Gli scienziati e la meraviglia

13 Novembre 2023

Che poi, al fondo, divulgare la scienza è raccontare storie. Mestiere che a Richard Holmes riesce evidentemente naturale, specialmente quando lo pratica in quello specifico ambito, “fisicamente più impegnativo di quanto si riterrebbe”, dei racconti biografici. Tradizionalmente di poeti romantici come Shelley, Coleridge, Nerval, più recentemente, ma già dieci anni fa, narrando le avventurose storie dei pionieri del volo sui balloon aerostatici, prim’ancora, nel 2008, dando alle stampe The age of wonder, oggi da noi per i lodevoli tipi di Orville Press, con il titolo L’età della meraviglia (traduzione di Lisa Topi). È l’età che ci riporta alla straordinaria vita dello scienziato quando era ancora filosofo naturale, per il quale “non esiste oggetto che sia irrilevante o futile […], una bolla di sapone […], una mela […], un sasso […]: egli si fa strada fra le meraviglie”. Una scienza romantica, che si può collocare, secondo l’opinione dell’autore, approssimativamente e simbolicamente tra due celebri spedizioni: il primo giro del mondo del capitano James Cook e il viaggio alle Gàlapagos di Charles Darwin: 1768-1831, un paio di generazioni al più. Nulla a che vedere con “la” rivoluzione scientifica del ‘600, che da Cartesio arriva a Newton, quasi contemporanea alla nascita della Royal Society a Londra e dell’Accademia delle Scienze di Parigi. Di quest’altra rivoluzione, della quale racconta il testo di Holmes, aveva riferito la prima volta Samuel T. Coleridge nelle sue Conferenze sulla storia della filosofia del 1819, un rivolgimento innescato a seguito di fenomenali scoperte in campo astronomico e specialmente chimico, sicuramente figlie del razionalismo illuminista, ma poi prendendone le distanze, “connotando il lavoro scientifico con un fervore visionario e un entusiasmo nuovi [ispirati da un] ideale di un impegno intenso – talvolta perfino spericolato – e in prima persona nella scoperta.”

È romantica l’idea dell’esplorazione solitaria e perigliosa; è il concetto – e anche il luogo comune – del “genio scientifico sregolato e assetato di conoscenza fine a sé stessa e a qualsiasi costo”. Un’idea neo-faustiana, celebrata all’epoca, tra gli altri, da Goethe e Mary Shelley, e che senza dubbio rimane uno dei suoi maggiori e più ambiziosi lasciti. Tant’è che ne subiamo ancora il fascino. È una scienza che si rivolge verso la natura infinita e misteriosa, provando a rubarne i segreti, usando – è una delle sue caratteristiche riconoscibili – mirabolanti, nuovi strumenti scientifici, capaci di amplificare le naturali capacità dei sensi, ma andando anche oltre, cominciando a intervenire attivamente nel mondo naturale, trasformandolo nell’osservazione: “persino la mongolfiera [quella di Falling Upwards] era percepita come un mezzo di scoperta o un’arma di seduzione”. È una scienza che prende le distanze dall’immagine dell’universo orologio, metafora puramente meccanica, aprendosi ad una dimensione dinamica fatta di forze invisibili e energie misteriose, di fluidità e trasformazione, crescita e mutamenti organici: e quindi elettricità, chimica insieme a un’astronomia che, nell’incontro con la cosmologia romantica, cambierà radicalmente di statuto. Una scienza per le persone. “La rivoluzione scientifica di fine Seicento aveva promosso essenzialmente un sapere individuale, elitario e specialistico.

La sua lingua franca era il latino, la sua moneta corrente la matematica, i suoi adepti una ristretta (benché internazionale) cerchia di accademici e studiosi. La scienza romantica si prefiggeva invece di istruire, spiegare, comunicare a un pubblico generico”. Divulgare la scienza, allora. In forma essenzialmente romanzesca, il genere che Holmes padroneggia e grazie al quale ci accompagna nella “meraviglia” delle vite più intime dei suoi protagonisti, in quelle dell’astronomo William Herschel, del chimico Humprey Davy e, nella prima parte, grazie allo spirito guida di un vero e proprio Virgilio come Sir Joseph Banks, il botanico, il diplomatico, l’eminenza grigia in quanto più longevo, navigato (in principio navigatore con il capitano Cook, appunto), e influente presidente della Royal Society.

Che poi, in effetti, la recensione potrebbe concludersi qui, avendo riassunto i temi programmatici che Holmes anticipa nel prologo, tra l’altro anche molto breve, una decina di pagine, ragion per cui sarebbe consigliabile leggerlo per intero, in luogo delle due paginette del recensore. E invece ne rimangono ulteriori seicento (un “librone”, quello di Holmes), che sono il vero motivo per raccomandare la lettura di L’età della meraviglia, un saggio di scrittura biografica di cui chiunque può godere, a maggior ragione chi di scienza e dei suoi protagonisti si è interessato poco e solo occasionalmente. Di passata, notando e riflettendo sulla gratuità di certa fiction, che prova a figurarsi l’emblematicità di caratteri inventati, sovente assai improbabili, quando la realtà storica ce ne consegna di straordinari, realmente fuori misura, eccezionali in più d’un senso, ancor più autentici nella trattazione romanzesca che la loro vita reale può autorizzare. Posto che a scrivere sia una penna ispirata, come quella di Holmes.

Che parte da una data precisa, 13 Aprile 1769, e da un’altrettanto puntuale coordinata, 17° sud, 149° ovest: Tahiti. Per noi, l’isola dove si rifugeranno, in cerca di autenticità, Marlon Brando, folgorato dalla bellezza (e dalle bellezze) del luogo durante le riprese di L’ammutinamento del Bounty, e prima ancora Paul Gauguin, che in Polinesia arriva una prima volta, e poi tornerà, con l’idea di coltivare la sua arte a contatto con uno stato di natura primitivo e selvaggio, prima di morire a Hiva Oa, l’8 maggio del 1903. Ma in quel 13 Aprile del 1769, invece, imbarcato con l’Endeavour del giovane capitano James Cook, c’è il parimenti giovane Joseph Banks, botanico ufficiale di Sua Maestà Britannica. Sulle avventure e i molti, prevedibili piaceri di “Joseph Banks in paradiso”, Holmes indugia anche con siparietti divertenti, ricordando che quella spedizione aveva, tra i suoi principali obiettivi, l’osservazione del transito di Venere a Tahiti, previsto per il 3 Giugno del 1769, oltre la mappatura a ovest di capo Horn, l’esplorazione di terre sconosciute, la raccolta di esemplari botanici e zoologici. L’avventuroso Banks, forte di una considerevole rendita di famiglia, si propone e si imbarca come botanico, mettendo a disposizione 10.000 sterline in attrezzatura ed equipaggiamenti: è il suo Grand Tour, poco più di due anni. Sbarcherà di nuovo a Londra, “esausto e disorientato”, il 13 Luglio 1771, dopo aver raccolto, insieme al collega e amico svedese Daniel Solander “più di un migliaio di campioni di piante, più di cinquecento pelli e scheletri di animali e innumerevoli pezzi di artigianato locale, e avendo fatto conoscere nuove terre: l’Australia, la Nuova Zelanda, ma soprattutto il Pacifico Meridionale”. Il 10 Agosto saranno invitati da Re Giorgio III a Windsor, per una passeggiata nel parco del castello, con il sovrano interessato a potenziare il patrimonio botanico dei Kew Gardens. Poco più di sette anni, e nel novembre del 1778, a soli trentacinque anni, Joseph Banks viene eletto presidente della Royal Society, che guiderà per più di quattro decadi, rieletto per ben 41 volte, l’ultima per acclamazione, dimettendosi di suo pugno a fine Maggio del 1820, oramai “inabilitato nella vista e nell’udito”, e morendo il 19 Giugno di quello stesso anno. Fu il vero e proprio primo ministro britannico della scienza, carica le cui basi, sia pur inconsapevolmente, aveva cominciato a porre sull’Endeavour del Capitano Cook, la grande avventura con la quale aveva inaugurato l’età della meraviglia.

Da quella tolda sarà capace di avvistare, conoscere, accompagnare, facilitare, consigliare le carriere scientifiche dei due protagonisti principali del libro scritto da Richard Holmes: l’astronomo William (ma nato Wilhelm, il 15 novembre 1738, ad Hannover) Herschel e il chimico Humphry Davy, nato il 17 Dicembre del 1778 in un paesino costiero della Cornovaglia, all’estremo sud dell’Inghilterra rurale. The age of wonder è, per buona parte delle seicento e più pagine in cui ci accompagna con rara maestria, il racconto della vita di questi due eroi della scienza romantica: dopo toccherà ai Faraday, ai Babbage, al figlio di Herschel, John, a David Brewster, ad Adam Sedgwick, a Thomas Malthus, protagonisti, tra gli altri, dei congressi della British Association for the Advancement of Science, saranno loro a segnare la prima epoca della scienza vittoriana. E poi, il palcoscenico sarà tutto per Charles Darwin, “l’autore del nuovo Libro della Genesi”.

Non è la mole a sconsigliare il recensore dal riassumere queste “romantiche” biografie, piuttosto la consapevolezza che un libro come L’età della meraviglia si può leggere o, altrettanto legittimamente, riporre nello scaffale, pressati da scadenze, impegni, altre letture già troppe volte rimandate, ma sintetizzarlo sarebbe invece uno spreco o addirittura, inclinando alla dimensione romantica che lo pervade (forse cedendo al melodramma) quasi uno sfregio: meglio mantenere la promessa, un giorno, di aprirne le pagine. Dove si trovano anche molte altre storie, intrecciate e necessarie, di personaggi, eroi impavidi, spericolati, di poeti, di donne ancora solo sorelle o mogli, ma che da quei ruoli stanno emancipandosi, come Caroline Herschel, cha da governante del fratello maggiore e poi attenta segretaria delle sue osservazioni, diventerà essa stessa una “stella” dell’astronomia. O la Mary Sommerville autrice di Sulla connessione delle scienze fisiche, uscito nel 1834, per non dire di Mary Shelley e della genesi del suo Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo, raccontata nel capitolo VII. Un capitolo, il III, è dedicato agli Aeronauti in cielo, ai pazzi che salirono per primi sulle mongolfiere: “la chimica sommata all’estro creativo dava folle di spettatori, sommate a meraviglie e denaro”. Storia non priva di personaggi che oggi definiremmo “trash”, ma che ci lasceranno in eredità le prime mappe dall’alto: “per la prima volta l’impatto dell’uomo sulla natura si lasciava guardare”, e non sarebbe nemmeno scorretto dire che “siano stati i romantici a inventare l’idea del tempo in senso meteorologico come lo indichiamo oggi, oltre ovviamente all’idea di tempo interiore ”. Il capitolo V, dedicato a Mungo Park, reggerebbe da solo una pubblicazione. Nel 1803 Joseph Banks scrive ad un amico: “Sono consapevole che la spedizione di Mr Park sia tra le più pericolose mai intraprese da un uomo. Ma dissento da coloro secondo i quali sarebbe troppo pericolosa per essere intrapresa: è solo accettando siffatti rischi che possiamo sperare di calarci nelle tenebre dell’Africa. Un manifesto di vita, di avventurosa esplorazione e di scienza romantica. Un manifesto e un capitolo dove si fa la conoscenza di un giovane laureato scozzese, rossiccio e allampanato, il cui nome di battesimo onorava San Mungo, un martire gaelico. Sarà di questo ventunenne, celibe e desideroso di temerarie avventure, la scommessa di raggiungere la leggendaria Timbuctù. E con lui quella di Banks, che non poteva non riconoscere in quello spilungone con nello sguardo “un accenno di guizzo avventuriero”, il giovane che lui stesso era stato nel paradiso a 17° sud e 149° ovest. Per sapere se Park e Banks vinceranno la scommessa… tirate fuori L’età della meraviglia dallo scaffale, e leggetene la storia, come fece Joseph Conrad che nel suo Geography (1924) così ne scrive: “I primi amici di quel mondo mentale e fantastico in cui mi addentravo furono per me gli esploratori, e non i protagonisti dei grandi romanzi. L’immagine che mi ero fatto di alcuni di loro era indissolubilmente legata a determinate parti del mondo. Il Sudan occidentale, per esempio, del quale ancora oggi potrei disegnare la mappa a memoria con tutti i suoi fiumi, è un episodio della vita di Mungo Park. Vedo un giovane smilzo dai capelli chiari, con indosso una camicia sbrindellata e dei logori calzoni, seduto sotto un albero”. 

Grazie a tutte queste storie, grazie alle biografie di tutti i personaggi delle, e nelle vite dell’astronomo William Herschel, e del chimico Humprey Davy, ripercorriamo quel tempo in cui la storia del mondo, così come raccontata nei testi sacri, lascia il posto alle verità della scienza: allo spazio profondo che gli spettacolari telescopi costruiti da Herschel, compreso quello monumentale da 40 piedi (più totemico che efficace), aprirono alla sua vista e a quella dei suoi contemporanei; al tempo profondo di Charles Lyell che offrirà all’amico Charles Darwin l’autorevole fondamento per la sua teoria evoluzionistica, fornendo l’evidenza che si davano, e sussistevano, i tempi necessari alla selezione naturale; al carattere progressista della scienza in quanto espressione dello spirito immortale dell’uomo, così come si legge nelle Consolations in Travel, Or the Last Days of a Philosopher di Davy, e laddove si stabiliscono i requisiti essenziali dello scienziato tipo; al metodo e alla formazione di questo nuovo soggetto sociale: “quando non riusciamo a vedere un oggetto – scriverà il John Herschel, figlio di William, nel suo celeberrimo Studio della filosofia naturale -, il motivo, molto spesso, non è un deficit della vista, ma il fatto che non sappiamo vederlo…”. Come a dire, capacità di analisi, spirito critico e interpretazione. È leggendo lo Studio di John Herschel, insieme al Viaggio alle regioni equinoziali, di Humboldt, che Darwin riferisce “… essersi acceso in me il desiderio ardente di aggiungere il mio, seppur modesto, contributo alla nobile struttura delle scienze naturali”. Il suo modesto contributo sarà L’origine delle specie, nel 1859.

Se è legittimo forzare un po’ il genere della “recensione”, in questo sostituirsi dell’osservazione scientifica, della sua capacità di analisi, dello spirito critico e delle conseguenti interpretazioni, al posto del “disegno intelligente”; nell’obbligato ritrarsi della spiegazione religiosa di fronte alla comparsa di quella dello scienziato, il recensore ha ritrovato lo stesso movimento di cui, con parole di sublime letteratura, Olga Tokarczuk, scrive all’inizio di Il libro della sabbia, il secondo de I libri di Jakub, raccontando, Di come dalla stanchezza di Dio nasce il Mondo.

“Talvolta Dio è stanco della sua luminosità e del suo silenzio, e gli dà nausea l’infinito. Allora, come un’enorme, onnisensibile ostrica il cui corpo nudo e delicato percepisce il minimo tremore delle particelle di luce, Dio si contrae in sé, lasciando così un po’ di spazio dove subito, dal nulla completo, compare il mondo. All’inizio il mondo somiglia alla muffa, è bianco e delicato, ma cresce rapidamente, i singoli fili s’intrecciano fra loro e formano un solido tessuto. Alla fine s’indurisce e da quel momento comincia a tingersi di colori. Il tutto è accompagnato da un suono basso, appena udibile, una vibrazione cupa che provoca un tremito irrequieto degli atomi. Ed è proprio da questo movimento che nascono le particelle, e poi i granelli di sabbia e le gocce d’acqua, che dividono il mondo in due. Ora siamo dalla parte della sabbia”.

Ora siamo dalla parte della scienza. E se è temerario raccomandare la lettura parallela di due libri così tanto diversi e che, sommati, superano le duemila pagine, magari la si può considerare un’incoscienza romantica, un cedimento alla meraviglia. Di questi tempi, un antidoto al male del mondo.

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