Immigrazione e abuso sessuale. Una riflessione per Frau Merkel

14 Marzo 2016

Una premessa dall'attualità

 

Per parlare di identità maschile e di “storia di lunga durata” dovremo, come spesso accade, passare per la politica; e attraversare quello che, apparentemente, è un nuovo problema d’attualità.

C’è una scusa frequente dei politici: “È una crisi inattesa”. Spesso è addirittura falsa, quando aggiungono: “Senza precedenti”. Così è stato detto della “onda anomala” di migrazioni che il Medio-Oriente ha scaricato sull’Europa nel 2015. I precedenti, invece, non sono lontani e giganteggiano nelle biblioteche: la fuga degli ebrei dalla Germania nazista negli anni ’30, premessa alla shoah, la peggiore strage della storia; la fuga o cacciata di quasi quindici milioni di tedeschi all’arrivo dei sovietici, a sua volta la maggior deportazione, pulizia etnica e, in definitiva, migrazione involontaria della umanità. Non è quindi un caso che l’unica iniziativa epocale di fronte alla crisi del 2015 venga dalla Germania. E non è casuale se i pochi commentatori della sua portata storica siano ebrei anglosassoni come Roger Cohen (International NY Times 22/12/2015). Lo “Yes, we can” (Sì, possiamo) di Obama, molto americano, è rinato come “Wir schaffen es” (ce la facciamo) di Merkel, di fronte ai profughi. Gli Stati Uniti declinano in nazione vecchia e post-immigratoria: Obama propone di accogliere 10.000 siriani il prossimo anno, ma incontra una opposizione feroce.

 

Se accettasse una percentuale di profughi come quella incassata da Frau Merkel, in proporzione alla popolazione degli Stati Uniti dovrebbe aprire le porte a quasi cinque milioni di persone. Qualcuno obbietta che la cancelliera Merkel ha detto “sì” ai migranti pur non sapendo se aveva i mezzi per assorbirli? Certo. Proprio come Lincoln aveva detto “sì” alla liberazione degli schiavi, pur dubitando che l’America fosse pronta ad integrarli: nel 2014 e nel 2015, molti tragici eventi degli Stati Uniti (violenza della polizia contro gli afro-americani, seguita da rivolte nei ghetti neri) hanno testimoniato che, un secolo e mezzo dopo l’emancipazione, l’assimilazione dei discendenti degli schiavi non è compiuta. Eppure nessuno dubita che l’abolizione della schiavitù sia stata un atto epocale e Lincoln una vetta della storia. Per Cohen, di fronte alla piccolezza dei politici europei Merkel è una “leader di statura immensa” (INY Times, 5/2/2016).

Ma gli interrogativi non sono terminati. Il cittadino europeo può anche accettare la necessità di accogliere vittime di emergenze estreme in occasionali ondate. Il flusso migratorio verso l’Europa, però, è ormai in corso da tempo: sono sia improvvise maree di persone “in fuga da” un rischio immediato, sia fiumi stabili di “migranti verso” un immaginario futuro di vita migliore. Questi uomini (con la parola “uomini” intendiamo qui proprio i maschi) dovranno mettere radici nella nuova terra: ma gli abusi di Capodanno 2015 a Colonia mostrano che molti di loro sono impreparati. Per questo, Angela Merkel deve guardare ad orizzonti ancora più epocali. I precedenti su cui deve fondarsi sono la storia e la geografia stesse.

 

I precedenti epocali

 

L’Europa si metamorfizzò in quello che chiamiamo Occidente inviando – per secoli e a milioni – i suoi migranti verso Ovest, nelle due Americhe. Non diciamo due perché sulle mappe si scorgano due masse a forma di pera rovesciata. Le differenze stanno nelle forme delle due società, e nelle identità maschili che hanno percorso l’intera storia dei due continenti. 

Nella parte d’America settentrionale fino al Rio Grande (oggi confine tra Stati Uniti e Messico) in origine gli immigranti giunsero dal mondo anglo-sassone, in quella più a Sud da Spagna e Portogallo. La loro “cultura della migrazione” non poteva essere più diversa. Così, nell’America di lingua inglese e in quella Latina sono nati due mondi distinti. Il primo è diventato il prototipo della ricchezza e della modernità, con i suoi beni e i suoi mali. Il secondo, fino a poco tempo fa, era classificato “Terzo Mondo” al pari dell’Africa: ma, ancor più di questa, veniva considerato sinonimo di abisso tra ricchezza e povertà, di corruzione, di maschilismo e assenza di correttezza politica, di dominio delle élites attraverso militari e paramilitari. Perché questa differenza? L’America Latina ha ricchezze naturali quanto gli Stati Uniti; ha a disposizione capitali, ma anche pensatori, scrittori, intellettuali che non hanno – e anche in passato non hanno mai avuto – niente da invidiare al Nord America: sono sgorgati da centri culturali e università sorti secoli prima dei loro (Yale e Princeton nascono nel sec. XVIII, Stanford addirittura nel XIX, solo Harvard esisteva già nel XVII: le università di San Domingo, Lima, Bogotà e Città del Messico erano invece già fiorenti nel XVI). Perché, allora, le due Americhe sono considerate equivalenti una allo sviluppo e l’altra all’immobilismo? 

 

Già dalle prime immigrazioni, quando ancora stato e strutture pubbliche non esistevano, nel Nord si trovava la base di una società stabile: quella famiglia patriarcale che, piaccia o meno, è stata il filo con cui si è tessuta la stoffa dell’Occidente. Immigravano coppie granitiche: con la Bibbia, il fucile e un progetto ricalcato sulla promessa divina. Fondano così una nuova società: i pochi nativi vengono sterminati o respinti in angoli sempre più lontani (oggi quei buchi scuri si chiamano riserve: Hitler le citava spesso come esempio a cui si era ispirato istituendo i Lager). Nell’America Latina, invece, a lungo arrivano solo uomini. Nei primi secoli, dalle navi spagnole e portoghesi sbarcano soprattutto due gruppi maschili: i laici, cioè i conquistadores; e – seguendo l’antico pessimismo cattolico per cui l’istinto non si governa: o si reprime o si finge non esista – i frati incaricati di educarli alla condotta cristiana. La psicanalisi di Jung attribuisce grande importanza alle coppie di opposti: nell’individuo come nella collettività, ritiene che la loro separazione porti sempre uno squilibrio. Notiamo allora che nel puritano le due polarità erano unite dal suo stesso corpo: in una mano impugnava il testo sacro, nell’altra un’arma per “difendere” quello e la società che lo rappresentava. Fra gli spagnoli la separazione non poteva essere più drastica: c’era il gruppo degli uomini di Dio, e quello degli uomini dell’avventura e della violenza. Due collettività che non dilogavano veramente. I religiosi rappresenteranno forse il vertice più alto del pensiero teologico-politico occidentale: la fondazione del diritto internazionale viene fatta risalire ai testi di padre Vitoria, che ancor oggi ha il ruolo di patrono delle Nazioni Unite. Tuttavia – proprio come ancor oggi quello delle Nazioni Unite – nei fatti il loro potere era fragilissimo. Come ho ricostruito nel testo Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri, 2011, p. 468), essi finiscono col rappresentare il pensiero di pochi intellettuali, mentre l’immigrazione porta nell’America spagnola e portoghese masse sempre crescenti di avventurieri maschi che cercano guadagni rapidi, potere e, inevitabilmente, sesso. Una visione rozza della vita, che richiede una scissione del binomio bene-male. I nativi rappresenteranno la seconda polarità. Faranno da capro espiatorio e saranno considerati sub-umani: anche se (contrariamente a un luogo comune) i teologi avevano fin dall’inizio affermato che erano dotati di anima e di diritti naturali quanto gli europei.

 

 

Il pessimismo dei frati era giustificato. A lungo, nel mondo latino le donne europee sono considerate troppo fragili e inadatte alla migrazione. (Ancora nel 1900, il tango nascerà per soddisfare i troppi uomini soli, travolti dal bisogno di incontri di coppia che non fossero solo sessuali, ma anche ornati dall’eleganza). Con la “conquista” i maschi indigeni vengono uccisi o destinati al lavoro nelle miniere. Le loro donne, a quello domestico, che include prestazioni sessuali: nelle località più lontane dalla Spagna, i conquistatori di terra e di corpi arrivano ad ammassare anche cento concubine a testa. Solo col tempo, e timidamente, dall’Europa cominceranno ad arrivare pure le donne: e i sacerdoti a celebrare quei matrimoni che con le indigene non valeva la pena di contrarre. Ma nel frattempo si era costituita una secolare società meticcia con figli bastardi: un marchio che nei secoli lascerà una immensa patologia psichica collettiva, sotto forma di scarsa autostima, di precedenza data senza riflettere (e senza merito, senza ragioni provate) a tutto quanto viene dall’Europa o dagli Stati Uniti: in conferenze e seminari tenuti nell’America Latina mi sono spesso riferito a questa ferita continentale dell’anima come “complesso coloniale”, di cui la maggior parte dei cittadini sono portatori già dalla nascita. 

Nella storia del continente, generazioni intere di figli hanno avuto una madre ma non un padre. In Messico, ancor oggi di fronte a un evento meraviglioso si esclama: “Que padre!”. Perché? Gli psicanalisti locali mi hanno spiegato: “Per il messicano è stata a lungo la cosa sognata e mai avuta”. La sociologa cilena Sonia Montecino chiama l’America Latina “il continente dei due padri assenti”: quello familiare e quello politico, sostituito da funzionari corrotti o da militari violenti.

 

L’assenza paterna oggi

 

Il secolare sottosviluppo dell’America Latina rispetto a quella anglosassone è, ancor oggi, in gran parte dovuto all’altissima percentuale di donne minorenni e non sposate che restano incinte. Ciò condanna alla emarginazione sociale loro e i loro figli, in un contagio psichico che si trasmette attraverso le generazioni: spesso i bambini coabitano con la madre, ma anche con una nonna, che a sua volta l’aveva generata da minorenne single. Anche negli Stati Uniti lo storico svantaggio degli afro-americani rispetto ai bianchi viene in gran parte dalla bassissima percentuale di figli che crescono con entrambi i genitori: solo il 29% (dati del 2014, US Census). Questa mancanza di famiglia è a sua volta una piaga che si protrae dai secoli della schiavitù. La regola era che il bambino crescesse con la madre, mentre il padre poteva essere venduto separatamente: non c’erano coppie sposate, agli schiavi mancava la personalità giuridica necessaria per contrarre matrimonio. Una costante campagna di Obama (è poco nota in Europa, ma a New York era commovente vedere la metropolitana tappezzata di posters rappresentanti padri nerissimi e sorridenti, con bimbi sulle spalle) è consistita nel cercar di diffondere fra i maschi afro-americani la fierezza del diventare capifamiglia.

 

In ogni società umana, il livello di sviluppo e di incivilimento ha un delicato rapporto con il modo in cui i maschi avvicinano le femmine (sul perché lo fanno ci sono minori dubbi), poi si relazionano a quelle e generano figli. Se l’uomo frequenta la donna, ma in seguito non forma un legame con lei e con la prole, li avvia alla emarginazione sociale.

Questa constatazione non è un sentimentalismo conservatore o una malinconia di quel coraggioso personaggio senza padre che si chiama Barak Obama: in tutti i continenti, gli studi sociologici riportano una forte correlazione della assenza di padre con il sottosviluppo e l’emarginazione. 

Un’altra cosa di cui non siamo abbastanza consapevoli è che il recente impetuoso sviluppo della Cina non è favorito solo dalla laboriosità, ma anche dal fatto che la sua percentuale di ragazze-madri è fra le più basse del mondo. Naturalmente, questa è una condizione necessaria ma non sufficiente: sappiamo che il mondo arabo è formato in gran parte da famiglie stabili, ma è lontano dal possedere altri aspetti culturali che permettono lo sviluppo cinese.

 

I maschi fragili

 

Torniamo là dove siamo partiti. Da che esistono gli esseri umani, i maschi cercano le femmine: una ricerca inizialmente stimolata dall’eros, ma che si ramifica poi in forme complesse, e soddisfa bisogni di affetto, di collaborazione, di legami. Se le leggi, le condizioni sociali e quelle demografiche cooperano, l’incontro sarà stato il primo passo verso la costituzione di una società stabile e ricca: come nel caso dei protestanti che fondarono gli Stati Uniti. Se invece la società non contribuisce a incanalare gli impulsi, si formerà – come nell’America Latina – un mondo più fragile: dove gli uomini, invece che capifamiglia, spesso diventeranno maschi del branco, rissosi, competitivi. E ipersessualizzati come adolescenti, indipendentemente dalla loro età. Come dicevamo, nel mondo di cultura araba la famiglia è rimasta relativamente forte. Ma la sua struttura è arcaica. Sotto l’urto improvviso causato dalla modernità, gli uomini immigrati perdono d’un colpo gli antichi privilegi patriarcali, in Europa ormai inaccettabili. Regrediscono così alla forma identitaria che, tanto nell’individuo come nello sviluppo storico, precede quella paterna: si trasformano nei maschi del branco.

Il mio amico Martin mi scrive da Monaco di Baviera: Noi europei stiamo ricevendo un conto del colonialismo. Prima trattiamo tutto il resto del mondo come bestia da fatica. Poi ci lamentiamo perché i loro figli che approdano da noi hanno “difficoltà di integrazione”: come se queste non avessero un rapporto con l’arretratezza in cui ci è stato comodo mantenerli.

 

 Certo, il comportamento di molti immigrati nella notte di Capodanno tedesca ha stupito anche gli studiosi di antropologia. Ora populisti e razzisti potranno presentarli come ingrati e incivili, anche per fatti di cui non sono responsabili: il reato sessuale ha una provata tradizione di servire come pretesto per sbarazzarsi degli avversari, dalla Bibbia alle elezioni americane. Ci sono in definitiva due modi per affrontare i fatti di Colonia. Il primo è di breve periodo. La forza pubblica dovrà prevenire certi assembramenti, sviluppare la videosorveglianza, intercettare i messaggi che hanno permesso ai molestatori di radunarsi (probabilmente usando semplici cellulari). Il secondo corrisponde a uno sguardo che va lontano. Forse uno sguardo-Merkel: visione messa in atto da una personalità politica che è memore dei reati nazisti, della Germania comunista e dei milioni di donne violentate dai vincitori nel 1945. Accogliere – oggi come ieri, come nella “conquista” seguita a Colombo – grandi masse di maschi senza famiglia equivale all’innesto di una pianta avvelenata, che può contaminare la società per generazioni. Due terzi dei richiedenti asilo in Germania sono maschi, e per la quasi totalità provengono da società in cui la sessualità è fortemente repressa. Un rischio superato solo da quello dell’Italia, dove i richiedenti, pur in numero molto minore, sono maschi al 90% (Economist 16/1/16 p. 26, da Eurostat). 

 

Quando un paese apre le sue frontiere per ragioni umanitarie (inevitabilmente impastate a qualche calcolo) ha il diritto di porre condizioni; e di farlo non in modo disordinato, ma mettendo in atto qualche filtro. Alcuni li conosciamo già: il più evidente è il tentativo di identificare e respingere chi ha dei precedenti ritenuti criminali. Le quote di immigrazione non sono gradevoli, ma sono sempre esistite: gli Stati Uniti hanno mantenuto il loro carattere anglosassone proprio usando per secoli questo filtro. 

Se gli americani hanno dato tanto a lungo una precedenza migratoria (razzista, certo) agli europei rispetto agli africani o asiatici, la signora Merkel potrebbe proporla per le immigrate donne (precedenza sessista, ma opposta al tradizionale sessismo maschilista): o, almeno, dare la precedenza a famiglie già composte. Persino nei momenti di emergenza epocale, come quella dei milioni di esseri in fuga dalle guerre del Medio Oriente, non è affatto impensabile dare un accesso privilegiato non solo alle famiglie già formate, ma in generale ai soggetti più deboli rispetto ai maschi adulti: quando è attuata in senso positivo, “cavalleresco”, una forte discriminazione tra i due gruppi è del resto proprio una delle caratteristiche che il mondo occidentale rispetta in quello arabo. Nonostante tutto, si tratta di uno dei non molti principi di giustizia e umanità che si è tentato di conservare in ogni epoca: quando una nave affonda, mi fa notare Martin dalla Germania, la poca o molta autorità rimasta a bordo è tenuta ad impedire che sulle scialuppe si precipitino i più forti, e deve tenerli indietro finché non si sono imbarcati i più deboli, donne e bambini.

Nessuna società, in nessun angolo della storia, ha finora dato alle esuberanze dei giovani maschi una risposta più stabile di quella – imperfettissima ma reale – offerta dalla famiglia: certo, è sempre esistito anche il mercato del sesso, ma con risvolti che sono tragici e con risultati effimeri. 

    

I nostri tempi

 

All’inizio degli anni ’70, molti giovani europei andavano in India in autostop. Anche ragazze. Per farlo, attraversavano paesi oggi considerati l’inferno in terra: Medio Oriente, Iraq, Iran, Pakistan, Afghanistan. I paesi – ieri come oggi – più profondamente mussulmani del mondo. Non ho mai sentito parlare di ragazze violentate, abusate o anche solo disturbate. Raccontavano della distanza, ma anche della grande cortesia e dignità dei locali: se avevi chiesto una informazione, non potevi ripartire senza che ti avessero offerto una tazza di tè. Ne ho testimonianze dirette. Una di quelle ragazze di ieri è mia moglie oggi. 

Perché i figli di uomini rispettosi, addirittura ospitali, si sono trasformati nei molestatori e stupratori di Colonia? Il mondo tutto ci sembra cambiato. I giovani alternativi che negli anni settanta andavano verso Oriente erano condotti da entusiasmo, curiosità, ingenua gioia. I figli di quelli che allora offrivano loro il tè, ora viaggiano verso Occidente per disperazione: e incontrano i figli diffidenti di quelli che dai loro padri erano stati accolti sorridendo. 

Anche riunendo politologi, psicoanalisti, sociologi, storici, difficilmente avremmo una spiegazione completa di un rovesciamento così multidimensionale. Ma è sicuro che la nostra tendenza al calcolo e la scomparsa di antiche virtù quali l’ospitalità e il rispetto hanno avuto in questo un ruolo centrale.

 

Una versione più breve di questo testo è stata pubblicata il 19/2 sul settimanale cultura di Clarin, Buenos Aires e il 26/2 su Venerdì di Repubblica.

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