Una politica culturale premeditata e lungimirante? / Imprese creative e culturali

27 Settembre 2017

Vi sono le condizioni, in Italia, affinché le imprese creative e culturali, sottoposte all’attenzione parlamentare, proprio in questi mesi, sui modi in cui riformarne la disciplina per valorizzarle, possano influire esse stesse, e per prime, alla qualità della regolazione alla quale saranno assoggettate? Il legislatore del nostro Paese, che si sta meritoriamente ponendo il problema, si accinge a prendere provvedimenti conformi a modelli di politica culturale premeditati e lungimiranti?

 

La domanda e l’offerta regolativa sono cioè destinate a corrispondersi o a mancarsi (se non – peggio – a respingersi)? Per affrontare sensatamente domande del genere occorre prima chiedersi quali siano, in astratto, le tecniche normative utilizzabili, quindi verificare quali strumenti forniscano incentivi senza limitarsi a elargire sussidi; cioè andando davvero al cuore del problema. A mio modo di vedere, come ho sostenuto in un precedente articolo (L’impresa culturale italiana: genio e regolatezza, conta anzitutto e più di altro il saper mettere le imprese culturali in condizioni di autoregolarsi efficacemente. Sicché provo a spiegarmi meglio, ma anticipo che in questa occasione devo per forza prenderla alla lontana e stare sul generale. Non si tratta però di questioni solo teoriche, bensì di impostazioni che hanno una ricaduta pratica letteralmente fondamentale, in primis per gli operatori. Soprattutto perché, quando ne sia stata adottata una, la scelta regolativa risulta pressoché irreversibile, e ha comunque effetti di lungo periodo.

 

È prioritario e preferibile il «dare le regole» – da parte del legislatore, alle imprese culturali – o il «darsi le regole» – da parte delle imprese culturali? Occorre fare entrambe le cose, ovviamente, ma il peso di tali componenti può variare di molto a seconda delle scelte di politica del diritto culturale che si compiano a monte. Cercherò dunque di mappare il terreno di gioco (regolativo). A che scopo? Per ora, limitarsi a prendere atto di quanto numerose siano le variabili in campo e capire, proprio in ragione di tale molteplicità e multiformità di soluzioni, quale sia l’approccio che sia più conveniente seguire.

 

 

La partita è complessa da decifrare e, prima ancora di schierare la formazione, si pone un’alternativa di fondo: si può puntare sul collettivo (il sistema economico – qui, il settore culturale), e si può confidare nel talento dei singoli giocatori (i soggetti giuridici – qui, le imprese culturali). Sia nell’uno sia nell’altro caso è dato optare per tattiche diverse, più o meno difensiviste: nel primo caso, cioè se si agisca sul sistema, sono disponibili soluzioni di carattere palliativo, se si disponga già di una compagine di campioni, e soluzioni di carattere eziologico, se gli atleti abbiano buone gambe ma poca testa. Nel secondo caso, cioè se si punti sui singoli, sono disponibili soluzioni mimetiche, che si adattino alle caratteristiche dei giocatori, e soluzioni ortopediche, che li forzino a seguire un dato schema.

 

Entrambe le strategie possono essere applicate con polso diverso, ottenendo effetti inclusivi od escludenti: assecondando le caratteristiche della squadra a disposizione, per quanto scarsa, pur di non destabilizzare il gruppo; o non rassegnandosi alla «broccaggine» di alcuni e imponendo, in termini più o meno ruvidi a seconda del proprio carattere, il proprio schema organizzativo (e chi non si adegui, perché non vuole o non riesce, si accomodi in panchina). Occorre infine aver chiaro quanta fiducia dare alla vecchia guardia della squadra, trattandola come se fosse intoccabile e da favorire a prescindere – se parlassimo di attività creative, e non sportive, potremmo appellarci all’«eccezione culturale» rappresentata dai nostri campioni nazionali – e allora potranno prevalere le indicazioni di carattere regolamentare, ossia protettive e vincolanti, o di carattere promozionale, ossia tese a mettere in competizione i giocatori (e schierare i «senatori» solo se arrivino preparati alla partita). Già così è una bella gatta da pelare, per l’allenatore.

 

Passiamo alla formazione, che evidentemente dovrà essere composta tenendo conto del modulo che si intenda adottare. 

In primo luogo si può costruire il modulo attorno a talune caratteristiche di gioco dei propri atleti, a discapito di altre: giovane età o esperienza, solidità o velocità, senso tattico od estro creativo; un po’ come se, nello scenario culturale, prendessimo a cuore le attività esercitate da soggetti pubblici o grandi società di capitali, o invece da dinamiche imprese innovative, o, ancora, da hub e cooperative giovanili. I moduli di gioco possono poi indirizzare il movimento della squadra in senso tendenzialmente verticale od orizzontale – e a trazione anteriore o posteriore – come in ambito culturale accade quando si prendano provvedimenti calati dall’alto della filiera (top-down), o si cerchi di alimentare la creatività dal basso (bottom-up), e si confidi negli effetti di rete. La regia del gioco, infine, può essere affidata a singoli giocatori, o essere condivisa da un più nutrito nucleo di centrocampo; come quando si intenda valorizzare le eccellenze di imprese creative singolarmente considerate, o invece si intervenga a favore di insiemi affiatati di imprese (distretti industriali, gruppi e consorzi, sistemi metropolitani).

 

In secondo luogo bisogna decidere come fare applicare gli schemi di gioco. Se voglia che le proprie dritte siano stringenti, il mister si potrà servire di strategie imperative – cioè tassative, a pena di perdere il posto – o dispositive – cioè applicabili discrezionalmente, ma nel rispetto di uno schema prefissato – in entrambi i casi potendosi indurre comportamenti in campo, ma prima ancora in allenamento, più o meno collaborativi od egoistici. Come accade altresì nelle partite culturali, se chi dà le regole tenga ad avvantaggiare la trasmissione e la condivisione del talento e delle idee, o invece a valorizzarne la segretezza e l’esclusività. In tutti i casi gli incentivi sono determinanti: per invogliare buone prestazioni l’incentivo può assumere la forma di un premio-partita (sussidio diretto, che incentiva l’offerta culturale).

 

Ma la società sportiva può guadagnarci anche portando più spettatori allo stadio – indipendentemente dalla bontà della squadra – abbassando il prezzo dei biglietti o rendendo gradevole l’accesso e i servizi connessi all’evento (in tal caso il sussidio è indiretto, e incentiva la domanda culturale). 

In terzo luogo – ma le squadre forti sanno che occorre cominciare da qui, per costruire un ciclo di successo – non ci si può limitare a colpi di mercato di fine stagione, con ottica di breve periodo, ma occorre fertilizzare la creazione la diffusione di conoscenza e saperi, nella forma della loro trasmissione intergenerazionale e della loro condivisione tra pari; d’altronde, si sa: la classe è acqua. Parliamo insomma, su tutti i terreni, di nutrire il vivaio, coltivare le scuole di ogni arte, le palestre del mestiere, premiare le eccellenze senza dimenticare che è sempre il collettivo a fare la differenza, che è solo il bel gioco che fa appassionare i nostri figli, e che una vittoria ottenuta in uno stadio blindato, di una periferia degradata, non è certo un successo.

 

Come vogliamo affrontare le prossime partite? Personalmente posso parlare solo delle singole imprese, e delle loro squadre (reti cognitive, hub innovativi, distretti culturali), in termini giuridici. Posto che non esiste uno schema di gioco, cioè un modello organizzativo, valido per tutte, e forse proprio per questo, occorre darsi delle priorità regolative. Io credo che, volendo legiferare avendo a cuore le sorti di lungo periodo delle imprese creative, la soluzione preferibile risieda anzitutto nel concentrare l’attenzione sulla dimensione privatistica e capitalistica in cui esse operano, dato che l’impresa commerciale è il mezzo economico che media meglio tra proprietà e controllo, senza per questo – si badi – dover essere necessariamente lucrativa, né, all’opposto, esercitare per forza la propria attività nel settore (e secondo le regole) del nonprofit. In altri termini, tornando al principio: al disporre statuti speciali è preferibile il creare le condizioni affinché le imprese culturali possano autoregolarsi ed esprimere al meglio il proprio talento (ma senza improvvisare), valorizzare la propria unicità schierandosi in squadre in cui si divertano e che le arricchiscano, integrando l’eccezionalità culturale nell’ordinarietà di un lavoro meritorio e profittevole. Vi sarà occasione, prossimamente, per riprendere il discorso da qui – fuor di metafora però – e cominciare a giocare davvero.

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