Il teschio di Josef Mengele

3 Giugno 2023

I titoli delle opere sono uno specchio del testo, devono “imbrigliare le idee, non imbrogliarle” come suggerisce Eco. Senza cadere in questo estremo, talora però disorientano. Il teschio di Mengele di Thomas Keenan ed Eyal Weizman (Meltemi, 2023) è forse un horror, una storia fantasy, un inno al culto della dissacrazione? Nulla di tutto ciò perché in realtà si tratta di un saggio poliedrico, storico e giudiziario. Ma quale connessione esiste tra il teschio e Mengele? E poi Mengele ricordiamo chi era?

Il nome del medico nazista Josef Mengele, nato nel 1911 in Baviera, è entrato a pieno titolo tra i personaggi storici più sinistri per sadismo e malvagità. Soprannominato “angelo della morte” dai prigionieri, condusse nei campi di sterminio esperimenti crudeli e disumani con l’intento di far scomparire quelle che riteneva “razze inferiori” e accrescere lo sviluppo di quella ariana. Ma non pagò mai per i suoi crimini. Uscito dall’università di Monaco nel 1937 divenne assistente dello specialista di eugenetica e sulla ricerca sui gemelli Otmar von Verschuer. Nel 1937 richiese l’iscrizione al partito nazista, nel 1938 alle SS e nel 1940 fu reclutato dalla Wermacht. Volontario medico ottenne il grado di sottotenente e fu inviato all'Ufficio per la razza e gli insediamenti umani delle SS in Polonia. Nel 1942 nel campo di Auschwitz divenne direttore del servizio medico. Passeggiava tra i prigionieri impeccabilmente vestito brandendo un bastone con cui indicava chi doveva andare direttamente alle camere a gas e chi invece ai lavori forzati. Con freddezza, alla ricerca di qualcosa di interessante tra i reclusi come una coppia di gemelli, al tempo suo principale settore di ricerca. Un esempio della crudeltà avvenne durante un’epidemia di tifo scoppiata nel campo. Mengele risolse rapidamente la situazione inviando alle camere a gas circa 1600 persone, disinfettando poi le baracche per ospitare i nuovi prigionieri. Nel tristemente noto blocco 10 condusse spietati e spaventosi esperimenti sugli esseri umani, su persone nane e soprattutto sui gemelli per conoscerne la genetica e potenziare la nascita di bambini ariani. Uno dei suoi obiettivi era modificare la pigmentazione dell’iride per ottenere bambini con gli occhi azzurri iniettando diverse soluzioni, ma finendo per procurare addirittura la cecità e persino la morte. Gli occhi delle vittime, così come alcuni organi interni, erano inviati all’“Istituto per l'antropologia, la genetica umana e l'eugenetica Kaiser Wilhelm” a Berlino. L’etichetta dei contenitori indicava: “materiale di guerra – urgente”. Un altro esperimento consisteva nell’inseminare artificialmente le prigioniere che presentavano antecedenti familiari di gemelli. Dopo il parto, se la donna aveva fatto nascere un solo bambino questo veniva depositato ancora vivo nel forno e la madre era trasportata alla camera a gas. 

Alla fine della guerra riuscì a fuggire sotto falso nome ed evitò il processo di Norimberga, anche se i suoi crimini sarebbero comunque stati giudicati in diversi processi svoltisi successivamente in Germania ovest, come il noto processo di Auschwitz tenutosi a Francoforte tra il 1963 e il 1965. 

Mengele fu ricercato a lungo e il governo della Repubblica federale tedesca e quello d’Israele attraverso il “Centro Simon Wiesenthal” offrirono somme di denaro a chi fosse riuscito a scovarlo. Il Mossad organizzò diverse operazioni per catturarlo, sia in Argentina sia in Brasile, ma senza successo. Aveva avuto garantita l’impunità grazie all’aiuto dei numerosi e organizzati filonazisti nell’Argentina di Perón, in Paraguay e Brasile come narra il film I ragazzi venuti dal Brasile di Franklin J. Schaffner.

All’unico figlio, cresciuto lontano, che chiedeva di conoscere la verità su Auschwitz, Mengele rispondeva di aver fatto il suo dovere di soldato della scienza tedesca: “proteggere la comunità organica biologica, purificare il sangue, sbarazzarlo dai corpi estranei”. Morì affogato a sessantotto anni l’8 febbraio 1979 sulla spiaggia di Bertioga in seguito a un infarto cerebrale. Fu seppellito sotto il falso nome di Wolfgang Gerhard, l’amico austriaco che lo aveva accolto in Brasile e il cui nome venne da Mengele usato dal 1975, quando questi morì. 

A questo punto, con la morte di uno dei criminali nazisti più ricercati, iniziò l’odissea dell’identificazione dei suoi resti. Ed è questa la storia narrata nel libro “L’inchiesta su Mengele, scrivono i due autori, aprì un nuovo filone nelle indagini di guerra: la nascita non della prova documentale o testimoniale, ma piuttosto di un approccio forense nella comprensione del meccanismo dei crimini di guerra e contro l'umanità”. 

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Si trattava di accertare l’identificazione della persona, in altri termini di riesumare le ossa e assegnarle a una persona fisica, in questo caso a Mengele. Il 6 giugno 1985 la polizia brasiliana esumò il corpo e convocò gli esperti per esaminare le ossa.

L’antropologia forense è una scienza che sviluppa le indagini collaterali a quelli della magistratura per giungere a un unico obiettivo: accertare la verità dei fatti. Appartiene a quel particolare settore chiamato “la prova scientifica”, cioè quel contesto di conoscenze che approfondiscono gli aspetti non giuridici concorrenti con quelli giuridici per ricostruire eventi passati ancora oscuri. Il giudice e la polizia sono in grado, per strumenti o conoscenze, di occuparsi principalmente di due modalità investigative: quello documentale e quello testimoniale. Dopo le prime battute anche per esse talora subentrano gli esperti, quello grafologico per le prime (si pensi al processo Dreyfus risolto da quella nuova scienza), quello psicologico per la seconda (si pensi agli psicologici soprattutto nelle vicende di abusi sessuali). 

Esiste però un campo smisurato in cui l’esperto giuridico non è in grado di sciogliere alcun nodo per gli studi coltivati, per la preparazione universitaria, per i meccanismi della selezione professionale e i concorsi relativi. Negli anni passati erano chiamate in soccorso le scienze tradizionali, quelle cosiddette ‘dure’, tra cui svettava l’antropologia di stampo lombrosiano. Oggi si sono affiancate le cosiddette ‘nuove scienze’, cioè quel ventaglio di discipline talora affermate, talora in via di affermazione attraverso sempre nuove tecnologie, dalle neuroscienze alla chimica, dalla medicina nei suoi vari aspetti all’esame del sangue secondo protocolli del BPA, dalla ricerca delle tracce ematiche attraverso i tamponi adesivi all’epidemiologia, dalla ingegneria specialistica nei processi colposi alla tossicologia, dalle impronte digitali al DNA, dall’informatica del cyber crime ai flussi comunicativi (per un quadro scolastico ma seducente Val McDermid, L’anatomia del crimine, Codice edizioni, 2016).

Ma quale era il problema per il corpo riesumato e per la sua riferibilità a Mengele? Siamo nel 1985, il confronto del DNA avrebbe fornito una risposta pronta e sicura, ma non si avevano reperti né il gruppo sanguigno tatuato sul braccio, essendo prassi tra le SS evitarlo.

Si tentò un’altra strada. È ben vero che le ossa parlano, sono oggetti pur inanimati ma dotati di una loro voce come osservavano i greci con il termine “prosopopea” e come ripetono le serie poliziesche TV con anatomopatologi, da CSI a Rosewood, da Harrow a Body of proof per ricordare solo quelle tuttora in onda. Gli scienziati dovevano fornire “la prova più persuasiva possibile” e la ricostruzione facciale era una tecnica non sempre affidabile (Cattaneo-Maldarella, Crimini e farfalle, Raffaello Cortina 2006).

Venne allora dalla Germania occidentale un esperto che era anche fotografo dilettante, Richard Helmer, specializzatosi nel confrontare il teschio e l’immagine della persona. Il suo contributo (insieme a quello di altri) fu decisivo: ricompose il teschio danneggiatosi durante l’esumazione e perfezionò il procedimento denominato “sovraimpressione volto-teschio”, nel quale una videoripresa di una fotografia è sovraimpressa a un’immagine video di un teschio per valutare se si tratta della stessa persona. Con i passaggi tecnici descritti da Keenan e Weizman e documentati da una serie di foto, grazie alle videoriprese, Helmer dimostrò che quel teschio era di Mengele perché le misure combaciavano perfettamente.

Quelle tecniche, appuntano ancora Keenan e Weizman, sono state impiegate in Guatemala, in Cile, in Ruanda, nella ex Jugoslavia, per identificare scheletri vari, come quello di Ernesto “Che” Guevara in Colombia. “Nella disputa legale su un crimine di guerra le sepolture, fino ad allora luoghi della memoria, divennero risorsa epistemologica … Oggi le ossa e la carne sia delle vittime sia dei carnefici sono diventati una matrice epistemologica di uso comune”.

Oggi la situazione si sta evolvendo. Con il tragico fenomeno dei naufragi degli immigrati si sono approfondite le ricerche sui “Cadaveri senza Nome”. Si è proposto a livello europeo di implementare un database in ogni Stato europeo dove raccogliere le informazioni su cadaveri senza nome e migranti scomparsi. In particolare in Italia opera il centro LABANOF (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) presso l’università di Milano, che ha fissato precisi protocolli per stabilire l’identità dei cadaveri, tra cui la ricostruzione facciale. 

Il saggio suggerisce svariate riflessioni, pur nella sua agilità. Una di queste è il controllo scientifico delle procedure: si introduce nelle aule di tribunale o nelle pieghe dell’opinione pubblica una sorta di affidamento nelle capacità dei tecnici prescelti? Quale attendibilità hanno? Come vengono individuate? Come sciogliere il dubbio se pertinente o improprie?

Una seconda riflessione riguarda lo sviluppo scientifico e la sua logica: nella ricerca come si può distinguere cosa è scientifico e cosa non lo è? Che cosa resiste all’evoluzione della ricerca o invece ne viene sconfitto? Quali paradigmi vengono rovesciati? Ed ancora: come può l’uomo medio infilarsi in questa discussione se non affidarsi in chi già si fida?

Il dramma del Covid ha posto numerosi problemi: questi erano tra quelli.

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