Il Tramonto della Scuola.Togliamo il disturbo, di Paola Mastrocola

2 Dicembre 2011

Riprendo il filo del ragionamento suscitato dalla lettura del saggio di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, nel quale la crisi dell’istruzione superiore viene fatta risalire alla cultura libertaria del Sessantotto che avrebbe cancellato il senso del dovere, della fatica e del merito. Penso al contrario che quel periodo abbia costituito un argine importante contro pratiche didattiche autoritarie, antistoriche e deteriori, i cui echi non sono peraltro del tutto scomparsi. Credo che le radici del problema siano altre, e se proprio dobbiamo assegnar loro un’epoca allora sono gli anni ottanta. Quando la cultura della borghesia tradizionale ha visto erodere i propri valori ‘grigi’ in favore di una logica economicista e edonista a cui si è ben presto abbandonata.

 

Fino a qualche decennio fa la cultura espressa dal liceo classico e scientifico era la cultura ‘alta’ delle credenziali e del codice di riconoscimento delle classi dirigenti; poi le élite hanno cominciato a identificarsi in altri valori che non prevedono più il sapere tradizionale: di fronte all’emergere di nuove ricchezze nell’Italia del boom economico l’ignoranza non è stata più un problema, mentre lo è progressivamente diventato non essere alla moda, non avere determinati stili di vita e non possedere certi status symbol, in definitiva non mostrare di avere molto denaro. Ora si può essere spaventosamente ignoranti e incompetenti nel proprio lavoro; si deve parlare apertamente di sesso greve, di gossip, tradimenti, crimini efferati con gusto voyeristico. Ma non si può essere poveri. Il valore mitologico dei beni di consumo, a cui hanno avuto accesso i ceti subordinati, ha giocato un ruolo chiave nell’emulazione sociale e nella costruzione del consenso, con una dilatazione del concetto di classe media schiacciata sempre più verso il basso e priva di qualsiasi specifica identità se non il circolo desiderio-consumo-successo.

 

La scuola non ha innescato il declino, lo ha subìto e gli si è avvitata intorno perché è l’unico istituto di socializzazione che ancora è settato sul ‘vecchio’ modello antropologico e sociale che attribuiva valore al sapere.

Il problema è allora un altro rispetto a come è posto in Togliamo il disturbo: a cosa deve servire la scuola oggi? Ci serve ancora questa scuola? E se non siamo d’accordo con la società che rifiuta la cultura, ha senso resistere e insistere con quella? E se sì e crediamo nel suo valore formativo, a cosa siamo disposti a rinunciare per poterla diffondere? Risocializziamo alla cultura i figli impoveriti della middle class, essendo più indulgenti nelle valutazioni e tollerando una mediazione inevitabilmente al ribasso? O, persa ogni fiducia nella massa, coccoliamo i già bravissimi che vengono da famiglie che credono ancora nella cultura, tendenzialmente a reddito medio-alto, selezionandoli verso l’eccellenza nell’aria rarefatta delle cime?

 

Capisco che tutto questo faccia paura e che brandire la conoscenza di Tasso contro la fine di un modello sociale, culturale, politico e antropologico, cominciato con le scuole napoleoniche e in Italia ristrutturatosi nel secondo dopoguerra, possa dare sicurezza, ma francamente l’analisi di Mastrocola è deludente. Come lo è la terza parte di Togliamo il disturbo relativa al ‘che fare?’. L’autrice propone un modello articolato su tre tipi di scuola: una orientata al lavoro, simile agli istituti professionali attuali ma senza squalifica sociale e veramente professionalizzanti; una della comunicazione, ovvero la scuola come è oggi, incentrata sulle competenze e sulle attività formative più innovative; una della conoscenza, ‘leonardesca’ e volta allo studio della grande tradizione umanistica e scientifica con alti livelli di impegno, astrazione e studio, volta al proseguimento degli studi universitari.

 

L’idea può essere interessante nella misura in cui nobilita l’istruzione professionale e tecnica, togliendola dal ghetto in cui molti istituti sono finiti, ed esplicita la presenza di scuole di eccellenza, rendendole palesemente selettive; sono iniziative di buon senso. Ma ogni vera riforma non può prescindere da un progetto di società più vasto e di ampio respiro: prima ancora dei dispositivi organizzativi sono le persone che fanno un’istituzione e il personale della scuola è oggi troppo in sofferenza per riuscire da solo nell’impresa titanica. L’età media dei docenti è alta, i loro carichi di lavoro sempre più gravosi e complessi e i cambiamenti sociali e culturali in atto nel mondo digitale sono incompatibili con la sola didattica frontale.

 

Va certamente riconquistato il ruolo intellettuale del docente, guardando al passato, e, pensando a un futuro che è già presente, l’uso dei media deve essere insegnato e integrato con quello tradizionale. Anche se non sono sicuro che il canone letterario-filosofico tradizionale nella sua integrità conservi un potenziale significativo per l’oggi, troppo ancorato all’Ottocento e al primo Novecento rispetto a svolte culturali più recenti, credo anch’io che insegnando contenuti simultaneamente si insegni a imparare e saper decifrare la realtà; e penso che la difficoltà, la distanza, l’urto con la cultura e la complessità, vadano mantenute e si debba insegnare a superarle e rispettarle. Di più, credo al valore di contraddizione, di utopia e di riscatto dell’opera d’arte e nell’importanza di mostrarlo attraverso una educazione estetica, oggi più mai completamente assente. Così come sono convinto del potenziale emancipativo del sapere e del suo valore ricreativo, senza la ricerca dell’immediata spendibilità del mondo del lavoro, miraggio ricattatorio correlato dell’invidia sociale. Si tratta di riconfermare a più generazioni che senza impegno, fatica e dedizione non si riesce a raggiungere risultati, quali che essi siano; di condurre una battaglia politica contro la dismissione dell’educazione pubblica, forti dell’idea che come docenti si ha un ruolo cruciale nella salute del Paese e che si possa essere contagiosi senza intraprendere crociate o missioni, e soddisfatti di poter indicare vie per la felicità della mente o anche solo di aver avvicinato i propri studenti a qualcosa di diverso da ciò che da cui sono partiti.

 

Nella riflessione di Mastrocola c’è anche questo, ma il libro si basa su implicite premesse logiche che di fatto lo negano, stabilendo che la cultura buona è una sola, è quella dei padri e va imparata come hanno fatto loro. Così si avvita su se stessa quando nel finale l’autrice si lancia in un’appassionata descrizione dell’autodeterminazione e della felicità di ogni ragazzo nello scegliere la propria strada fin dalla più tenera età, delineando un’umanità che scopre ciò che ‘autenticamente’ abita l’interiorità e che fa scelte in sintonia con la propria ‘natura’. È una descrizione oleografica di adolescenti intenti alle proprie segrete ambizioni, dall’astrofisica alla musica al giardinaggio all’artigianato, con sacrificio e impegno nutriti nel segreto fin dalla più tenera età, che lascia esterrefatti per ingenuità e che a essere maligni ricorda un mondo sognato dai salotti buoni della collina torinese.

 

Mastrocola sembra crederci veramente, senza rendersi conto di proiettare la propria raggiunta serenità interiore e professionale sugli adolescenti di oggi. Come se ci fossero ancora la Famiglia e il Sacro di cui deplora la fine (se mai ci sono state fuori dalla finzione che ne ha fatto la borghesia storica), senza il rumore e il bagliore dei media e senza il virus dell’accumulazione feticistica. Come se nel frattempo la sur-modernità e l’alienazione che tutti subiamo quotidianamente, e chi è nell’età dello sviluppo ancora di più, non esistessero, o fossero l’invenzione di qualche filosofo post-moderno che crea problemi inutili quando bastava Aristotele a dirci cosa dovevamo fare per essere felici.

 

Come se davvero l’identità – sapere chi si è, cosa si vuol fare, cosa si vuol diventare – fosse un’ipostasi che sta al di sotto di tutto e non sia invece il risultato di un percorso di costruzione e ricostruzione, a volta lungo una vita, che prevede errori, sviste, cadute, fratture, ripensamenti, oltre che successi e soddisfazioni. E quasi sempre tutto a partire da una scuola. Noi non sappiamo niente di quello che è maturato nei nostri allievi dopo che li lasciamo. Non ci è dato saperlo e ce lo dimentichiamo sempre. Penso che si debba recuperare la fiducia nel fatto che la scuola possa trasformare gli studenti, dando loro più strumenti per la loro personale via al mondo adulto. Questo significa rinunciare a voler riprodurre una nozione idealizzata di noi stessi. E credere che il cambiamento, anche verso qualcosa che non conosciamo, potrebbe non essere così male.

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