebbe nulla al confronto». Al che Atkins commenta: «Sentirsi morto in vita: il lamento di tutti gli esuli. Già duemila anni prima, Ovidio non solo pensava che avrebbe potuto essere un morto, ma per davvero credeva che la sua vita fosse finita nel momento in cui aveva abbandonato Roma. Senz’altro, dietro l’impressione di sentirsi “vivi dopo essere stati uccisi” si cela un’ansia secondaria: che per la tua gente – compatrioti, sudditi, figli – sei a tutti gli effetti morto. Le tue lettere ricevono sempre meno risposte, il ricordo della tua faccia sbiadisce dalla memoria, le parole di elogio per te si fanno più vaghe e rare».
E Louise Michel, invece, come affrontò l’esilio in Nuova Caledonia? Sempre seguendo questa fragile ma intensa poetica del «quasi niente», Atkins scopre con commozione la radura dove lei aveva piantato un piccolo orto nella foresta: flebile traccia del suo soggiorno laggiù. Poi Atkins incontra i Kanak, la popolazione locale sempre in lotta con i coloni francesi, e per i quali Michel aveva deciso con successo di fare da maestra di scuola. Per lei infatti – così sostiene Atkins – la soluzione era questa: «vivere come se non fossimo francesi, kanak, russi, zulu o inglesi, ma come se tutto il mondo, l’universo, fosse la nostra città d’origine». Ma – precisa lui – c’è un prezzo da pagare per una simile soluzione: «sentirsi sempre senza casa». In partenza dalla Nuova Caledonia, Atkins aggiunge quindi queste dolorose osservazioni conclusive: «Per Ovidio l’esilio era un dividersi in due, una dislocazione nel vero senso della parola: “La sensazione che una parte di me sia strappata dal resto del corpo” (…) Il corpo che si sforza di dimenticare e al contempo la mente che si sforza di tenere insieme l’io».
Ecco però che, una volta conclusa la lettura di questo libro malinconico e magnetico, sono stato assillato da un interrogativo inatteso: come mai avevo l’impressione che le vicende di questi tre esuli sperduti mi riguardassero, anzi ci riguardassero da vicino? D’accordo, la storia ti cattura come se si trattasse di un bel romanzo, ma perché mai una simile sensazione di forte rispecchiamento, quasi fosse qui in questione un problema non del lontano Ottocento, bensì dei nostri giorni? In fondo, la punizione dell’«esilio imperiale» è un dramma che non riguarda più nessuno, o quasi più nessuno: fa parte di un mondo ormai disperso nelle nebbie del passato. E anche il fascino dei tre personaggi descritti da Atkins non si nasconde forse nella loro grande lontananza da noi, piuttosto che in una loro impossibile vicinanza?

Ho pensato allora, per un po’ di tempo, che il libro fosse attraente perché funzionava come una sorta di introduzione alla tragedia dei migranti, dei profughi, dei rifugiati che, in massa e con dolore, si spostano fra le contrade del nostro mondo attuale. E in parte il libro può effettivamente svolgere questo ruolo: ci fa capire lo strazio del dover abbandonare casa propria. Ma non può essere solo questo: perché le avventure o meglio le sventure del re Dimuzulu, di Louise Michel, di Lev Šternberg ci raccontano di peripezie individuali, di vicissitudini solitarie, mentre i drammi dei migranti di oggi si presentano il più delle volte sotto forma di epopee corali, di viaggi strazianti compiuti in affollati assembramenti. Ma allora, perché questa così intensa, inconsueta identificazione da me provata nei confronti delle infelicità, delle traversie vissute dai tre protagonisti di Atkins? È appunto cercando una risposta a tale quesito che mi si è fatta incontro la figura del Geremia di Rembrandt, unico sopravvissuto nella Gerusalemme distrutta, e proprio per questo trasformato in uno strano esule rimasto però a casa, ma una casa incenerita, in cui lui non si può rispecchiare più.
Ebbene, questo sconcertante senso di straniamento colpisce anche gli esuli di Atkins una volta rientrati dall’esilio: sono di nuovo a casa, ma non ne hanno sollievo, un po’ perché le persone e i luoghi famigliari nel frattempo sono cambiati o sono scomparsi, un po’ perché l’esperienza dell’esilio è stata così radicale da averli trasformati in persone diverse da quel che erano prima di partire. Si guardano intorno e non riescono più a ritrovarsi, a orientarsi come prima. Rimangono irrimediabilmente esuli, pur essendo di nuovo a casa.
Ma non è questo una condizione che a poco a poco sta affliggendo tutti noi, anche se magari non ci siamo mai mossi più di tanto dal paese natale, dai luoghi famigliari? Il mondo sta cambiando velocemente e drammaticamente. Lo sappiamo benissimo, è fin troppo ovvio doverlo ricordare: gli sconvolgimenti del cambiamento climatico, le devastazioni delle guerre, il degrado del paesaggio, i sovraffollamenti dell’overtourism, il degrado delle periferie… Quante volte ci siamo detti, forse superficialmente, o abbiamo con inquietudine pensato: “Questo era il mio posto, ma ora non lo riconosco più, non mi ci rispecchio più, mi sento quasi un profugo a casa mia”? Come se il nostro mondo tanto famigliare si ritrovasse ora, pure lui, esiliato da se stesso.
Ecco perché la figura del Geremia di Rembrandt, per quanto enfatizzata, drammatizzata, ingigantita, ci colpisce così tanto: sembra infatti riproporre “in grande formato” un disagio, un dolore che, in piccolo, proviamo oscuramente pure noi. Ed ecco perché è così facile rispecchiarci anche nei tre protagonisti di Atkins, quasi fossero tre inaspettate controfigure delle nostre anime. Il loro perenne spaesamento, che persiste pure tornati a casa, lo sentiamo così famigliare proprio perché ci sembra anche un po’ il nostro. Anche noi protesi a recuperare il nostro “mondo di prima” e anche noi costretti a riconoscere che quel mondo sta irrimediabilmente tramontando o non c’è già più. Di fronte a un simile scenario devastato, ci rimane la lacerazione, il rimpianto, ma in noi si fa strada pure l’attesa di un qualcosa di nuovo che forse sta per sorgere, anche se tuttora celato di là dall’orizzonte. Come la pupilla di Geremia che non piange soltanto le rovine ma, pur fra le macerie, sfavilla, fiammeggia, perché sa immaginare, intrasentire anche il mondo rinnovato, rigenerato che alla fine si presenterà. È capitato anche a Louise Michel e a Lev Šternberg (non però a Dimuzulu): pur sconfitti irrimediabilmente, una volta di nuovo a casa, hanno continuato a credere fino alla fine, con convinzione, addirittura con entusiasmo, nei valori di quel mondo nuovo per il quale avevano combattuto e che sicuramente – così percepivano – sarebbe un giorno sopraggiunto.
