George Gissing, un vittoriano al Sud

25 Marzo 2023

Forse aveva ragione Raffaele Nigro quando, in Diario mediterraneo (2001), scriveva che gli intellettuali del Nord Europa, nei periodi intristiti della loro esistenza, usavano rivolgere lo sguardo alle acque del Mediterraneo, come se discendere dalle fredde latitudini del calvinismo borghese nel continente della luce meridiana, abbandonarsi alle linee frastagliate delle coste di quell’Italia meridionale che sopravviveva nella percezione del mondo progredito come il lascito di un antico primordio o di una classicità mai estinta, fosse una maniera per vincere l’impressione di tedio, per superare il sentirsi inappropriati e provvisori, un coagulo di sentimenti che sulle rive del Danubio o del Reno o del Tamigi nessuno chiamava con il vero nome, ma a tutti gli effetti era il male di vivere. Solo in parte possiamo intuire come mai i popoli del Nord Europa, proprio loro che avevano fatto dell’efficienza e dell’organizzazione un valore immancabile, avvertissero l’angustia del tempo, l’usura del quotidiano, il logorio della civiltà efficiente e amassero confondersi nel labirinto di rovine e di degrado che era invece il Mezzogiorno d’Italia, il paese del sole e della luce, il continente dove perdere la memoria e ritrovarsi. Cosa potesse generare la vista di un mondo più primitivo e arretrato rispetto a quello a cui erano abituati resta uno dei grandi misteri che lega il settentrione e il meridione dell’Europa. Fuga dalla civiltà? Ritorno alle madri? Esotismo geografico? Può darsi, però non basta. Agiva piuttosto il desiderio panico di aderire con la mente e con il corpo alle leggi eterne del primigenio, c’era un rivendicare il diritto al sogno che soltanto l’ebbrezza del Grand Tour poteva regalare, nonostante i pericoli di avventurarsi in zone selvagge, che era un rischio ma anche un fascino. Non si spiega altrimenti come mai uomini di cultura e di finanza, nobili e avventurieri arrivavano dal Nord innamorati del Mezzogiorno, sensibili al clima, curiosi di vedere all’opera una popolazione che veniva considerata pittoresca – è questo l’aggettivo che andava per la maggiore – e convinti di vivere un’esperienza che aveva caratteri di eccezionalità.

Sono queste le sensazioni che accompagnarono lo scrittore inglese George Gissing durante il suo viaggio nelle terre dell’Italia meridionale, effettuato sul finire dell’Ottocento (1897), di cui rimane un resoconto tanto emozionante dal punto di vista narrativo quanto utile alla ricostruzione antropologica, che Mauro F. Minervino ha tradotto e curato per i tipi di Exorma (Verso il Mar Ionio. Un vittoriano al Sud, con un testo inedito di V. Woolf, p. 333). Chi conosce Minervino può confermare senz’altro che nei suoi studi di antropologia meridionale il nome di Gissing torna come un refrain da almeno due decenni, a dimostrazione non solo di una lunga fedeltà a un tema che sta a cuore (quello del Mezzogiorno osservato dagli occhi di un forestiero), ma di una adesione convinta nei confronti dell’interpretazione che lo stesso Gissing dà del Mezzogiorno e, in particolare, della Calabria. Gissing e Minervino sono figure che vanno sottobraccio: uno regge in piedi l’altro e si guardano come in uno specchio simbolico, cercano la prospettiva migliore per narrare com’era quel mondo tanto amato da Gissing da averne fatto una specie di patria. È vero che quest’ultimo, quando visitò il Sud d’Italia, non aveva ancora ricevuto l’attestazione di scrittore che probabilmente si aspettava in patria. Era un autore prolifico, aveva al suo attivo diverse opere e altre erano in arrivo, ma non gli era ancora riconosciuta la fama che cercava, nonostante frequentasse la migliore società letteraria del suo tempo.

Sottrarre Gissing alla trascuratezza del tempo è stato un po’ il movente che ha orientato il lavoro di Minervino in questi ultimi anni, come se fare opera di risarcimento, aiutare a diffonderne il valore fosse un impegno che riscattasse non solo quest’uomo ma tutto ciò che la sua penna aveva lasciato, a cominciare appunto dal resoconto del viaggio. A questo fine, infatti, risponde perfettamente l’inedito con cui Virginia Woolf ricordava Gissing e che ora leggiamo integralmente a corredo di questa edizione: «Lasciate dire finalmente a qualcuno che trascorre la propria vita scrivendo romanzi che oggi è arrivato finalmente il momento di parlare di George Gissing. […] Egli non è uno scrittore “popolare”, e non è ancora veramente “famoso”. Ma se ci è consentito di congetturare sul destino futuro di queste nuove edizioni delle sue opere, noi possiamo immaginare che esse troveranno infine la strada verso case dove sono giunti sinora pochi romanzi». Nonostante l’augurio di successo venisse da una voce così autorevole, il corso degli eventi futuri non sarebbe andato nella direzione che prospettava l’autrice di Gita al faro e il nome di Gissing è rimasto per un secolo ancora in ombra. Eppure questo libro ha una sua, simbolica ragione di esistere. «Lirico e malinconico» scrive Minervino nell’introduzione, «il capolavoro di scrittura di viaggio di Gissing alterna luce e oscurità, vita e morte, paganesimo e cristianesimo. Ma egli resta soprattutto un ritrattista formidabile di donne e di incontri che popolarono il suo viaggio».

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Ora forse sono più evidenti i motivi per cui varrebbe la pena leggere Verso il Mar Ionio. È un diario di viaggio, ovvio, ma anche il termometro per misurare una solitudine (non solo quella di un individuo, ma di un popolo abituato alla nebbia e all’umido), il vademecum di un incontro (e forse anche di un innamoramento) tra due civiltà che probabilmente poco si sarebbero accordate per darsi convegno: il puritanesimo anglosassone, così irritante di autocompiacimento, e la devastante immagine di un mondo, il Sud, la Calabria, dove non si comprende fino a che punto sia stato ultimata la fase di creazione divina – il non compiuto calabrese, che era e rimane una categoria antropologica di forte valenza interpretativa – oppure se lo scorrere del tempo si sia già spinto oltre, troppo oltre le soglie dell’avventura umana, scollinando in ciò che sta dopo il senso di finitudine, come se fosse già passata sopra quel mondo l’ombra di un’apocalisse biblica. È questa la sensazione che si respira leggendo, tappa dopo tappa, il percorso di Gissing: Napoli, Paola, Cosenza, Taranto, Metaponto, Crotone, Catanzaro, Squillace, Reggio. La Calabria è una terra che attende un compimento o una sua redenzione, eppure mai una volta, nella voce di Gissing, si intuisce la superbia del cittadino che visita il tugurio con affettato compatimento perché – e qui soggiace davvero un tema che assume valore proprio per il suo essere un discorso contromano – «resto convinto» – dichiara lo scrittore – «che un povero di Crotone ha comunque dei vantaggi rispetto al proletario che abita in una catapecchia dei sobborghi di Londra». Poteva ricevere attenzioni presso il pubblico di lingua inglese un autore che si lasciava andare a simili dichiarazioni? Difficile pensarlo e io credo che abbia ragione Minervino quando afferma che «Gissing ebbe il solo torto di svelare all’Inghilterra imperialista, puritana e sessuofoba, il volto ipocrita della tarda età vittoriana».

Chissà se sia vero fino in fondo che Gissing si sia sentito forestiero nei confronti della sua patria, non invece della Calabria. E l’idea di un amore nato a prima vista, con il sospetto che il nostro autore avesse trascorso al Sud un periodo di vita felice tanto da persistere e resistere alla tentazione di fare presto ritorno a casa, si accrescono di spessore quando ci imbattiamo nel sorprendente elogio che egli fa di una conversazione ascoltata in un caffè di Catanzaro, messo a paragone di quel che avviene nei pub inglesi. «Questa gente del Sud» scrive «ha un rispetto innato per l’eloquenza, un’antica disposizione al ragionare, per i concetti astratti e verso le cose profonde della mente, cose che mancano totalmente all’inglese tipo. Non c’è poi bisogno di ribadire oltremodo un dettaglio civile che caratterizza in modo saliente questo tipo di conversazioni; ovvero sul punto che l’animazione dei dialoghi era sostenuta da una piccola tazza di caffè o da un bicchiere di limonata. Questa è forse un’inclinazione determinata da questioni di clima e di complessione fisica dei meridionali italiani; sarà, ma non ho potuto fare meno di notare l'assenza di qualsivoglia tipo di allegria maleducata e di certe grevi spiritosaggini che da noi sono invece così naturalmente associate al consumo di liquori e alcolici. Nessun discorso avrebbe potuto essere meno offensivo e alterato dall’alcol di quelli che ascoltai in quel caffè di Catanzaro. Da molti bar e pub, locali pubblici tipici delle città e di certe campagne inglesi, sono invece fuggito via pesantemente offeso da un senso di noia e disgusto. Quel caffè di provincia nella piccola Catanzaro mi parve, in confronto, un luogo di incontro molto civile e divertente, quasi un’assemblea di saggi, di spiriti liberi e di filosofi».

Sorge ora il dubbio che Gissing ci abbia dato il resoconto non tanto di ciò che fosse davvero la realtà, ma di quel che i suoi sentimenti vollero vedere e percepire, le intenzioni più che i dati concreti, l’immaginazione del vero, magari anche sfiorando il pericolo degli stereotipi, perché il viaggio, a considerarlo nei suoi aspetti esteriori, non è una stata poi una passeggiata amena, anzi ha avuto le sue complessità: il maltempo, il riaffacciarsi di malanni fisici, la poca igiene, la scomodità nei trasferimenti, la poca affabilità di vetturini e avventori. Eppure c’è sempre qualcosa che riempie la pagina di questo diario, ed è il senso di un’appartenenza, sia pure di riflesso, il significato di un’avventura alle soglie dell’età di Adamo, come se in quei luoghi, soltanto nell’asperità di quello spaccato di mondo non ancora rapito dal mito della modernità, Gissing abbia goduto di una sorta di pienezza, del sentimento di una totalità che raramente accade di provare, soprattutto quando ci si avvicina a qualcosa che non ti appartiene. Emblematiche, in tal senso, le parole con cui Gissing si congeda da quella geografia (e dal lettore): «E mentre volgevo lo sguardo per l’ultima volta verso il Mar Jonio, desiderai ancora che ciò che vedevo fosse lì per me. Avrei desiderato restare. Per vagare all'infinito nel crepuscolo di quel silenzio antico, dimentico dei miei giorni, del mondo così com'è, di ogni suo frastuono».

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