Il bestiario invisibile nelle città

31 Agosto 2022

Marco Granata è un giovane biologo, nato nel 1995. Bestiario invisibile (edito da il Saggiatore) è il suo primo libro, che si richiama esplicitamente a Fulco Pratesi, l’ambientalista a cui va il merito di aver aperto la strada dell’ecologia urbana con il suo Clandestini in città (1975). Altri riferimenti sono Dodici piccoli coinquilini del biologo austriaco Karl Von Frisch (pubblicato nel 1976) e il più recente lavoro del biologo evoluzionista olandese Menno Schilthuizen, Darwin va in città, che ha esplorato la complessità degli ecosistemi urbani e, anche se più indirettamente, il testo dell’entomologo Marco Di Domenico, Clandestini, dedicato alle specie animali e vegetali non autoctone (il libro, uscito alcuni anni fa, è stato appena rieditato in versione accresciuta e aggiornata da Bollati Boringhieri). Bestiario invisibile è un’ampia ricognizione sulla fauna che popola le città. Lo scopo di Granata è far capire quanta “natura” sia presente là dove meno ci immaginiamo che possa esistere, ovvero tra l’asfalto, il vetro e il cemento urbani. Il taglio del libro è duplice.

Da una parte lo si legge come una guida, che cataloga le presenze animali partendo dalla casa per arrivare alla periferia. Dall’altra assomiglia a un resoconto di viaggio, nel quale l’autore cerca di definire i suoi stati d’animo nel momento in cui ha dovuto affrontare l’esperienza, per lui inedita, della città. Alla guida, davvero esaustiva, che non evita di affrontare anche gli aspetti più didattici, si affianca dunque un percorso di formazione, che porta Granata (e di conseguenza il lettore) ad acquisire un altro sguardo sulle cose. O, detto altrimenti, ad avere una “coscienza ecologica profonda”, superando le diffidenze verso un ambiente a prima vista avvertito come artificiale. I frequenti riferimenti agli scrittori che hanno avuto grande attenzione per gli aspetti naturalistici, come Primo Levi e Calvino, vanno in questa direzione.  

Per molti motivi il quadro che mette insieme Granata non è rassicurante. L’aumento della presenza di animali in città non è un bel segnale, ma, all’opposto, è l’indizio della crisi che stiamo attraversando. Se gli animali si trasferiscono in ambienti che non sono quelli originari – il caso che più rimane impresso è quello della volpe – è perché gli altri ambienti, quelli in cui si sono evoluti, non ci sono più. In campagna la perdita di habitat, determinata dalla costruzione di case e di strade, dall’uso di pesticidi e dalle coltivazioni intensive, è evidente. E con un habitat che può mantenere meno individui, ha inizio il cosiddetto vortice di estinzione.

Quando una popolazione si riduce, diminuiscono i suoi individui e soprattutto i suoi geni. Inoltre si incrementa l’incrocio tra individui imparentati che in breve tempo porta a una omogeneizzazione genetica della popolazione (si tratta della deriva genetica). Quindi gli animali vengono in città perché solo qui trovano le condizioni per poter vivere. E cosa vi trovano? L’abbondanza di cibo fornito dagli scarti umani, il clima reso più mite dalle radiazioni solari assorbite dalle case e dalle strade e le numerose possibilità di rifugio con cui difendersi dai predatori.

Ma vivere in città non è semplice. Non a caso, l’asse principale del libro di Granata è il tema della perdita di biodiversità, nell’ambito di quella che viene definita la sesta estinzione di massa. Il numero delle specie che scompaiono è drammatico. La città sembra offrire una via d’uscita, ma spesso si tratta di un’ultima risorsa prima dell’uscita di scena definitiva. Per molte specie infatti anche la città si rivela inospitale e ad imporsi sono e saranno le specie generaliste, come i piccioni, gabbiani, i ratti, alcune specie di pipistrelli, le volpi, perché capaci di adattarsi a tutte le condizioni possibili, di mangiare qualsiasi cosa e di essere sinantropiche, ovvero naturalmente predisposte alla vita con l’uomo, “come se sapessero vivere in città prima ancora della loro fondazione”. A loro, lo si dice in particolare dei ratti grigi, potrebbe appartenere il futuro post-umano. 

A compromettere l’esistenza degli animali in città, a schiacciare l’acceleratore della pressione selettiva, concorrono numerosi fattori. Strade ad ampia percorrenza, muri, ostacoli di qualsiasi tipo determinano la frammentazione degli habitat. Le “isole” che ne derivano possono ospitare numerose specie, ma con pochi individui, che però in caso di pericolo non offrono vie di fuga. Insomma, sono una trappola. C’è poi il rischio ben noto del riscaldamento globale che può determinare cambiamenti nell’inizio e nella durata delle stagioni, rendendo complicata la sopravvivenza delle specie che programmano le nascite con lo sviluppo di una determinata risorsa.

Altra minaccia è “il prelievo smodato di alcune specie”, come gli uccelli granivori, che si alimentano a terra, messo in atto dai gatti, i principali predatori urbani. Poi ci sono i rischi legati all’inquinamento luminoso. E, in particolare nelle zone umide, la presenza di specie alloctone invasive, che, prive dei limitatori naturali presenti nei paesi d’origine, si moltiplicano in modo indefinito, impattando sulle specie autoctone.

Granata, come altri natural writer, ritiene che sia fondamentale accorgersi di tutto questo. Perché il vero problema, che costituisce l’altro asse portante di Bestiario invisibile, è la superficialità umana. Granata scrive che la biodiversità non si vede. Nel senso che chiunque viva in città, anche nelle sue propaggini periferiche, fatica a rendersi conto di essere circondato da animali. L’idea persistente è che la campagna sia il luogo dove troviamo gli animali. Ma in realtà, ormai, le campagne sono vuote. Gli animali d’allevamento non si vedono più, chiusi come sono nei macelli-lager. Come è stato detto, l’animale contemporaneo, ad esclusione di cane e gatto, è relegato alla condizione di macchina obsoleta. 

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Perché allora ci si ostina nell’errore? Innanzitutto perché da circa due secoli è in atto “la marginalizzazione degli animali”, che ha aumentato le distanze tra noi e loro. Poi perché gli animali di città si mostrano poco, in parte per via delle loro abitudini notturne, in parte perché appartengono soprattutto alle classi degli insetti e degli uccelli, entrambe predisposte a sfuggire all’occhio umano. 

Con gli insetti, che rappresentano oltre la metà delle specie note, oltretutto entrano in gioco antiche paure. Li troviamo perlopiù ripugnanti, come le blatte, i ragni o le cimici. Temiamo le loro punture. Li sentiamo come gli antichi mezzi di trasmissione delle malattie. Così non vogliamo ammettere che in realtà gli insetti sono ovunque, e specialmente nelle nostre case. Le formiche, costituite da oltre tredicimila specie, si annidano nelle fessure; gli acari stanno su tappeti e materassi; il pesciolino d’argento si nutre di molecole contenenti amido, come la colla della rilegatura dei libri vecchi; i tarli mangiano la cellulosa del legno, come le termiti, che Linneo definì “la più grande calamità delle Indie”; le tarme sono lepidotteri che attaccano i tessuti; la cimice dei letti trascorre le ore del giorno nelle piccole fenditure di muri, mobili e vecchie tappezzerie per poi uscire la notte alla ricerca di sangue umano, come le zecche e le pulci; il centopiedi predilige l’ambiente caldo e umido del bagno ed è un predatore (insieme a ragni e scorpioni) che si nutre di altri piccoli artropodi.

Ebbene, avere coscienza ecologica significa accettarne la presenza, reprimendo il disgusto. Anche perché il ruolo degli insetti è fondamentale. Granata ricorda che se la specie umana scomparisse ne risentirebbero solo due specie di pidocchi. Al contrario noi senza di loro potremmo resistere solo qualche anno, perché l’intero pianeta tornerebbe alla situazione di un miliardo di anni fa. Gli invertebrati infatti sono alla base delle reti alimentari, contribuiscono alla decomposizione della materia organica, rendono disponibili i nutrienti per altri organismi, permettono alle piante di riprodursi attraverso l’impollinazione.  

E gli uccelli? Perché in città, ma anche in campagna, a contatto con l’uomo si trovano quasi solo loro? La risposta è banale. Gli uccelli volano e possono avvicinarsi all’uomo ma anche sfuggirgli rapidamente. Ma non per tutti i volatili la vita cittadina è facile. Anche tra gli uccelli infatti prevalgono le specie generaliste, come i piccioni, i gabbiani e gli storni, visibili soprattutto la sera quando dalle aree di alimentazione tornano ai dormitori. Oppure prosperano specie dotate di particolare intelligenza, come le cornacchie, le taccole e le gazze, in grado di adattarsi perfettamente alla città perché attratte da elementi nuovi e sconosciuti e perché capaci di convivere con l’uomo. In aumento sono le specie aliene, come i pappagalli, i parrocchetti. E sono ricomparsi i rapaci, tra cui il falco pellegrino.

Caso di straordinario adattamento alla città è quello del merlo, che, trasferendovisi nel corso del XIX secolo, ha dato origine a una nuova specie, differente da quella del merlo di bosco. Tra le specie in difficoltà invece ci sono i passeri (il genere passer comprende quattro specie). I motivi della loro crisi sono emblematici dei problemi che possono rendere ardua la vita in città. I passeri infatti risentono negativamente della costruzione di edifici privi di cavità e della conseguente perdita di luoghi dove nidificare o trovare riparo; della scomparsa di aree verdi; dell’uso di pesticidi che riducono gli insetti destinati a nutrire i piccoli. Ma subiscono anche gli effetti della predazione di rapaci, corvidi e gatti, della competizione per il cibo con piccioni e gabbiani e della diffusione di patologie come la malaria degli uccelli.  

Per prendere atto di questo brulichio di vita, come fa lo stesso Granata superando le sue personali idiosincrasie, forse la soluzione migliore consiste nel passeggiare nelle aree seminaturali, i parchi cittadini o i territori periferici (il paesaggista Gilles Clément li definisce il “terzo paesaggio”) dove, nei piccoli boschi, si trovano spesso specie che erano già lì prima che le città le inglobassero e che ora cercano di resistere alle minacce dell’urbanizzazione. L’animale simbolo dei parchi è lo scoiattolo, la cui sorte è paradigmatica.

La specie autoctona è lo scoiattolo comune, pelo bruno rossiccio il pelo, folta coda e ciuffi auricolari. I principali ostacoli alla sua sopravvivenza sono la frammentazione degli habitat (i boschi dei parchi sono piccoli mondi senza collegamenti tra loro) e la competizione con le specie alloctone, la più comune delle quali è lo scoiattolo grigio nordamericano, apparso per la prima volta in Italia nel 1948 a Candiolo (Torino). Più grande, più robusto, più longevo dello scoiattolo autoctono, lo scoiattolo grigio, peraltro inserito nella lista delle cento peggiori specie invasive del mondo, ha tutte le caratteristiche del vincente: soprattutto perché si nutre di più alimenti, persino di cibo umano, sfruttando le riserve di semi dello scoiattolo comune.

Ma la fauna delle aree seminaturali comprende numerose altre specie ed è quella che ancora può riservare incontri sorprendenti. Basti pensare che è in queste aree, “luoghi, piccoli e grandi, nati dall’abbandono e dal disinteresse dell’uomo, che costituiscono un frammento indeciso della natura”, che, lasciandoci basiti, hanno cominciato a transitare con sempre maggior frequenza ungulati come i cinghiali (sull’origine di quello che è ormai un problema è utile leggere il capitolo che gli ha dedicato di Di Domenico), i caprioli, i daini e i cervi. 

Riletta in questo modo, la città diventa per Granata una “fonte di speranza”. Perché, a ben vedere, “la natura di città è forse l’ultima forma di natura in grado di responsabilizzarci”. Ovvero di farci capire che gli esseri umani sono parte di un insieme più vasto, che loro stessi stanno distruggendo. Con indifferenza.  

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TAGGED: animali , etologia