Singer e Sendak / Il tesoro degli sciocchi e dei bambini

7 Febbraio 2022

Una delle storie più curiose della tradizione novellistica italiana è quella di Ganfo il pellicciaio, contenuta nel Novelliere di Giovanni Sercambi (1348-1424). Gianni Celati la riscrisse nell’italiano d’oggi per l’antologia Novelle stralunate dopo Boccaccio, a cura di Elisabetta Menetti (Quodlibet 2012), e in un saggio intitolato “Lo spirito della novella” la riassunse in poche righe:

 

Ganfo va ai Bagni di Lucca per curarsi; ma quando deve entrare in acqua e vede tante persone, si chiede: “Tra tanti, come farò a riconoscermi?” Allora si mette un segno di croce sulla spalla, ed entrato in acqua guarda il segno e si dice: “Sì sono proprio io”. Poi però l’acqua spazza via il suo segno di croce e lo deposita su un altro bagnante, al quale Ganfo dice: “Tu sei io e io son tu”. E l’altro per mandarlo al diavolo gli risponde: “Va’ via, tu sei morto”. Al che Ganfo si crede morto, torna a casa, si stende sul letto, si lascia mettere nella bara. […] Poi, mentre lo portano al cimitero, per strada una cliente gli manda una maledizione, perché gli aveva portato una pelliccia da riparare e lui è morto senza restituirgliela. E Ganfo risponde nella bara: “Se io fossi vivo come sono morto, ti risponderei come si deve”.

 

«Racconto d’una idiozia misteriosa e assoluta,» commenta Celati, «che ricorda le comiche del cinema muto; ma dà anche l’idea d’un paradiso dei semplici, essendo peraltro intitolato De simplicitate». Un paradiso che trasforma in parodia comica il detto evangelico secondo cui i poveri di spirito sono destinati al regno dei cieli, dissimulando però dietro la figura dello zimbello e la maschera del riso il portato di una saggezza secolare. «Niente qui indica che l’uomo sia uomo in quanto creatura razionale;» conclude Celati, «al contrario, c’è una viva incertezza su cosa sia la razionalità, e su quella coincidenza con se stessi che chiamiamo “io”, nonché sui segni che ci mettiamo addosso per distinguerci dagli altri – parodia dell’identità razionale che tutti perpetuiamo».

 

Mi sono permesso di citare per esteso questa riflessione per introdurre lo spirito di un libro in cui compare la storia di un altro paradiso dei semplici, Zlateh la capra di Isaac Bashevis Singer, ristampato da Adelphi in un’edizione che riprende quella originale del 1966, con illustrazioni di Maurice Sendak. Il paradiso degli sciocchi – questo il titolo del racconto iniziale – narra di un ragazzo che crescendo perde il piacere di vivere, e atterrito dalle responsabilità dell’età adulta si ammala di una malattia sconosciuta, il cui unico sintomo è la convinzione di essere morto. I genitori provano a farlo rinsavire, e dopo aver consultato svariati dottori, disperati, accettano di seguire i bizzarri consigli di un luminare che li invita ad assecondare la mania del figlio. Il morto viene così adagiato in una bara per la cerimonia funebre, e in una camera adibita a paradiso riceve le visite degli angeli, interpretati dai domestici vestiti di bianco con ali finte attaccate alla schiena. Questi gli confidano che in paradiso non esistono il giorno e la notte, ma solo un’eternità senza tempo, e le abitazioni sono troppo distanti per poter far visita a qualcuno, tanto che «ci vorrebbero migliaia di anni per andare da una casa all’altra». Dopo giorni e giorni di cibo a volontà, solitudine e noia, stanco di essere morto, infine, il ragazzo può ricevere dagli angeli la lieta notizia dell’errore, ovvero della guarigione che lo riconsegna alla vita.

 

 

Un passaggio molto toccante di questo racconto ricco di trovate umoristiche accompagna proprio la sua svolta risolutiva, con l’emergere improvviso di un’emozione che il lettore intuisce repressa, e sospetta all’origine dell’insolita malattia del ragazzo: «Venne il momento in cui non poté più nascondere la sua tristezza». Credo che la scelta di aprire il libro con questa storia sia significativa, e immagino che Singer, scrivendola, abbia provato a identificarsi nel protagonista e nella tristezza che per molto tempo lui scambia per morte, e gli altri per pigrizia e follia. Lo stesso autore, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1978, aprì il suo discorso di accettazione con un ritratto amaro e impietoso del mondo contemporaneo, probabilmente non troppo dissimile dalla visione che all’inizio del racconto, in modo assurdo eppure a ragion veduta, porta il ragazzo a credersi morto, parlando di una generazione che «ha perduto la fede non solo nella Provvidenza, ma anche in se stessa, nelle proprie istituzioni e persino in coloro che le sono più vicini».

 

Sia il racconto che il discorso, del resto, riflettono la consapevolezza per cui attraversare la morte (ovvero riconoscerla, accoglierla, abitarla, darle voce) rappresenta l’unica via per ritrovare la vita, ed è interessante osservare come di fronte alla crisi di un mondo disorientato dai ritmi del progresso, dove cresce la solitudine e la paura del futuro, l’autore affidò questa prospettiva di rigenerazione proprio al pensiero di una letteratura in grado di schiudere orizzonti impensati, ponendosi come tramite di una rinnovata eredità spirituale. Da Baudelaire a Strindberg, da Swedenborg a Rabbi Nachman, i maestri che evocò in quell’occasione sono poeti e mistici che hanno arricchito la sua visione della vita, in sintonia con l’antica tradizione letteraria ebraica, nella quale «non c’è mai alcuna differenza sostanziale fra poesia e profezia». E a proposito dell’yiddish in cui scrisse le sue opere, ritenuta da alcuni una lingua morta, Singer ricordò che l’ebraico e l’aramaico erano risorte come per miracolo dalle loro ceneri, dando origine a capolavori di sublime splendore, e concluse: «L’idioma saggio e umile di tutti noi, la parlata della spaventata e speranzosa umanità contiene tesori che non sono ancora stati scoperti dal mondo».

 

 

Zlateh la capra fu il primo libro che Singer scrisse con l’intenzione di rivolgersi a un pubblico di bambini. Si può dire che l’incontro con la letteratura per l’infanzia rappresentò una scoperta sorprendente, destinata a mutare il suo punto di vista sulla propria identità di autore e sull’arte in generale. Inizialmente convinto di non essere in grado di scrivere per i ragazzi, anche per via del classico pregiudizio per cui gli artisti che si rivolgono ai più piccoli sarebbero autori di seconda categoria, solo l’insistenza della sua redattrice Elizabeth Shub lo convinse a mettersi alla prova, già sessantenne, e il successo dell’esperimento, nei due decenni successivi, sarebbe stato confermato dalla pubblicazione di un’altra dozzina di libri. Fondamentale per la genesi di questa raccolta fu però anche un altro esperimento letterario, a cui Singer si era dedicato negli anni immediatamente precedenti, ovvero la stesura di scritti autobiografici sulla propria infanzia da figlio di un rabbino chassidico nella Varsavia di inizio secolo, che confluirono nel volume Alla corte di mio padre (1966). Il ricordo d’infanzia, in questi scritti, si lega in modo inscindibile a quello del tribunale rabbinico ospitato presso la casa della sua famiglia, che definì «una specie di mescolanza tra un tribunale, una sinagoga, una scuola e, se volete, uno studio di psicanalista». Un’antica istituzione che «poteva esistere soltanto tra persone dotate di fede profonda e di umiltà», radicalmente alternativa a tutte le istituzioni fondate sull’uso della forza, e che fin dai primi anni di vita l’ha immerso in un crogiolo di voci, feste, riti e storie di ogni genere, dalle sacre scritture agli aneddoti più profani e folkloristici, che con grande intensità riecheggiano nei suoi racconti per bambini.

 

A Chelm, città polacca trasfigurata in «villaggio di sciocchi, giovani e vecchi», i Sette Anziani che governano il paese scambiano la neve per un tesoro caduto dal cielo, e per impadronirsene architettano i piani più assurdi (La neve a Chelm), mentre lo shlemiel più tonto, figura tipica dell’umorismo yiddish, rimasto solo in casa a badare al figlio e al gallo riesce a combinarne d’ogni, in barba agli avvertimenti della moglie, compreso un ridicolo tentativo di suicidio (Il primo shlemiel). La ricorrenza invernale di Hanukkah, la festa delle luci tanto cara ai bambini, dona una cornice fiabesca a un breve racconto notturno, che culmina con la spettacolare apparizione di un diavolo (La storia della nonna), e a un secondo racconto demoniaco di intonazione più burlesca (Lo scherzo del diavolo). Come avviene solitamente nelle fiabe novellistiche, di cui Propp sottolineò il peculiare intreccio fra reale e fantastico, si tratta di diavoli privi di una connotazione soprannaturale, perfettamente calati nel contesto realistico delle vicende. Ma un discorso analogo vale anche per i personaggi più eccentrici e all’apparenza inverosimili, a cominciare dagli sciocchi prediletti da Singer (che per intitolare la sua prima raccolta in lingua inglese, non a caso, scelse il racconto Gimpel l’idiota). Le incredibili figure descritte nelle sue pagine autobiografiche, come anche in quelle del fratello maggiore Israel Joshua Singer (memorabile il capitolo sui maestri di scuola in La pecora nera), testimoniano davvero che «nella vita capitano cose così strane che nessuna fantasia riuscirebbe a immaginarle», come è scritto in Alla corte di mio padre.

 

Così il libro di novelle non raccontava bugie, dopo tutto. Il mondo è davvero pieno di meraviglie. Bastava semplicemente attraversare il Muranow e un’altra strada ancora, per trovarsi già in mezzo ai prodigi. I confini del mondo? Ma non erano questi, i confini del mondo? (Isaac B. Singer, Alla corte di mio padre)

 

 

Un mondo misterioso, ricco di aspetti insoliti e dai confini incerti, che il viaggio ridefinisce in continuazione, è lo scenario da cui trae linfa la migliore letteratura per l’infanzia, che elegge i bambini a suoi destinatari ideali ma si rivolge a chiunque sia in grado di coglierne l’incanto. Zlateh la capra, il racconto che intitola e chiude la raccolta, ne offre un esempio superlativo. Ancora una volta siamo nel cuore dell’inverno, nei giorni di Hanukkah, ma il clima è secco, la neve tarda a cadere e i contadini si lamentano per gli scarsi raccolti di grano. La storia ci presenta un altro pellicciaio, Reuven, che però non potrebbe essere più diverso dallo sbadato pellicciaio Ganfo della novella italiana. Reuven è costretto dalla crisi a prendere una decisione sofferta e assennata per le circostanze: decide infatti di vendere la sua capretta Zlateh, che è ormai vecchia e dà poco latte, e incarica il figlio Aaron di portarla in città dal macellaio. La parte centrale e più estesa del racconto, a questo punto, segue il bambino e la capra lungo il tragitto dal villaggio alla città, tra campi e pascoli deserti, in un viaggio che si preannuncia monotono nella tristezza dell’addio, prima che una terribile bufera di neve spinga i due a cercare un rifugio per sottrarsi alla morsa del freddo. Un viaggio che pone il bambino a confronto con la paura, la consapevolezza dei propri limiti e la ricerca della salvezza nell’incontro con l’alterità, solo come lo scolaro che in un altro splendido racconto di Singer torna a casa da scuola in una città resa irriconoscibile dalla neve (Una vigilia di Hanukkah a Varsavia), o come gli orfani delle fiabe, che lontani da casa, perdendosi nel bosco, rivivono l’esperienza iniziatica di morte e rinascita propria degli antichi riti di passaggio.

 

Pochi anni dopo l’uscita di Zlateh la capra, nel 1973, Maurice Sendak avrebbe illustrato un doppio volume di fiabe dei fratelli Grimm, riprendendo lo stile delle illustrazioni che in questo libro accompagnano i racconti di Singer in un dialogo profondo e mai didascalico. Essenziali e austere nel loro bianco e nero e nella compostezza vittoriana (Sendak si ispirò ad artisti come George Pinwell e Arthur Hughes), furono definite da alcuni claustrofobiche, e potrebbero apparire stranianti su un libro per bambini, forse oggi più che allora. Cercando il volume, non mi ha stupito notare che in varie librerie è stato esposto tra le novità di narrativa per adulti, perché so quanti equivoci e pregiudizi continuano a influenzare la nostra concezione dell’infanzia e di tutto ciò che la riguarda, delimitando il campo di un immaginario condiviso fino a trasformarlo in una riserva protetta. Più che mai attuali sono in questo senso le riflessioni che lo stesso Sendak sviluppò nei suoi articoli e saggi, finalmente disponibili in traduzione italiana in un bel volume edito da Junior: Caldecott & Co. Note su libri e immagini. In un testo del 1964, l’anno successivo all’uscita del suo albo illustrato più celebre, Nel paese dei mostri selvaggi, Sendak si richiamò ad esempio alle fiabe di Andersen e dei fratelli Grimm per protestare contro la censura silenziosa che gli adulti operano più o meno consapevolmente nei confronti dei bambini, depurando i loro libri dagli argomenti ritenuti «troppo spaventosi o morbosi, o non abbastanza ottimisti», e finendo per rinchiuderli «in uno stereotipo che si oppone agli esemplari eccentrici o “diversi”».

 

Ovviamente né i fratelli Grimm né il signor H.C. Andersen si sono mai scervellati riguardo al fatto di produrre letteratura per l’infanzia “sana” o “appropriata”. È una gran fortuna per noi il fatto che fossero interessati solamente a raccontare una bella storia! E si tratta di storie incredibilmente originali, che riflettono una comprensione profonda del fascino esercitato da quel garbuglio che è la vita, scritte con stile e con gusto, che trasfondono il mondo reale in quello della fantasia, turbando la delicata vita interiore dei bambini meno di quanto non facciano con quella degli adulti. (Maurice Sendak, Caldecott & Co)

 

Potrebbe sembrare paradossale il fatto che Sendak si sia scagliato contro le storture di un settore che negli stessi anni pubblicava e premiava i suoi libri, ma è bene considerare che le sue accuse non sono indiscriminate (l’autore riconosceva l’esistenza di una minoranza virtuosa di editori) e soprattutto che travalicano l’ambito editoriale, offrendo spunti preziosi per riflettere su quanto il mondo adulto mistifichi la propria idea dell’infanzia. La fortuna di questo maestro oggi indiscusso dell’albo illustrato, del resto, proprio a causa del suo sguardo sincero e spregiudicato fu all’epoca messa alla prova da numerose critiche e tentativi di boicottaggio. Bibliotecari, educatori e genitori cercarono di togliere dalla circolazione Nel paese dei mostri selvaggi, sconcertati da una storia che pone al centro la rabbia, la ribellione e il desiderio di evasione di un bambino messo in castigo, e pochi anni più tardi, a destare scalpore in La cucina della notte sarebbe stata la raffigurazione di un bambino nudo: una vicenda talmente grottesca, specie a fronte della deliziosa avventura onirica del piccolo protagonista, da somigliare a una parodia rovesciata della nota fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore. E perfino un autorevole conoscitore delle fiabe come Bruno Bettelheim equivocò in modo clamoroso il valore di Nel paese dei mostri selvaggi, salvo poi riconoscere apertamente nel suo classico studio Il mondo incantato (1976) l’importanza delle storie fantastiche nel processo di crescita dei bambini, anche e soprattutto in relazione ai vissuti più complessi e spaventosi.

 

 

Oggi, se da un lato si registra un rinnovato interesse degli editori italiani per le opere di Sendak, dopo che negli scorsi anni Adelphi ha riportato nelle librerie Nel paese dei mostri selvaggi e La cucina della notte, d’altro canto è evidente che certe resistenze verso gli aspetti più perturbanti dell’immaginario infantile e fiabesco sono tutt’altro che superate. Come nota Giorgia Grilli, che proprio con Sendak ha scelto di aprire il recente saggio Di cosa parlano i libri per bambini (Donzelli 2021), è giusto ricordare che solo un’esigua minoranza dei suoi libri è attualmente disponibile in Italia, mentre alcuni dei suoi albi più originali risultano inediti o fuori catalogo. Il ritorno di Zlateh la capra potrebbe essere di buon auspicio perché il processo di riscoperta prosegua, con le sue storie così anomale e suggestive, e le sue illustrazioni che a uno sguardo distratto possono apparire fredde e severe, ma in realtà condensano un senso di intimità e mistero impossibile da scambiare per claustrofobia. C’è un’interessante affinità tra la foresta che cresce nella stanza del piccolo Max, protagonista di Nel paese dei mostri selvaggi, e la camera dello sciocco che nel racconto di Singer diventa un paradiso immaginario. In un luogo “altro” che possiamo identificare nella fantasia, nel sogno o nella letteratura, l’esperienza del viaggio e della metamorfosi consente di affrontare le emozioni più dirompenti, rigenerare la propria visione delle cose e rinascere agli affetti più cari.

 

Sendak nacque nel 1928 a New York da genitori ebrei emigrati dalla Polonia, e più volte, durante un’infanzia segnata dai racconti di un mondo lontano che non aveva mai conosciuto, ricevette notizie dell’Olocausto che si stava consumando oltreoceano. Gran parte della sensibilità che permea i suoi libri deriva dal ricordo di un’infanzia infelice, ma soprattutto da un profondo rispetto per i bambini, legato al riconoscimento della forza che consente loro di attraversare l’età più difficile. Singer si trasferì a trent’anni a New York, nel 1932, e per il resto della vita, nelle sue opere, rievocò il microcosmo perduto delle piccole comunità polacche (shtetl), destinate a scomparire con la Seconda Guerra Mondiale. Entrambi gli autori, per i personaggi di Zlateh la capra, presero ispirazione dai ricordi e dalle fotografie di conoscenti defunti. «Nelle storie il tempo non svanisce» scrive Singer nell’introduzione, intuendo nella meraviglia del tempo che passa, e che nessuno sa dove vada a finire, un’importante affinità tra adulti e bambini, e in un saggio che rielabora alcune idee del suo discorso per il Nobel arriva a sostenere che i bambini, così inclini al misticismo e interessati alle questioni eterne, sono i migliori lettori di autentica letteratura, e i futuri custodi dell’antica arte di raccontare storie. Dev’essere proprio così, anche perché in effetti, come osserva Sendak, i bambini sanno molte più cose di quante credano gli adulti (un po’ come gli sciocchi del folklore), e soprattutto «nelle mani dei bambini i libri non vanno mai fuori moda».

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO